Il Leviatano - anno II - n. 6 - 19 febbraio 1980

noiosa ripetizione di testimonianze precedenti, per altro verso rimane un contributo essenziale per comprendere gli avvenimenti che hanno sconvolto e continuano a sconvolgere l'Iran. Figura enigmatica e contraddittoria, sicuro di sé sino all'arroganza, non privo di una sua solitaria grandezza, diviso tra una devozione visionaria all'Islam e una concezione moderna delle cose, Reza Pahlavi ha finito con l'essere travolto dalla sua stessa sicurezza. Per questo la sua «Risposta», se testimonia spesso di una grande lucidità di giudizio, riesce solo parzialmente a chiarire le ragioni profonde di una crisi che ha gettato un popolo intero nel caos e forse il mondo sull'orlo del conflitto nucleare. Rimane comunque un documento appassionato e inquietante, che, come ha scritto di recente «L'Aurore», rion mancherà di •provocare agitazioni in quelle che sino ad ieri era consuetudine chiamare cancellerie». Non credo che alcuno possa mettere in dubbio il ruolo che i Pahlavi, e in particolare l'ultimo scià, hanno avuto nel processo di ammodernamento della Persia, in quel salto verso il mondo moderno che per la Turchia aveva rappresentato il regime di Kemal Atatiirk, o prima, per il Giappone, l'era Meiji. Ma rapertura all'Occidente, la laicizzazione dello Stato, il processo di rinnovamento delle strutture, la lotta contro l'ignoranza e la corruzione dovevano urtare interessi troppo potenti, provocando l'accumularsi di fortissime resistenze e tensioni interne, che una particolare collocazione geopolitica ed un critico contesto internazionale avrebbero portato al livello d'esplosione. Ora egli riconosce, in uno sforzo appassionato di autocritica, tutta una serie di errori e di decisioni affrettate, i cui effetti potevano essere previsti tempestivamente anche se minimizza o circoscrive gli eccessi del regime, i sistemi repressivi della Savak, i casi di tortura e gli assassinii politici, così come gli episodi di corruzione o di venalità della classe dirigente e in seno alla stessa famiglia imperiale; e trova giustificazione alle scelte autoritarie nella necessità di una «mobilitazione generale» di tutte le risorse naturali ed umane in una situazione di emergenza. Una situazione in cui avrebbe fatto· da detonatore la campagna di opinione scatenata contro il regime, alla fine del 1976, da oppositori radicali e di sinistra, cui ai primi del 1978 si sarebbero aggiunti i mullah, i quali avrebbero usufruito anche dell'appoggio esterno e determinante di forze diverse interessate a rovesciare il regime (la Libia, altre potenze?) Reza Pahlavi denuncia senza mezzi termini anche le multinazionali del petrolio, le quali addirittura dal 1958, anno della nazionalizzazione dei giacimenti iraniani, avrebbero avuto un ruolo nella campagna di denigrazione e nella recrudescimza di attività sovversive che minacciavano da lungo tempo la stabilità del paese. Negli ultimi anni poi la lobby del petrolio avrebbe lavorato attivamente alla caduta del regime, anche al rischio delle gravi conseguenze internazionali di una crisi energetica, pur di non dare il proprio assenso alla politica del petrolio a giusto prezzo invocata da Teheran. Una delle conclusioni che emergono dalle considerazioni dello scià è quindi quella secondo cui la •congiura criminale» che ha posto fine al suo regime, ha tra i tanti effetti, anche quello di permettere ad altri di «riprendere per proprio conto e per proprio profitto la politica detta del petrolio caro, del petrolio cioè al suo giusto valore». Renaio Grispo IL LEVIATANO COMUNISTI Politica e intellettuali IL NUMERO 4 DI «RINASCITA• (25 GENNAIO) pubblica la tavola rotonda che conclude il «dibattito sulla politica del PCI e gli intellettuali», aperto il 26 ottobre 1979 da Aldo Tortorella. Il dibattito ha visto partecipare, tra gli altri, Giuseppe Vacca, Salvatore Veca, Nicola Badaloni, Biagio De Giovanni, Luciano Gruppi, Giacomo Marramao, Massimo Cacciari, Gabriele Giannantoni, Alberto Asor Rosa, Giorgio Napolitano, Remo Bodei, Giuseppe Gavioli. Alla tavola rotonda partecipano Asor Rosa, Badaloni, Tortorella, Luciano Barca e Massimo Boffa. Il dibattito era partito dalla constatazione del fallimento degli obiettivi del convegno dell'Eliseo, nel gennaio 1977, in cui Berlinguer aveva fatto il tentativo di coinvolgere strati intellettuali in un progetto di trasformazione fondato sulla parola d'ordine del1' «austerità». Si chiedeva agli intellettuali - come dice Tortorella nell'intervento di apertura - •di farsi protagonisti e autori della trasformazione, a partire dal loro specifico, in quanto portatori di conoscenza». Invece, osserva Tortorella, «vi furono fin dall'inizio deformazioni pesantissime: fino al puro e semplice rovesciamento del vero». Si disse- che il PCI aveva chiesto agli intellettuali di essere i propagandisti della sua linea politica, e contemporaneamente venne alimentata una campagna sulla repressione del dissenso da parte di comunisti. La reazione di Tortorella è comprensibile, e in parte - ci sembra - anche giustificata. E tuttavia è difficile immaginare che un partito politico si rivolga agli intellettuali unicamente per invitarli alla ricerca pura. Non occorre una dose eccessiva di malizia per sospettare che la speranza segreta che anima operazioni del genere sia quella di vedere trionfare, con il conforto degli specialisti, il proprio «punto di vista•. E infatti, come precisa Tortorella, il PCI è un partito laico (l'affermazione, come è noto, era già contenuta nella lettera di Berlinguer al vescovo di Ivrea), ma ALDO TORTORELLA 11

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