Il Leviatano - anno II - n. 2 - 22 gennaio 1980

2 500 lire ILLEVIATANO settimanaledi commentopolitico ---•♦•---- Non c'è sulla Terra chi sia superiore al Leviatano, il quale è /alto per non avere paura: egli guarda in faccia L'arte imita quel razioMle e più eccellente lavoro della natura che è l'uomo. Poiché con l'arte è creato quel gran Leviatano, chiamato Stato (in latino civitas), il quale non è che un uomo artificiale, benché ài maggiore statura e forz,a del naturale, per la protezione e difesa del quale fu concepito. tullo ciò che è eccelso, egli è re su tulle le creature più superbe. (Giobbe, XLI. 25-26/ Il grande leviatano è quell'unica creatura al mondo che dovrà restare senzt, ritratti sino alla fine. Questo Leviatano ci scende addosso, dibattendosi dalle fonti de/l'Eternità. (H. Melville. Moby Dick, capp. LV. CV) in questo numero~ (T. Hobbes.-Leviatano, Introduzione) E quante nature poetiche non ho incontrato Qjfa110? E quante ne hai strangolate t~ nel corso di questi decenni, maledello leviatano? (A. Solienicyn. Arcipelago Gulag, V, 5) Perché è debole la socialdemocrazia? Rispondono De Felice, Romeo, Settembrini Sterpa contro lo statalismo Ricci sui comunisti e l'Iran L'invasionedell'Afghanistan: ambiguità del dissenso del PCI GirolamoCotroneo sull' «eresia liberale» Che cosa è in gioco nel Comitato centrale socialista L'ambigua vicenda dei missili di Pifano Collaboratori: GIOVANNI ALDOBRANDINI, GIUSEPPE ARE. DOMENICO BARTOLI. GIUSEPPE BEDESCHI. ENZO BETTI· ZA, PAOLO BONETTI. LUCIANO CAFAGNA. VENERIO CATTANI, LUCIO COLLETTI. VEZIO CRISAFULLI. RENZO DE FELICE, PAOLO DEMARTIS, CELSO DESTEFANIS. SIRIO DI GIULIOMARIA, GIANNI FINOCCHIARO. ALDO GAROSCI. PIER CARLO MASINI. NICOLA MATTEUCCI, RENATO MIELI. SANDRO PETRICCIONE, ALDO G. RICCI. GUIDO RILLETTI, ROSARIO ROMEO, ALBERTO RONCHEY. DOMENICO SETTEMBRINI, GIUSEPPE TAMBURRANO, PAOLO UNGARI, GUELFO ZACCARIA. Direttore responsabile: GIULIO SAVELLI 22 gennaio 1980

EDITORIALE La grande famiglia NoN CREDIAMO cr srA BISOGNODr sPENdere neanche un rigo per spiegare perché pensiamo che si abbia bisogno, finalmente, di una sicura guida politica, di una stabile maggioranza, di un governo autorevole in grado di affrontare i problemi della crisi economica, sociale, morale, che travaglia il nostro Paese. Un governo autorevole presuppone una maggioranza stabile; una maggioranza stabile presuppone la concordia tra i partner che la compongono sulle cose da fare e sui principi fondamentali che devono guidare l'azione del governo. Bene. Limitiamoci alla politica internazionale. È possibile un governo autorevole, una maggioranza stabile, un programma concordato con il Partito comunista? A noi, francamente, sembra di no. Il mondo, piaccia o non piaccia, è diviso in due blocchi contrapposti, l'uno guidato dalJa Russia, l'altro dagli Stati Uniti. La pace, da trentacinque anni, si regge su un difficile equilibrio economico, politico, militare tra questi due blocchi: un equilibrio a volte rimesso in discussione, modificato in alcune circostanze anche non marginali; ma che pure è necessario garantire nei suoi punti essenziali, se non si vuole precipitare nella catastrofe nucleare. Componente fondamentale di questo equilibrio è la compattezza dell'Alleanza atlantica. Lo hanno ammesso anche i comunisti italiani, che hanno dichiarato, a più riprese, che non intendono, per il momento, «rimettere in discussione,( 'appartenenza dell'Italia alla NATO e al mondo occidentale. Ma se questa posizione anodina avrebbe potuto forse essere sufficiente in un momento in cui la scena internazionale si fosse presentata «tranquilla» (una definizione che, a dire il vero, non ci sembra si attagli a nessuna epoca del dopoguerra, continuamente turbato da guerre locali o civili che hanno sempre coinvolto gli interessi delle grandi potenze), oggi che il confronto si fa più ravvicinato, l'equilibrio più incerto, occorre rinserrare le fila; non bastano ormai sottili «distinguo»: è indispensabile una più stretta cooperazione, una più fidata solidarietà. È il Partito comunista disponibile per questa politica internazionale? I comunisti rispondono onestamente di no. Alessandro Natta, correttamente, smentisce, sul «Corriere della sera» dell' 11 gennaio, che l'atteggiamento del PCI sulla questione dell'Afghanistan possa essere 2 considerato una «svolta storica» e ricorda l'analogo giudizio espresso «nel '68, dopo l'intervento sovietico in Cecoslovacchia». Ma tra l'intervento in Cecoslovacchia e quello in Afghanistan c'è una profonda differenza: il primo, per quanto appaia mostruoso e in ogni caso chiarificatore della reale natura dell' «internazionalismo» di Mosca, fondato sul principio imperiale della «sovranità limitata» dei Paesi socialisti, nasceva però anche, se non soprattutto, dal timore che l'equilibrio tra le superpotenze fosse turbato; l'invasione dell'Afghanistan invece è esattamente un atto di forza per modificare quello equilibrio a favore di una parte. Il dato caratterizzante dell'azione russa non è forse il fatto che, per la prima volta nel dopoguerra, la Russia occupa militarmente un Paese ufficialmente non allineato, regolarmente rappresentato alla recente conferenza dell'Avana? E come si può pensare che un gesto esplicitamente aggressivo non incontri una ferma risposta da parte dell'Occidente? Proprio perché è necessario arrestare una logica il cui sbocco non può che essere un conflitto di proporzioni apocalittiche, proprio perché è necessario salvare la pace, i russi debbono pagare un prezzo, il più elevato possibile, per quello che lo stesso Partito comunista definisce una «inammissibile violazione» dei principi fondamentali della pacifica coesistenza tra i popoli. L'Occidente, in altre parole, deve compiere tutte quelle azioni, dall'aiuto ai patrioti afghani, al blocco delle forniture di merci strategiche, al rafforzamento del proprio apparato di difesa, che convincano il Cremlino che l'aggressione non paga. Se il bilancio dell'invasione dell'Afghanistan sarà per i russi, alla fine, positivo, si può essere certi che l'offensiva sovietica non si fermerà a Kabul. Quale linea di politica estera propongono invece i comunisti italiani? Una linea di protesta verbale - che ha, certamente, il suo peso (non riteniamo utile mettere sullo stesso piano chi dissente e chi consente con il Cremlino) ma che, lo si ammetterà, non ha mai spaventato troppo le dittature -, e il mantenimento però di una politica di «distensione», come se nulla fosse accaduto. Se c'è qualcuno che pensa di poter persuadere i sovietiçi ad andarsene gratis da Kabul, si faccia avanti; se invece, escludendo una risposta militare, si auspica sinceramente una trattativa che li induca a sgombrare il 22 GENNAIO 1980

campo, occorre si prenda atto che un nuovo equilibrio potrà essere trovato solo se i vantaggi che strategicamente i sovietici si sono assicurati andando in Afghanistan saranno pagati da svantaggi che, alla lunga, risultino troppo gravosi. Ma occorre dire anche qualche cosa di più. Ha acutamente fatto rilevare Vittorio Strada, sul «Corriere» del 9 gennaio, avendo sotto occhio la posizione assunta dai dirigenti del suo partito, che l'intervento sovietico in Afghanistan viene condannato in nome del principio per cui «la rivoluzione non si può esportare». «Insomma - commenta Strada-, i "rivoluzionari" sovietici, secondo i latori di questo commento, sarebbero quello che per la sinistra extraparlamentare (o per una sua parte) sono i terroristi: "compagni che sbagliano"». E aggiunge: «E se i generali sovietici non si sognassero affatto di "esportare la rivoluzione" e non fossero affatto "rivoluzionari", ma svolgessero una "normale" azione che una grande potenza può permettersi e, in determinate circostanze, deve permettersi ai fini di una sua strategia globale?». In altre parole, il dissenso che il PCI esprime nei confronti dell'intervento sovietico si esprime all'interno di uno schieramento che si continua a ritenere comune, quello dei rivoluzionari, quello dei comunisti; la grande famiglia di cui, malgrado i dissensi, continuano a far parte comunisti italiani e sqvietici, francesi e afghani, vietnamiti e cinesi. E un dissenso perciò che rimane all'interno di una scelta di civiltà opposta alla civiltà dell'Occidente, la quale resta i/ nemico del comunismo, anche se da combattere, per gli italiani, in forme diverse da quelle dei sovietici. Ha ragione Lucio Magri quando, facendo propria nell'ultimo Comitato centrale del PdUP la richiesta di un governo con la partecipazione dei comunisti, giudica che un siffatto governo «avrebbe oggi la funzione di µn "acceleratore" e di un "destabilizzatore" dei vecchi equilibri», poiché «le scelte di politica internazionale ed economica che ormai premono verrebbero subito ad intaccare l'uno o l'altro dei blocchi sociali dell'alleanza» («L'Unità», 13gennaio). I comunisti non hanno mai nascosto quale sia la loro prospettiva strategica, da perseguire attraverso la scelta tattica del «compromesso storico». Hanno sottolineato la loro autonomia e indipendenza da Mosca, sulla quale è lecito nutrire dubbi ma della quale è anche doveroso registrare i segni, quando compaiono. Prospettano, da più di vent'anni ormai, una loro particolare via al socialismo, diversa da quelle già battute. Assicurano il rispetto delle libertà democratiche anche quando saranno al potere. Ma non possono tuttavia, senza cessare di essere se stessi, rinunciare alle ragioni della loro esistenza, che si riassumono nel prospettare «radicali cambiamenti» del «sistema» interno e dei rapporti internazionali dell'Occidente, che noi vogliamo invece, dove è necessario, migliorare, ma non capovolgere. Che tutto questo i comunisti dichiarino oggi di voler fare rispettando le regole della democrazia è un fatto positivo del quale, avendo le opportune garanzie, ci si deve rallegrare. Ma perché debbano essere coloro che hanno scelto una civiltà diversa ad aiutare i comunisti ad arrivare al potere sfugge al senso comune. Fuori dal rispetto delle regole democratiche, i comunisti potrebbero, di fatto, senza averne il diritto, prendere il potere; nel rispetto della democrazia i comunisti hanno invece il diritto di accedere al governo: ma con i loro voti, non con quelli del settanta per cento degli italiani che al governo non li vogliono. UNA CAROVANA DI NOMADI KIRGHISI DISCENDE DAGLI ALTOPIANI DEL PAMIR IL LEVIATANO J

BLOCKNOTES A Chieti sale la nebbia NON SAPPIAMO, ANCORA, SE LA LEITERA ES/- bit a dall'onorevole Mellini al Tribunale di Chieti, con la quale il Fronte popolare per la liberazione della Palestina rivendica la proprietà dei lanciamissili sequestrati a Pifano e compagni il 7 novembre dello scorso anno, sia un falso o un gesto di compiacenza, come può lasciar credere la sua data del 2 gennaio 1980. Vale a dire dopo due mesi dall"arresto dei tre autonomi colti con le mani nel sacco. Certo è che gran parte del senso della lettera è talmente contraddittorio e illogico da renderla puerile se non addirittura assurda. Non si capisce infatti come e quanto essa possa avvantaggiare Pifano e compagni i quali, anche se ingaggiati semplicemente in una operazione di basso e rischioso facchinaggio, si vedono trasformare il loro reato da detenzione di armi da guerra (massimo cinque anni di galera), in una serie di reati per i quali le pene previste sono assai maggiori. Come altrettanto certo è che ci troviamo in una vicenda dai contorni torbidi sia sul piano della politica interna, sia su quello della politica estera del governo. La smentita della Presidenza del Consiglio con la quale, nel tirare fuori dall'oscuro episodio l'Ambasciata italiana a Beirut, si ammette esplicitamente che i servizi segreti italiani hanno preso contatto con l'organizzazione terroristica di George Habbash, e confermato la versione della sua lettera, senza peraltro «raccogliere prove» non avendone competenza «ai sensi delle leggi in vigore», come dice il comunicato del governo, non toglie nulla alla gravità della cosa. Né la precisazione da nessuno richiesta ma contenuta nella suddetta smentita, secondo la quale il Fronte popolare di Habbash è qualcosa. «ben diversa e distinta» dall'OLP di Arafat assolve il governo da certe responsabilità che gettano una luce sinistra sulla politica seguita nei confronti dei palestine~i e delle loro organizzazioni. E legittimo infatti domandarsi se le relazioni intrattenute con l'OLP, testimoniate dalla dichiarazione resa dal ministro degli Esteri nell'ottobre scorso - alla fine dei colloqui più o meno ufficiali (con relativo pranzo) con il numero 2 dell'OLP. Kaddumi - secondo la quale non vi erano più «ostacoli di principio» a una visita di Arafat in Italia, modifichino molto la sostanza dei fatti, considerato che il Fronte di Habbash fa parte dei più importanti organismi del1'OLP di Arafat. 1 fatti sono scandalosi poiché dimostrano che certi organismi dello Stato, sia pure segreti, conoscono i terroristi palestinesi, li contattano, raccolgono le loro «dichiarazioni di parte», accreditando proprietà di armi che viaggiano sulle strade della Repubblica a bordo di automezzi degli autonomi. E dimostrano ancora che la simpatia del governo verso i palestinesi non è, tutto sommato, lontana dalla pari simpatia degli autonomi, se non nel maggiore o minore estremismo dei rispettivi interlocutori. Arrivati a questo punto, il meno che si può dire è che il governo italiano appare invischiato in una politica di evidente doppiezza di grandi dimensioni. Doppiezza nei confronti dell'unità della sua politica estera con quella degli altri Paesi della CEE verso i palestinesi. Doppiezza nei confronti dello Stato d'Israele con il quale intrattiene rapporti diplomatici di reciproco rispetto e, supponiamo, di reciproca amicizia. Doppiezza nella sua lotta al terrorismo, giacché mentre da una parte combatte duramente contro il terrorismo italiano, di fatto conosce bene, contatta, e forse tollera quello palestinese. Non c'è dunque da meravigliarsi se alla doppiezza italiana corrispo:idesse quella dei palestinesi i quali importano od esportano (ancora non è chiaro) lanciamissili scarichi e inefficienti «con destinazione Italia o altri Paesi occidentali». (Per che cosa? Per ripararli? Per ricaricarli?). Con la complicità degli autonomi di via dei Volsci. Se così stanno le cose, quale attendibilità si può dare alla prima frase del comunicato della Presidenza del Consiglio che testualmente dice: «Nessun accordo è mai intervenuto tra governo italiano ed organi ordinari o speciali dell'amministrazione dello Stato ed organizzazioni palestinesi circa il deposito, l'importazione, l'esportazione, il trasporto, la detenzione in qualsiasi forma e per qualsiasi fine di armi nel territorio italiano da parte e per conto delle organizzazioni palestinesi»? E. infine, quale significato va dato alla frase conclusiva della lettera del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che gratuitamente afferma: «Desideriamo confermare che noi siamo e vogliamo restare amici del popolo italiano». Si tratta di una chiamata di correo? CONFERENZA STAMPA DI ARAFAT NEL CORSO DEL VERTICE ARABO ANTI SADAT, A BAGDAD 22 GENNAIO /980

Una minaccia di richiamo all'osservanza dei patti? Sono tutte domande alle quali bisognerà dare una risposta chiara e inequivocabile andando a fondo su questa incredibile e inquietante vicenda, sperando che attorno ad essa non sorgano le consuete nebbie del segreto di Stato. Tra incudine e Martelli Gianni Fi.rwcchiaro L'«AVANTII• DELL'll GENNAIO HA PUBBLI• cato un lungo articolo di Claudio Martelli dedicato a una serrata analisi della politica socialista negli ultimi tre anni. Su alcune cose dette da Martelli si può dissentire, ma ci sembra corretta la linea di fondo della sua posizione: e cioè che la segreteria Craxi ha avuto un merito innegabile, quello di avere restituito al PSI un volto, un'immagine, che la segreteria De Martino aveva scolorito, anzi svenduto. Questo volto, questa immagine sono stati costruiti con una decisa scelta occidentale e socialdemocratica sul piano internazionale e con una decisa scelta autonomistica sul piano interno. Sotto la direzione di Craxi è emerso, come dice Martelli, un polo socialista combattivo, che sfidava il PCI contendendogli la guida della sinistra e candidandosi a partito protagonista di una governabilità «occidentale». Le critiche che - a nostro avviso - si possono rivolgere a Craxi non riguardano questa scelta, ben- _sì, semmai, le incertezze e le ambiguità che l'hanno accompagnata: la tentazione di scavalcare a sinistra il PCI nella politica sindacale, la posizione eccessivamente «garantista» di fronte all'area dell'autonomia e dei fiancheggiatori del terrorismo, una certa qual vocazione culturale anarchico-libertaria (esaltata e amplificata, con voce stridula, dal alcuni signorini, emersi nel '68, e incautamente imbarcati da Craxi), a scapito di una responsabile cultura di governo. In ogni caso, ove dovessero prevalere, nel Comitato Centrale del PSI che sta per aprirsi, le tesi della sinistra, andrebbero perdute proprio le acquisizioni importanti e positive della segreteria Craxi, e il PSI si avvierebbe ad essere un piccolo vassallo incolore del PCI, come ai tempi di De Martino (ora riportato a galla da Lombardi e Signorile: davvero alle sciagure non c'è mai fine!). Il risultato immediato che ne seguirebbe è fin troppo facile da immaginare, e Martelli lo delinea assai bene: «Privata di ogni flessibilità, mutilata da ogni aspirazione socialita, ridotta · ad un diktat per conto terzi, ad un ultimatum del PSI alla DC per conto del PCI, la richiesta di un governo di unità nazionale avrebbe molte probabilità di ottenere lo stesso risultato già ottenuto nel '76 e nel '79, e cioè lo scioglimento anticipato delle camere. Con l'evidente corollario, già sperimentato, di avere un PSI sotto accusa per manifestata carenza di autonomia, guarda caso ancora una volta sacrificata dalla nota sinergia tra divisioni interne e subalternità esterne». · Ma non meno grave sarebbe il risultato di lungo periodo, sia sul piano internazionale (la sinistra socialista è stata contraria, non lo si dimentichi, al voto del PSI sugli euromissili), sia sul piano interno. -Perché, come mette efficacemente in rilievo Marte!- IL LEVIATANO li, il PSI sarebbe condotto a sottoscrivere una versione tipicamente comunista della «solidarietà nazionale», la quale non viene intesa da Berlinguer come una soluzione transitoria, bensì come una scelta organica, duratura, esclusiva. «Si direbbe - scrive Martelli - che la rigidità dell'alternativa berlingueriana "governo od opposizione" si sia ulteriorrnente accentuata nel dilemma di cui noi socialisti dovremmo farci carico così come viene prospettato: o il compromesso storico o un'opposizione strategica». Ma ciò significherebbe la fine del PSI in quanto forza autonoma. In realtà, come ha rilevato Lucio Colletti in un'intervista data a «La Stampa» (dell' 11gennaio), quello che sta rifiorendo in ampi settori del PSI è «lo stile dell'ultima fase della segreteria De Martino, di quando si cominciò a perorare la causa, anziché del proprio, di un altro partito. Se il partito comunista era indispensabile per bocca dello stesso leader del PSI, l'elettorato non poté che prenderne atto. Sta accadendo qualcosa di analogo». È facile immagina-. re poi, aggiunge Colletti, quale stabilizzazione sociale e politica comporterebbe l'ingresso del PCI nel governo in·questo momento internazionale, dopo gli avvenimenti afgani: alle resistenze interne si aggiungerebbero infatti le comprensibili reazioni dei nostri alleati occidentali. Bastano questi pochi cenni, crediamo, a far intendere quale sia la posta in gioco al prossimo Comitato Centrale del PSI, e quale la sua importanza per la sopravvivenza della democrazia in Italia. Bruno Anioni Fuori dalle « mentite spoglie» S, SUCCEDONO I CONGRESSI E I COMITATI centrali, ma il tema delle malinconie socialiste è inesauribile. Norberto Bobbio ha detto che «il Partito socialista o è un partito etico o non è». Noi ci accontenteremmo che fosse un partito politico, ben consapevole di quello che vuole e capace di seguire una linea strategica coerente. E, invece, siamo ridotti a questo, che certe verità sul socialismo italiano bi.sogna andarle a leggere sui giornali comunisti. In una tavola rotonda sul numero 2 di «Rinascita», lo storico Paolo Spriano afferma che, proprio mentre cresce un'area di intellettuali e tecnici socialisti, il PSI commette l'errore «di non richiamarsi più a una tradizione del socialismo italiano, tradizione che ha nel riforrnismo un suo punto fermo». Si imbarca l'ambiguo Proudhon, si guarda con sospetto al vecchio Turati. Perché dunque meravigliarsi se il Partito socialista resta fermo al misero 10% e non riesce a decollare come reale forza di alternativa? I partiti non si fanno con le tavole rotonde degli intellettuali e con l'occupazione massiccia delle redazioni giornalistiche e televisive. Le vere radici di un partito di massa stanno nella sua capacità di mantenere una certa memoria storica e di·entrare in contatto con la realtà diversificata e complessa della grande provincia italiana. Cari dirigenti socialisti, meno interviste ali' «Espresso» e più attenzione a quello che succede 5

in periferia, in tutti quegli organismi della società civile in cui, una volta, era così forte la presenza riformista e che sono oggi il serbatoio a cui attinge, anche nei momenti di crisi, il Partito oomunista. Si chiede Bobbio: «Ma come si fa oggi, di fronte alle tragedie del mondo, a continuare imperterriti nel giuoco del potere?•. Questo succede, probabilmente, perché si è perduto il senso della realtà e si vive immersi nel pantano della chiacchiera politica dove tutti i problemi che il Paese vive con rabbia e disperazione si riducono ad un esercizio di sterili equilibrismi. Se poi un ministro perde la pazienza e osa dire in pubblico quello che molti dicono e pensano in privato, non c'è altro da fare che redarguirlo come un bambino impertinente. Per tornare alle eterne, inguaribili malattie del Partito socialista, non crediamo che basti, per uscirne, stabilire •un rapporto più serio e più continuativo fra intellettuali e politici». È vero: c'è una vasta area intellettuale socialista che si muove attorno al partito e con la quale non si riesce a definire un giusto rapporto. Ma bisognerebbe anche cominciare a chiedersi se i tanti socialismi che ci vorticano attorno sono tra loro compatibili, e se è possibile tenere assieme chi crede in un socialismo capace, senza vergogna e senza complessi, di diventare cultura di governo, e chi continua, invece, sotto mentite spoglie, a inseguire i fantasmi del vecchio massimalismo. Perché, in definitiva, uni~ nazionale, pentapartito, alternativa sono tutte formule dietro cui si nasconde un interrogativo brutale al quale i socialisti debbono rispòndere in misura più urgente degli stessi NORBERTO BOBB/O a I LETTERE Editoria riformata Caro Savelli, l; I si stanno avvicinando le elezioni amministrative ed è giusto che i partiti si preparino. La legge sul finanziamento dei partiti avrebbe dovuto servire a risolvere i loro problemi finanziari senza che i partiti facessero ricorso ad altre fonti di finanziamento, direttamente o indirettamente. Purtroppo la volpe perde solo il pelo. Ho davanti a me un numero del mensile • Regione Lazio•. distribuito gratuitamente. Anche una rapida scorsa basta a far capire lo scopo che si pone questo mensile: fare propaganda per il partito comunista, in primo luogo, e per le altre forze politiche che governano la Regione Lazio. Ora mi domando: in un periodo di crisi in cui si dovrebbe amministrare con prudenza e saggezza il denaro pubblico. come mai una forza politica come quella comunista, che si è sempre atteggiata a •moralizzatrice•, ricorre a trucchi così bassi e così scoperti per farsi la propaganda elettorale con il soldi dei contribuenti? Ma allo6 ra che differenza c'è tra comunisti e democristiani da questo punto di vista? Sono convinto che nessun comunista si degnerà di rispondere a questo interrogativo e con questa certezza ti saluto. Aldo Maffei, Roma La lezione di Aldo Capitini Egregio direttore, ho letto con vivo interesse il saggio di Enzo Bettiza sul •liberalsocialismo•, comparso sul numero 8 del Leviatano. Pienamente d'accordo con le aspirazioni di Bettiza a tradurre in termini •reali• le alte idealità di Carlo Rosselli, desidererei che venisse approfondita, e non· liquidata in due righe, anche l'importante lezione politica, morale. religiosa di Aldo Capiti• ni, un pensatore che da sempre è stato troppo poco preso in considerazione perché scomodo e particolarmente «difficile•. Chi conosce il pensiero del filosofo perugino sa bene quanto gli stesse a cuore una concezione autentica• mente «liberalsocialista• della società in tutta la sua globalità. Si sa d'altronde che Capitini elaborò, con il Calogero (differenziandosene però molto a presto), una concezione del «liberalsocialismo• del tutto autonoma rispetto a quella del Rosselli. Come, infatti, è scritto in quella sorta di lirica autobiografica che è Antifa$Cismo tra i giovani, Capitini non lesse che dopo la Liberazione il libro di Carlo Rosselli sul Socialismo liberale ed in seguito poté confrontare le due ricerche: •La conservazione del termine "liberale" accanto al "socialismo" doveva ser• vire ad associare tutti i liberali che· si venissero "aprendo" al socialismo, e avessero capito che se fossero stati uniti al socialismo (nelle varie forme), avrebbero sbarrato la strada al fascismo; e doveva servire ad avvertire i comunisti filosovietici (cioè stalinisti) che non potevamo convenire con loro per un motivo essenziale•. Mi rendo perfettamente conto di non poter esaurire in una lettera un tema che richiederebbe maggiore al• tenzione da parte degli studiosi (sa• rebbe anche estremamente utile analizzare il nesso tra liberalsocialismo e nonviolenza, della quale Capitini fu non solo assertore coraggioso, in tempi ben più duri dei nostri, ma testimone di vita); pertanto le chiedo, con molta umiltà, di contribuire, tramite saggi, interventi. discussioni, a rendere noto l'insegnamento di Capitini, soprattutto alle nuove generazioni. La ringrazio. Francesco Pullia, Temi 22 GENNAIO 1980

comunisti: sono disposti a lavorare per far funzionare meglio questo tipo di società o intendono perdersi dietro l'aria fritta di socialismi che non si sono mai visti in essere? Paolo Bonetti L'oro della pace IL «BULLETIN FINANCIER SUISSE, DEL 13 Dicembre 1979 pubblica un prospetto molto chiaro sull'offerta e la domanda di oro (in quantità): Offerta di oro sul mercato libero (tonnellate) · Produzione occidentale (acquisti) / vendite Paesi dell'Est (acquisti) / vendite FMI e altre autor. mon. TOTALE 1970 1974 1978* 1979** 1.274 1.008 969 1.010 (3) 220 430 390 (236) 20 414 550 1.035 1.248 1.813 1.950 Domanda di oro sul mercato libero (tonnellate) Industria Investimenti e tesaurizzazione 1.272 437 1.248 1.310 (337) 516 305 390 L'offerta dei Paesi dell'Est (essenzialmente l'URSS) è ritenuta da Nicholas Colchester (•Financial- Times», 4/1/80) inferiore a quella sopra indicata: solo 200/300 tonnellate contro le 400 circa del 1978: il che porterebbe l'offerta totale, nel 1979,a 1.820tonnellate contro le 1.750 del 1978. Il comportamento dell'URSS sul mercato dell'oro, in sostanziale intesa con il Sud Africa (che ha venduto circa 710 tonnellate nel 1979),tende a far crescere il prezzo, in modo da avere un'entrata in dollari adeguata alla necessità di colmare il disavanzo commerciale verso l'Occidente, con una quantità inferiore di oro. Il Sud Africa, per suo conto, non può o non vuole aumentare la produzione: ora fa anche circolare voci di imminente esaurimento di alcune miniere. Se i due principali venditori, quindi, non rispondono ad una domanda crescente, rimangono solo le banche centrali, la cui riunione a Basilea dell'8 gennaio si è conclusa peraltro con un nulla di fatto. È comprensibile che, dopo la •guerra dell'oro• degli anni settanta, esse abbiano un certo imbarazzo a cambiare linea; tuttavia, prima o poi, dovranno pur cogliere una scelta fra la rimonetizzazione dell'oro (con conseguente arresto dell'arbitraria proliferazione di segni monetari, soprattutto USA) e la vendita degli stock depositati nei vari sotterranei. La paura della guerra, di cui l'aumento dell'oro è solo un sintomo, può essere combattuta anche eliminando le cause del disordine monetario: questa è la responsabilità che si dovrebbero assumere gli USA, nel momento stesso in cui tentano di riprendere la guida del mondo occidentale. All'oro di guerra si può sostituire l'oro di pace (non solo monetaria). • dati provvisori •• stime IL LEVIATANO Celso Destefanis Sciopero, Generale NELL'INTERVISTA CHE ABBIAMO PUBBUCAto I' 11dicembre il generale Enzo Felsani, esponente del movimento per la formazione di un sindacato di polizia aderente alle Confederazioni, aveva dichiarato: • ... prenderemo tutte le iniziative che riterremo necessarie; in ogni caso, però, nel rispetto della legge». Non dubitiamo che il generale Felsani fosse convinto di ciò che affermava e forse ne è ancora convinto. Conoscendo i metodi con cui conducono le alleanze, non ci sembra da scartare l'ipotesi che nel decidere la partecipazione ai comizi del 15gennaio di aderenti al suddetto movimento i dirigenti confederali non abbiano dato molto peso al parere del generale Felsani. La questione dovrebbe però essere attentamente valutata dalle forze politiche, perché si inserisce in un processo di «svuotamento• dello Stato democratico che è in atto da tempo. Siamo di fronte ad una vera e propria escalation (si saggia il terreno, e se non si incontra resistenza, si procede con atti sempre più audaci), che se non viene contrastata, può portare a situazioni che i teorici marxisti definiscono di «dualismo di potere». Non si deve inoltre dimenticare che siamo di fronte ad una ipotesi di formazione di governo con i comunisti, avanzata da più parti. Se l'ipotesi divenisse realtà, si avrebbe un governo in cui i comunisti avrebbero un peso determinante, ben al di là della rappresentanza governativa che venisse loro concessa. Infatti, i comunisti potrebbero operare su due terreni: al livello governativo, contribuendo a formare le leggi, al livello extra-governativo, disubbidendo alle leggi che non condividono e sfruttando gli spazi «autonomi• che si sono guadagnati nell'ambito dello Stato. Si noti, inoltre, che da sinistra la questione del sindacato di polizia sembra già decisa. Il quotidiano «La Repubblica», ad esempio, l' 11gennaio dà notizia di una dichiarazione del movimento per la formazione di un sindacato di polizia aderente alle Confederazioni facendola passare come «appello ai cittadini del sindacato unitario di Pubblica Sicurezza». Se poi si esamina il contenuto di tale «appello•, le preoccupazioni che abbiamo espresso certamente non si attenuano. Il documento esprime infatti una linea fortemente politicizzata, arrivando a rivolgersi all'opinione pubblica perché si mobiliti, constatata •l'impotenza dello Stato nei confronti del terrorismo e della criminalità». Sirio Di Giuliomaria I lettori che sono disponibw per aiutan l'iniziati-va del «Leviatano» dal punJo di vista finanziario, organizzlltiyo, polilico o giornalistico sono pregali di pnnun contatto con la redazione, all'indirizzo di 00186 Roma, l'ia dell'Arco di Parma 13, telefono (06) 6545398. 7

RENZO DE FELICE Profumo d'Ottocento SALVO CASI PARTICOLARI-E PENSO soprattutto alla socialdemocrazia tedesca, non solo per le vicende del dopoguerra, ma anche perché quel partito è quello che più degli altri è riuscito, sia pure parzialmente, a rinnovare il proprio bagaglio culturale -, mi sembra che la debolezza dei partiti socialdemocratici e socialisti in genere trovi la sua spiegazione oggi in due cause: la prima è una incapacità di adeguare l'ideologia, diciamo più semplicemente la cultura, che è sostanzialmente di tipo ottocentesco, tutt'al più tardo-ottocentesco, alla realtà moderna. Ciò rende, secondo me, ai socialdemocratici non solo più difficile l'agire politico, ma anche il proselitismo nelle aree dei tecnici, nelle aree più moderne delle singole società nazionali. L'altra, invece, che è poi connessa con la prima - sono due facce di uno stesso problema, che proprio in questi giorni è stato enunciato, trattato, nei suoi termini generali, nell'introduzione di George Mosse al volume degli scritti di Aldo Moro - è il fatto che la società moderna, piaccia o non piaccia, la società di massa contemporanea, vive, a livello di massa appunto, se riesce a catturare l'immaginazione, i miti, i simboli e quindi le speranze e le aspirazioni della gente. I partiti socialdemocratici e socialisti dimostrano sempre meno questa capacità. Su muovono sostanzialmente con una tematica che essi dicono essere di massa, ma che si riferisce invece alla mentalità di massa di tipo tardo-ottocentesco, o del primo novecento, prima che si affermi la disintegrazione della società e la sua ricostituzione nei termini moderni e veramente di massa. Cosi il marxismo e altri simili ideologie sono diventate delle etichette, più o meno retoriche, che si sono dovute adattare alla realtà politica e che però né a livello di élite né a livello di massa sono funzionanti. La socialdemocrazia è quindi, a mio parere, in declino anche dove ha avuto nel passato un certo seguito, verrà lentamente ma inesorabilmente erosa, direi schematicamente, da destra e da sinistra, con un logoramento e una dispersione di forze e di personalità proprie. A meno che, con un'operazione culturale coraggiosa e lungimirante, non riesca a compiere un radicale rinnovamento. 8 ROSARIO ROMEO Non basta la buona volontà Ù RAGIONI DELLA DEBOLEZZA DELLA socialdemocrazia in Italia vanno anzitutto ricercate nel fatto che il movimento socialista ha avuto origine quando gran parte dell'Italia non era industrializzata, era ancora un Paese in buona parte contadino. Fin dall'inizio vi furono quindi forti elementi di tipo anarcoide. Il Partito socialista italiano si è sì costituito scindendosi dagli anarchici, ma la presenza di spinte anarchiche nel movimento operaio italiano era molto forte, al punto che in nessun Paese come in Italia, se si eccettua la Spagna, Bakunin e l'anarchismo avevano avuto successo. Il movimento socialista italiano ha avuto perciò sempre una posizione oscillante tra l'esigenza di mantenere i contatti con le masse aperte alle suggestioni ribellistiche e la volontà di inserirle nel quadro di un ordinamento parlamentare. Basti pensare a moti come i fasci siciliani, che erano diretti dai socialisti, e che finirono per essere caratterizzati da tumulti di piazza, scontri a fuoco con l'esercito, con la polizia, ecc. Lo stesso Turati è emblematico di questa duplicità, quando fu costretto a prendere posizione in appoggio a movimenti come quello della settimana rossa, che avevano invece protagonisti e finalità non inseribili in un quadro di democrazia parlamentare. Più in generale ancora si può dire che l'Italia è un Paese profondamente diviso, in cui la mancanza di una solida base sociale comune tra Nord e Sud, tra città e campagna, ha sempre alimentato una contrapposizione tra forze di governo e forze alternative non al governo, ma al regime. La socialdemocrazia che per sua natura rappresenta un'alternativa all'interno delle regole del gioco, sia pure con possibilità di profondissime mutazioni del sistema sociale, ha avuto quindi una vita difficile. Un'altra cosa da considerare è che le socialdemocrazie in tanto riescono a realizzare vasti mutamenti all'interno del sistema in quanto sono capaci di dar vita a organizzazioni estremamente complesse, caratterizzate da una capacità di pianificazione e di programmazione molto estesa. Tutti i servizi sociali moderni, se vogliono funzionare, esigono un livello di efficienza tecnico-organizzativa altissimo: in Italia questo livello di efficienza tecnica non è rag22 GENNAIO /980

a socialdemocrazia? giunto nemmeno da parte delle forze che da decenni stanno al governo. La socialdemocrazia, in altre parole, è forte dove riesce a realizzare concreti e tangibili vantaggi sociali per la classe operaia. Da noi invece i tangibili risultati non si vedono e i partiti socialdemocratici devono limitarsi a fare professione di buona volontà e di parole. Le posizioni estremiste sul piano verbale finiscono così per diventare vincenti rispetto a quelle socialdemocratiche, che possono prevalere solo sul piano dell'organizzazione concreta, dell'effettivo spostamento dei rapporti di classe, di una reale diversa ripartizione di reddito all'interno della società. DOMENICO SETTEMBRINI A"etratezza e massimalismo LA SOCIALDEMOCRAZIA È IL PRODOTTO di uno sviluppo completo e nonnale. Nel caso dell'Inghilterra, per fare l'esempio che per primo viene alla mente, le strutture industriali vengono edificate prima che il suffragio universale venga introdotto: per cui quando le masse vengono immesse nello Stato, la struttura industriale è già in grado di appagare i loro bisogni più elementari. Quando invece abbiamo uno sviluppo ritardato, nel senso che un Paese parte più tardi degli altri e quando però l'ideale democratico è già diventato corrente e non può essere rinviato e il Paese cerca di recuperare il ritardo accelerando lo sviluppo, in genere si fonnano movimenti eversivi a sfondo populista, xenofobo, produttivista: basta guardare i Paesi del terzo mondo oggi. In genere gli intellettuali cercano di mobilitare le masse, contadini prevalentemente, contro un avversario esterno per ottenere l'indipendenza se non c'è e per accelerare lo sviluppo economico se l'indipendenza c'è, ritenendo di possedere fonnule magiche per realizzare lo sviluppo economico, attraverso l'intervento dello Stato, la pianificazione e via dicendo. Quello che noi oggi vediamo nei Paesi del terzo mondo è accaduto in Italia nel periodo che va dalla fonnazione dell'unità nazionale alla prima guerra mondiale. Turati, che voleva fare in Italia una moderna socialdemocrazia, non è riuscito realmente a vincere, è stato sempre contestato dentro e fuori del partito; inizialmen- /L LEVIATANO te dagli eredi del movimento rivoluzionario risorgimentale, dai rivoluzionari radicali; poi, negli anni giolittiani, dall'ideologia sindacalista rivoluzionaria e da quella nazionalistico-rivoluzionaria (i popoli proletari contro i popoli ricchi); nel Partito socialista dall'emergere di Benito Mussolini, che è il portatore di queste idee all'interno. Da questo fondo intellettuale e popolare, che non ha mai accettato fino in fondo le strutture liberali dello Stato costruito in Italia, dopo il trauma della guerra nascono due movimenti, il fascismo e il comunismo, tutti e due antiliberali e decisi a rovesciare lo Stato. Nel secondo dopoguerra, quando in Italia, con il «miracolo economico», la situazione è finalmente matura per lo sviluppo di una socialdemocrazia di tipo moderno, le scelte politiche sono già pregiudicate: è onnai molto difficile utilizzare le basi economiche che finalmente ci sono per creare il corrispettivo politico. Se a questa storia vogliamo dare dei volti, possiamo fare i nomi di Bakunin, che ha predicato in Italia l'anarchismo, di coloro che hanno costruito i primi nuclei socialisti su base rivoluzionaria e sovversiva, i Cafiero, i Malatesta, i Costa; poi abbiamo i sindacalisti rivoluzionari, Arturo Labriola, Olivetti; poi abbiamo Corradini con il suo nazionalismo di tipo populistico da terzo mondo; poi abbiamo le personalità decisive di Mussolini, Gramsci e Nenni. In fondo il trionfo del Partito comunista nel secondo dopoguerra è dovuto forse più ancora che all'abilità di Togliatti, grandissima, all'insipienza di Nenni: da questo punto di vista le personalità più disastrose della politica italiana sono state Mussolini e Nenni, il quale ha sì cercato di costruire un grande partito socialista e democratico dopo il 1956, ma quando onnai il gioco era pregiudicato. Direi che oggi il Partito comunista cerca di modernizzarsi, ma senza perdere la natura di partito «diverso», di partito legato a un'ipotesi di alternativa globale, e quindi in pratica invade il campo della socialdemocrazia più per ragioni tattiche che per vera volontà di cambiare natura. Il Partito socialista invece è rimasto il depositario di tutta l'arretratezza culturale che è stata alla radice di questa storia e dell'insuccesso della socialdemocrazia in Italia. 9

LIBERALISMO EGIDIO STERPA Dall'assistenzialismo allaparalisi dello Stato IL UBERALISMO TENDE PRINCIPALMENte all'affermazione e alla protezione dell'individuo. Il socialismo tende anch'esso alla protezione dell'individuo ma ha in sé la concezione, esplicita o implicita, che la costrizione dell'individuo è inevitabile. Tanto vero che il punto di frizione all'interno della stessa sfera ideologica socialista è proprio quest'ultimo: la misura della costrizione, che arriva, come nel caso dei paesi del cosiddetto socialismo reale, fino al peggiore totalitarismo. Non è infondato dunque il sospetto, da parte dei liberali, che anche per la miglior via socialista si possa arrivare prima o poi a istituzioni che comprimono le libertà individuali o di gruppo. Per il socialismo, che nasce marxista e comunque ne porta l'impronta, la componente «materialista», costituita dalle attività e dalle relazioni produttive dell'uomo, ha un'importanza particolare, quasi esclusiva; tanto vero che la lotta tra le classi sociali viene intesa come motore principale delle trasformazioni storiche. Ecco un'immagine e un'interpretazione della storia che i liberali non possono condividere. Il futuro, come direbbe Popper, dipende da noi, cioè dagli individui, e non siamo noi a dipendere dalle necessità storiche. Se si rinuncia a questa versione della storia, che è ideologica e morale, si finisce fatalmente in una concezione della vita e della società tutt'altro che liberale. Sono tra coloro che apprezzano moltissimo il processo revisionistico dell'autonomismo socialista. Più volte ho avuto occasione di sottolineare positivamente la linea nuova del socialismo craxiano, che ha fatto e sta facendo grandi sforzi per sganciarsi dai vecchi schemi ideologici. Nel suo saggio su Proudhon e anche in altri scritti e discorsi, Craxi lascia intendere chiaramente di considerare ormai il marxismo solo come un metodo d'indagine critica e di vedere in Marx solo il maestro-inventore di una scienza critica della società, rinunciando così a fare della dottrina un dogma e del suo inventore un tabù. Ma ritengo che ancora non si siano fatti sforzi sufficienti per analizzare e smitizzare certi concetti fondamentali marxiani (valore, plusvalore, modo di produzione, ecc.) che danno una rappresentazione del capitalismo che 10 non corrisponde più alla realtà. È questo il punto su cui occorrerebbe approfondire il dibattito per potersi mettere concretamente sulla via di una onesta e proficua ricerca di un minimo comun denominatore tra liberalismo e socialismo. Pongo a questo proposito, alcune domande di fondo. Come va inteso concettualmente e politicamente il capitalismo oggi? Quale ruolo si riconosce alla libera iniziativa? Il capitalismo va considerato ancora il nemico numero uno per i socialisti? Ricordo un lungo colloquio che ebbi con La Malfa - che in quel momento era in una fase di ripensamento nel suo colloquio critico con i comunisti - alcuni mesi prima che morisse, di cui riferii sul «Giornale nuovo» (Seguì, poi, una sua lunga intervista con Ronchey). Se non si smette di considerare il capitalismo come il pupazzo su cui scaricare tutte le responsabilità - egli disse in polemica con Amendola - si farà solo delle logomachia sterile e della demagogia. Il capitalismo non è un sistema politico ma uno strumento per la produzione, un metodo, di cui vanno corretti i margini di sfruttamento, ma non già da combattere ciecamente per abolirlo. Del resto che cosa si propone in alternativa al capitalismo come strumento per la produzione? L'esperienza leninista? In Russia - dove, è bene sottolinearlo, si partiva da una situazione che in occidente non ha riscontro: enormi risorse, una gran massa di contadini e una classe dirigente arretrata - l'alternativa è fallita, e sappiamo quanto è costato questo fallimento in costrizioni e anche in vite umane. Ma, oltre a quella russa c'è l'esperienza cinese: anche li si è stati costretti a prendere atto che nulla si costruisce senza la passione creativa, dell'uomo, dell'individuo, e senza la molla del profitto, che è un'aspirazione naturale, insopprimibile, e anche giusta, dell'uomo. Ma restiamo al «caso italiano». Mi chiedo quali altri spazi restino ancora da occupare allo statalismo. Gli spazi di libertà individuali, e non solo in economia, sono ormai tanto sottili, così magri, che non è un caso la riscoperta, a livello di opinione pubblica, di certi valori liberisti. In Italia in tutti questi anni, con riforme, leggi e leggine, abbiamo creato uno stato assistenziale come non ce n'è l'esempio al mondo, uno stato superburocratico che assiste male e che, già ora semiparalitico, sta avviandosi alla paralisi completa. Il peggior nemico, oggi, non è il capitalismo, come si continua a far credere, ma sono la burocrazia e l'ideologia dogmatica che impongono o possono imporre il proprio sfruttamento o il proprio totalitario dominio. È questo il più grande errore a cui ha portato in molti paesi - e potrebbe portare anche in Italia - l'accettazione irrazionale dell'onnipotenza delle idee e dei dogmi. All'Est le rivoluzioni, con tutto il loro apparato di dominio, hanno portato alla sop22 GENNAIO /980

pressione di ogni libertà, a volte con manifestazioni di grande crudeltà. Ha ragione ancora Popper: il marxismo, matrice di questi erroriorrori, è uno degli equivoci in cui una parte dell'umanità è caduta nelle lotte per costruire un mondo migliore e più libero. E della matrice marxista che il socialismo deve liberarsi se vuole sposarsi con l'aggettivazione liberale. Trovo accettabili le tesi di socialisti come Pellicani, il quale, per esempio, non esita a rifiutare l'economia da parte dello Stato. Come conciliare, del resto, il monopolio statale dei mezzi di produzione col pluralismo politico e culturale? Non possono esserci dubbi, mi pare: il monopolio implica il controllo totale degli attori sociali. Altrimenti dove sarebbe più la libertà? La coesistenza della libertà con la gestione monopolistica delle risorse è impossibile. In altre parole - lo dice lo stesso Pellicani - il socialismo di Stato è incompatibile con la democrazia liberale. Allora diciamo pure chiaramente a questo punto che marxismo e liberalismo sono inconciliabili. In Marx - e qui cito contemporaneamente Pellicani e Giuseppe Bedeschi - non c'è posto per le libertà dei moderni. Ecco i temi su cui deve esercitarsi la ricerca di quanti onestamente e sinceramente vogliono trovare un punto d'incontro tra liberali e socialisti. Occorre però uscire dai vecchi schemi ideologici, dalla gabbia dei miti ottocenteschi, altrimenti inutilmente si cercherà una base comune di pensiero e di azione politica. Se non si spezzano le vecchie catene e non si fa finalmente ricorso alla ragione, non sarà possibile trovare quel minimo comun denominatore indispensabile, pur nelJe diversità innegabili, per costruire insieme una società nuova, ciascuno con il contributo della propria esperienza e delle proprie idee. Non so quanti di noi se ne rendono conto, ma qui stiamo muovendoci dentro un quadro sociale e morale in continua mutazione, stanno saltando tutti i vecchi schemi nel rapporto tra forze politiche e forze sociali, e i vecchi canali di comunicazione fra potere e opinione pubblica si sono sclerotizzati, così come sclerotizzate sono le vecchie ideologie. Siamo tutti «fuori gioco» e, se non facciamo presto a prendere coscienza del «nuovo» che c'è nel mondo, andremo tutti in pensione per volontà del Paese, salterà il sistema. Le elezioni del 3 e del IOgiugno 1979 sono state il primo segnale della volontà del Paese di contare veramente e di non tenere più conto dei parametri offerti dai partiti. Quel risultato elettorale non è tanto importante per quel che ha detto in cifre, ma per quel che promette in futuro. E nessuno si illuda d'essere dalla parte giusta. Che cosa voglia il paese pochi ancora riescono a capirlo. In quest'ordine di considerazioni e di riflessioni, in questa prospettiva, la ricerca di un'intesa tra forze di democrazia socialista e forze di IL LEVIATANO democrazia liberale è vieppiù interessante e importante, perché è il tentativo di due forze tradizionali, che esprimono le aspirazioni. fondamentali dell'individuo - giustizia e libertà - di cercare insieme, in un confronto senza riser-. ve, ma anche senza equivoci, il modo per rendere meno traumatico il passaggio da una fase vecchia a una fase nuova della politica italiana, interpretando per quanto ci è possibile umori e tensioni della società in movimento senza rinupciare ciascuno al proprio ruolo storico: le forze di democrazia liberale a difendere le libertà dell'individuo, le forze di democrazia socialista a proteggere l'individuo dai pericoli, possibili, degli eccessi di liberismo. Ma, fatto questo ragionamento di fondo, occorre fame subito uno di tipo più pratico, più immediato. C'è un problema dal quale possiamo ·e dobbiamo partire per camminare insieme: la ricerca di una nuova «centralità» nella politica italiana. Se c'è un pericoloso vuoto nel nostro attuale quadro politico è proprio la mancanza di un polo di attrazione, di un elemento equilibratore che possa rappresentare il punto di aggregazione per la governabilità del Paese. Questo polo, questo elemento, fino a prima del 3 giugno era rappresentato, nel bene e nel male, piacesse o meno, dalla DC. Lo era di fatto: la posizione centrale della DC era determinata dalla sua forza numerica (e questa era una scelta dello elettorato) e dalla volontà stessa della dirigenza democristiana sin dall'epoca di De Gasperi. Mi pare che su questo ruolo storico della DC - ruolo· di mediazione e di coordinamento anche di altre forze - non sia neppure il caso di discutere: esso c'era di fatto ed è stato esercitato, comunque lo si voglia giudicare «a posteriori». Ma ecco il punto che oggi deve interessarci: quel ruolo la DC non lo possiede più, un po' -e direi soprattutto - per volontà di una nuova dirigenza che ha condotto una politica unilaterale, un po' per scelta dell'elettorato, che ha tolto al partito democristiano quella forza numerica che ne faceva l'arbitro dello schieramento politico. È ciò che oggi piace chiamare perdita di egemonia della DC nella vita italiana e che in prospettiva può determinare mutamenti di schieramento persino sconvolgenti. Quale che sia l'ottica nella quale ci si pone, non c'è dubbio - come ho già detto - che stiamo assistendo all'inizio di una fase nuova di cui è difficile prevedere l'epilogo. È un momento di generale smarrimento - non solo della DC - di incertezza e insieme di ricerca di nuovi assetti, di nuovi schieramenti. Lo dimostrano i tormenti interni di tutti i partiti, nessuno escluso, dal più grande al più piccolo. E diciamolo pure, un momento di crisi di ideologia e persino di culture: una crisi che tocca i «quadri» ma che viene anche dalla base perché di sicuro ad essa contribuiscono sia la incapacità dei partiti di «mediare» con l'opinio11

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