Il Leviatano - anno II - n. 1 - 15 gennaio 1980

P.G.: La lettura delle minute di questo processo mostra come Fide/ Castro, chiamato in causa come testimone, esce ben presto dal suo ruolo per influenzare, dirigere il tribunale e maneggiarlo con la sua eloquenza e autorità. Si può anche osservare che non le lascia la possibilità di difendersi interrompendola tutte le volte che vede sfuggirgli la situazione ... H.M.: Quasi sempre quelli che sono stati giudicati si lagnano di essere stati vittime di ingiustizia. Nel mio caso i fatti sono eloquenti. Fide! Castro dirige il processo dall'inizio alla fine e anche prima dell'inizio, riunendo il popolo prima dell'apertura del processo per reclamare la mia morte. È lui che formula l'accusa e che mi presenta sotto i tratti peggiori dell'infamia. Ma non gli è sufficiente: seleziona i membri del tribunale tra gli ufficiali più intransigenti dell'Esercito Ribelle e tra i suoi partigiani più fedeli. Per esempio, scelse il capo della sua scorta tra coloro che mi avrebbero dovuto giudicare. Ma oltre ad essere selezionati da Castro. i membri del tribunale, -inquanto ufficia-li;-glidovevano obbedienza assoluta. Ma tutto ciò non fu ancora sufficiente: Castro partecipa al processo come principale testimone di accusa, passa sei o sette ore ad accusarmi. Ha presentato qualche prova? Chiunque abbia letto il suo discorso si rende conto che non ne ha apportata nessuna, che la sua presenza e la sua retorica non servirono che a fare pressione sul tribunale perché questo mi condannasse. Ma ci furono altre irregolarità. Per esempio: arrivavano testimoni che non erano stati chiamati dal presidente del tribunale, uscivano da dietro le tende, come al teatro. Da lì sbucarono due o tre individui che fecero dichiarazioni a persone che non li avevano chiamati! Perché Castro e suo fratello Raul - capo e ministro delle forze armate - dovettero testimoniare? Perché il primo giorno del processo, l' 11 dicembre 1959, quando finii il mio intervento in risposta alle domande del presidente del tribunale e del procuratore, il pubblico, un pubblico selezionato da Castro, composto da centinaia e forse migliaia di ufficiali, applaudì il mio intervento. Per circa quattro ore risposi alle domande, passai i fatti al setaccio e li presentai con una tale abbondanza di particolari che la verità finì per apparire. Il pubblico si schierò dalla mia parte e Castro si rese conto della sua situazione difficile. Si dovette allora prolungare il processo e 22 l'indomani si produssero tutte le irregolarità possibili. Finalmente mi condannarono a vent'anni perché era difficile. malgrado tutto, condannarmi a morte: Castro sperava semplicemente che io non uscissi vivo dalla prigione. P.G.: /11realtà la congiura era dall'altra parre. Ma credo di sapere che Castro abbia subito delle pressioni da parre del suo entourage, come Oltuski e Faustino Perez, che sono i11terve1111intisuo favore ... H.M.: Sì. Castro mi voleva portare dinnanzi al plotone di esecuzione ma tre o quattro fattori hanno giocato contro di lui. Il primo è l'assenza di delitto. In secondo luogo io avevo numerose e buone relazioni tra gli ufficiali delle forze armate: avevo terminato la lotta armata con il grado di comandante alla testa di una. delle colonne più affensive dell'Esercito Ribelle. Avevo inoltre qualche amico tra gli ufficiali di altri corpi come la marina e l'aviazione. Se Castro mi avesse fucilato avrebbe dovuto affrontare una forte protesta di coloro che mi stimavano e che sapevano che ero innocente. Bisogna inoltre aggiungere che qualche ministro (non posso affermare niente di preciso ma credo si trattasse di Faustino Perez e di Manolo Ray e di qualche altro) discussero di questo affare con Castro e mi difesero. Infine Castro aveva la speranza che dopo una condanna a vent'anni non sarei uscito vivo. P.G.: Nella sua le/tera del 20 ouobre 1975p11bblicata sul «New York Times», lei dice: «Ho il presentimento ... no, pitì che 111p1resentimento, ho la convinzione che passerò i miei 11/timigiorni in questa cella. Su q11aliC(iteri basava 11nasimile convinzione? H.M.: Dapprima furono i miei stessi carcerieri nella prigione dell'Isola dei Pini, nel 1960. che non cessarono ma di ripetermi che non sarei uscito vivo dalla prigione. Me lo dissero in tutti i modi. anche se il discorso suonava sempre allo stesso modo: «Abbiamo istruzioni di liquidarti non appena sopravviene la minima possibilità che tu metta piede fuori dalla prigione, o anche se si presenta la minima possibilità che implica un cambiamento di governo nel Paese». Perché mi hanno allora liberato, visto che la mia morte era programmata? Nella misura in cui Castro è interessato ad ottenere l'apertura del mercato americano. ad ottenere la tecnologia americana. prestiti, finanziamenti, ecc., la liberazione dei prigionieri, la mia e quella di alcuni altri, diciamo di un certo prestigio, potrebbe ~ervire come approccio e come merce di scambio. E dunque una operazione commerciale. lo esco da questi venti anni di prigione completamente svuotato, ma il mio cuore batte sempre con fermezza e mi resta ancora sufficiente lucidità per assolvere una missione urgente: quella di ottenere la libertà di coloro che sono restati nelle prigioni cubane. Bisogna ottenere la solidarietà di un gran numero di persone, bisogna che la gente si mobiliti per liberare queste migliaia di uomini. P.G.: Alcuni pensano che non ci sono torture nelle prigioni cubane e che quelli che sono condannati lo sono perché sono colpevoli. Che cosa pensa della convinzione diffusa tra certi intelleltuali di sinistra che la rivoluzione cubana sia una «rivoluzione dal volto umano»? H.M.: Capisco la confusione che può esistere. Capisco che si possa avere un'opinione favorevole di I~ (;PNNAf() /980

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