campo, occorre si prenda atto che un nuovo equilibrio potrà essere trovato solo se i vantaggi che strategicamente i sovietici si sono assicurati andando in Afghanistan saranno pagati da svantaggi che, alla lunga, risultino troppo gravosi. Ma occorre dire anche qualche cosa di più. Ha acutamente fatto rilevare Vittorio Strada, sul «Corriere» del 9 gennaio, avendo sotto occhio la posizione assunta dai dirigenti del suo partito, che l'intervento sovietico in Afghanistan viene condannato in nome del principio per cui «la rivoluzione non si può esportare». «Insomma - commenta Strada-, i "rivoluzionari" sovietici, secondo i latori di questo commento, sarebbero quello che per la sinistra extraparlamentare (o per una sua parte) sono i terroristi: "compagni che sbagliano"». E aggiunge: «E se i generali sovietici non si sognassero affatto di "esportare la rivoluzione" e non fossero affatto "rivoluzionari", ma svolgessero una "normale" azione che una grande potenza può permettersi e, in determinate circostanze, deve permettersi ai fini di una sua strategia globale?». In altre parole, il dissenso che il PCI esprime nei confronti dell'intervento sovietico si esprime all'interno di uno schieramento che si continua a ritenere comune, quello dei rivoluzionari, quello dei comunisti; la grande famiglia di cui, malgrado i dissensi, continuano a far parte comunisti italiani e sqvietici, francesi e afghani, vietnamiti e cinesi. E un dissenso perciò che rimane all'interno di una scelta di civiltà opposta alla civiltà dell'Occidente, la quale resta i/ nemico del comunismo, anche se da combattere, per gli italiani, in forme diverse da quelle dei sovietici. Ha ragione Lucio Magri quando, facendo propria nell'ultimo Comitato centrale del PdUP la richiesta di un governo con la partecipazione dei comunisti, giudica che un siffatto governo «avrebbe oggi la funzione di µn "acceleratore" e di un "destabilizzatore" dei vecchi equilibri», poiché «le scelte di politica internazionale ed economica che ormai premono verrebbero subito ad intaccare l'uno o l'altro dei blocchi sociali dell'alleanza» («L'Unità», 13gennaio). I comunisti non hanno mai nascosto quale sia la loro prospettiva strategica, da perseguire attraverso la scelta tattica del «compromesso storico». Hanno sottolineato la loro autonomia e indipendenza da Mosca, sulla quale è lecito nutrire dubbi ma della quale è anche doveroso registrare i segni, quando compaiono. Prospettano, da più di vent'anni ormai, una loro particolare via al socialismo, diversa da quelle già battute. Assicurano il rispetto delle libertà democratiche anche quando saranno al potere. Ma non possono tuttavia, senza cessare di essere se stessi, rinunciare alle ragioni della loro esistenza, che si riassumono nel prospettare «radicali cambiamenti» del «sistema» interno e dei rapporti internazionali dell'Occidente, che noi vogliamo invece, dove è necessario, migliorare, ma non capovolgere. Che tutto questo i comunisti dichiarino oggi di voler fare rispettando le regole della democrazia è un fatto positivo del quale, avendo le opportune garanzie, ci si deve rallegrare. Ma perché debbano essere coloro che hanno scelto una civiltà diversa ad aiutare i comunisti ad arrivare al potere sfugge al senso comune. Fuori dal rispetto delle regole democratiche, i comunisti potrebbero, di fatto, senza averne il diritto, prendere il potere; nel rispetto della democrazia i comunisti hanno invece il diritto di accedere al governo: ma con i loro voti, non con quelli del settanta per cento degli italiani che al governo non li vogliono. UNA CAROVANA DI NOMADI KIRGHISI DISCENDE DAGLI ALTOPIANI DEL PAMIR IL LEVIATANO J
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