CULTURA POLITICA NICOLA MATTEUCCI Dee PCI partiti-chiesa OGGI, COME NON MAI, GLI INTELLETtuali sono corteggiati, lusingati e viziati (talvolta persino tollerati) dai partiti politici. Talvolta essi s'illudono di diventare consiglieri dei nuovi principi e, cosi, entrando nella stanza dei bottoni, di potere tradurre in realtà le proprie idee. Ma si illudono: questa scorciatoia rischia di portarli soltanto ad essere strumenti del principe nella sola cosa che a lui interessa, l'organizzazione del consenso. Senza accorgersene cominceranno a ragionare o meglio a sràgionare come i politici; e l'Italia, invece, ha bisogno di un «ritorno alla ragione». Per questo i rapporti fra intellettuali e politici non possono che essere conflittuali, secondo le regole della democrazia pluralistica. le quali postulano un potere culturale (o potere dell'opinione pubblica) distinto ed autonomo rispetto al potere politico. Nell'attuale situazione di crisi gli intellettuali possono formulare un progetto comune, proprio perché questa crisi è soprattutto di valori politici e di cultura politica, la cui responsabilità portano i partiti con le convenzioni che regolano le loro lotte. Ciascuno, al di là delle preferenze e delle opzioni partitiche che compie come semplice cittadino, può dare la sua adesione a un progetto comune, che abbia come sua caratteristica specifica l'elemento culturale, cioè la ratio opposta alla voluntas del potere. Solo dal campo della cultura può ricostituirsi quella public philosophy, quella filosofia pubblica, senza la quale una democrazia naviga senza avere una bussola. Per troppi anni ci si è limitati a individuare il male del «caso italiano» nel suo bipartitismo imperfetto; ogni terapia si riduceva cosi a indicare formule di schieramento, per cui gli intellettuali inevitabilmente si trasformavano in propagandisti, molto spesso armati soltanto di considerazioni moralistiche. Vorrei ora proporre una ottica diversa: il non funzionamento o la sclerosi delle nostre istituzioni, il sempre più marcato distacco fra classe governante e classe governata, dipende dalla ritardata secolarizzazione del nostro sistema partitico. La causa della paralisi deriva anche dalla cultura dei partiti, in ritardo o inadeguata rispetto ai problemi di una società industriale. Si tratta di stabilire non un discorso comune, avendo quasi nostalgia per un partito degli intellettuali; si tratta piuttosto di avere una grammatica e una sintassi comune per discorsi diversi. Quella grammatica e quella sintassi, sen12 za le quali una democrazia industriale non funziona. I maggiori ritardi in questa secolarizzazione della cultura politica si possono ravvisare nel PCI e nella DC di Zaccagnini: molte delle vicende, che hanno accompagnato le ultime crisi di governo, si possono meglio capire, se adottiamo questa chiave interpretativa. Di fronte alla domanda di secolarizzazione e di modernizzazione PCI e DC rispondono in un modo eguale: il primo afferma di non volere diventare un partito social-democratico, il secondo parimenti non vuol diventare un partito liberal-democratico, quando tutte le democrazie funzionano nell'alternanza fra liberali e socialisti, perché questi partiti hanno in comune l'elemento democratico. Questa comune avversione spiega come, nell'attuale fase storica, i comunisti e i democristiani (di Zaccagnini) siano costretti a sostenersi a vicenda, nel loro essere diversi dagli altri, perché nel secolarizzarsi rischiano di perdere la propria identità. Sono due partiti-chiesa per tre motivi•: fondano la loro identità su una teologia politica (la DC di Zaccagnini ha ridato spazio all'integrismo, proprio nel cercare di inseguire i cattolici democratici e i cristiani per il socialismo, le ACLI e la CISL). Questa teologia politica è necessariamente totalizzante. Entrambi rivalutano il partito di massa, gestito da quella casta sacerdotale che sono le burocrazie o gli apparati dei professionisti della politica, che detengono il vero potere (nella DC di Zaccagnini si sono udite nostalgie per un partito-principe di tipo gramsciano). Sono burocrazie che mal sopportano i «movimenti», che si costituiscono nella società e si traducono poi nelle elezioni per condizionare la volontà autocratica degli apparati. Infine, è loro comune aspirazione quella di «organizzare» - e non si organizza che dall'alto - la società civile: il conflitto, caratteristico di una società pluralistica, è visto come un male, e gli individui vengono considerati come esseri che perseguono soltanto i loro interessi particolari. Ci vuole appunto una chiesa per portare la pace sociale e redimere gli individui al bene comune. La salvezza viene sempre dal partitochiesa, e non dagli individui singolarmente o nelle loro autonome e libere associazioni. In Italia, come è dimostrato dalle recenti elezioni, il partito ideologico organizzativo-burocratico di massa sta entrando in crisi. Infatti è aumentato l'elettorato in libera uscita, fluido, che non vota più per disciplina o per identificazione col partito: il che è un fatto positivo, perché alla lunga costringerà i partiti a guadagnarsi veramente con merce buona il voto sul mercato elettorale. Un elettorato fluido e fluttuante è sintomo di una società moderna, che ragiona stando ai fatti e non resta più prigioniero di antiche ideologie o invischiato da miti emotivi. La crisi del partito organizzativo di massa è confermata dalla recente letteratura sui paesi industriali avanzati: esso entra in crisi, 27 NOVEMBRE 1979
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