Il Leviatano - anno I - n. 2 - 13 novembre 1979

2 500 lire ILLEVIATANO settimanaledi commentopolitico -----♦■----- Il grande Leviatano; quell'unica crealura al mondo e/re dovrà restart> senza ritratti sino al/afille. Questo leviatano ci scende addosso, dibattendosi dalle fo111i dell'Eternità. (H. Melville. Moby Dick,capp. LV. CV) in questo numero: Con l'arte è creato quel gran Leviatano, chiamato Statu (in latino clvltas), il quale non ~ che un uomo artificiale, benché di maRgiore statura e forza del naturale, per la protezione e difesa del quale fu concepito. (T. Hobbes. Levia1ano. Introduzione) Garosci sul concordato Settembrini su compromesso e rivoluzione Bartoli sulla visita di Hua Guofeng Rubriche di Cattani,Rilletti,Ungari Editoriale sul Congressoradicale GianniFinocchiaro sulla finlandizza,zione dell'Europa Paolo Demartis sul movimento degli studenti medi C-elsoDestefanis sulla British Leyland Aldo G. Ricci sul dopo-Breznev Collaboratori: GIOVAN!""( ALDORRA!"o,iDJNI, GIUSEPPE ARE. OOME!'JKO BARTOLI. GIUSF.rPF. BfiDf.Sf'HI. f.Nì".O BETTI.I,\. l.LTI.V..;o CAF-°,-v,,A. VE:,.,.:l:RIO CA rt ,\:,.,.:(. LLTIO COl.LE n I. Rl-:'.',i/0 Df.. f.'f-.l.KL PA<H.O Dl:\.UR I IS. l"ll.SO Dr Srl-.f.A'.\dS. SIRIO DI lìlt.:U0\1·\I. '· GIA~l\il n:,.,.:otTHIARO. CARLO FLSI. Al.DO G.\ROS(I. PU..R CARl.O \1As1,1. !',;(("01.A \1.-\ I H:L'("( 1. Rl.'.'<A IO \IU:LI. Al.DO lì. Rll.U. {JL'IDO RILI.Elrl. ROSARIO RO\tHJ • .-\lKERIO RO:,.,.:(IIEY. DO:\.ff.:,.,.:1(0 Sl-.11(--.\tHRl~I. LIL'SlPPI::: I A\18LRR.-\,o. PAOLO t::,.;GARI. GLEl.F"O /A{TARI.-\. Direttore responsabile: GIULIO SAVE:.LLI 13 novembre 1979

I FASTI D'ITALIA I di Venerio Cattani Leyland style s I SA COME t ANDATA ALLA BRJTISH LEYland, dove /'85 per cento dei lavoratori ha mandato, con referendum, Il sindacato a carte quaranta. Non un uomo politico italiano ha commentato il fatto, che si presta a profonde medita:r.ionianche in Cll.J(l nostra. Pandolfi e Lombardini hanno anzi confermato che in Italia, senza il consenso del 90 per cento delle for:r.e sociali e politiche (tutti, meno A/mirante e Pannella), non si pu" muovere foglia economica. Questi uomini di governo, che non valgono una piega della gonna, un pizzo delle mutande o un elastico delle giarrettiere, della signora Tachter, non capiranno mal che non i Il consenso che crea una politica, ma la politica che crea Il consenso. Poche, ma truculente, le dichiarazioni del sindacalisti. Ravenna: «In Italia non cl provi nasuno; risolvere Il problema col referendum i contro Il sindacato». Verissimo:qualsiasimanifestazione di libertà i contro Il sindacato, relitto medievale, che non ammette votazioni né dentro, né Intorno, né fuorf. Mattina, meta/meccanico e napoletano (Incredibile) considera gli operai della Leyland uulcidi» e (poveretti) «plagiati». Insomma: devono Imparare tutto dall'Alfasud. Pensare che Il solo modo che I 1/ndacallstl hanno di riacquistareun poco di credlbllltà, sarebbe di star :r.lttl e nascondenl per un palo d'anni. NO#lgnori: contravvenendo a una nota regola clnt#, lmmenl fino al collo continuano a gridare e ad agltanl, e vanno sempre più giù. Milan l'è on gran Milan BELLA STRAGE A MILANO: OTTO IN UNA volta. Milano, si sa, fa le cose in grande, mica come a Palermo dove, con un omicidio al giorno, d vuole un anno per fame 365. In tnwre la reazione del pubblico ad avvenimenti mnUI i: meno male, 1emprepochi. Le rae del conti e I tk/Jttl di mq/ùJ sono infatti le 10/e occasioni che gli Italiani hanno di vetkre un po' di tl111tl:r.Ja. Stavolta, l'effare 11presta a più diffuse considerazioni. a) I sudamericani. Da qualche tempo, non c'i groao ammaUJ1mento nel quale non siano coinvolti del sudamericani. Sono arrivati In Italia In mucchio, alcuni a causa altri con la scusa delle repre#lonl a casa loro. Viene/atto di pensare, che se In Ar,entlna, Uru,uay e Cile hanno avuto la mano paante, tutti I torti non Il avessero, visto quel che combinano da noi. Perchi I ministeri degli Interni e degli Esteri non cominciano a secernere, come dire, il grano dal loglio, e a rispedirne qualcuno «dati/ Appenlnl alle Ande»? b) I rapitori. In tutti quoti fattacci, sono Implicati, sparatori o vittime, Individui giudicati o Imputati per sequestro di penona. Stavolta, una delle vittime era implicata nel rapimento Boro/i. Recentemente, a Sanremo, veniva ucciso, ovviamente dal colleghi (fosse 1 mai dalla polizia) uno dei carcerieridi Cristina Mazzotti. Evidentemente, tutta questa gente i in libera uscita: libertà condizionale, libertà provvisoria, libertà premio. Bisognerebbe chiedere al ministro della cosiddetta giustizia, ammesso che lo sappia, quanti di costoro son dentro e quanti fuori, dopo un reato che, sul piano morale, i peggiore del terrorismo. L'IVA al ristorante ÀRRIVA, FINALMENTE, LA FATTURA IVA nei ristoranti. Il cliente «deve pretendere» la fattura. Anzi, come scriveva giorni fa Il «Corriere della Sera», organo ufficiale del buoi del regime, civiltà vuole che il cliente denunci l'oste che non glielafa. All'uscita i controllori dell'IVA chiederanno la ricevuta; e a chi non l'ha conservata, da IO a 60 mila di multa. Per il proprietario, da 200 mila a un milione, oste della malora/ Il decreto, miracolosamente di un 10/0 articolo, ma che articolo, non dice a quanti metri dall'uscita del locale la /altura pu" essere buttata; e se il controllore IVA deve rive/ani, o se pu6 camujfanl con barba e beffi/Inti. Non i previsto Il caso dell'astuto scippatore, che fermerà la signora con la scusa dell'IVA e le sfilerà la bonetta. E nemmeno Il caso, Dio sa quanto frequente, della rapina al ristorante: «Tutti a terra, questa i un 'IVA I» Davanti a questi voli della follia fiscale, non c'i un giornale che protesti, né un uomo politico che interpelli Il Ministro delle Finanu per chiedergli i numeri del lotto. Cosi, dopo l'Industria sommersa, l'italiano dovrà lnventani la mangiata sommersa. L'IVA sulla cacca? ÀRISTIDE CARINI, DI FERRARA, NOSTRO attento lettore, d sottopone la proposta che fedelmente trascriviamo, girando/a a chi di competenza. «Perchi non tassare la cacca? Come si tassa Il cibo all'entrata, si pu6 benissimo tassarlo, diciamo pure, a/l'uscila. Oltretutto i più /ad/e, dato che i più documentabile la materia del contendere. I controllori IVA, anzichi disponi all'uscita del ristorante, si apposterebbero all'uscila del cesso. Anzichi la ricevuta, il cliente esibirebbe la carta Igienica, abslt Infuria verbll: l'Impronta sarebbe incontrovertibile. L'Ufficio del Registro, anziché timbrare I blocchetti con madre e figlia, timbrerebbe I rotoli e Il consegnerebbe ai ristoranti. Che più? Oltreché ai focali pubblici, Il sistema potrebbe essere applicato alle abitazioni private, e ogni capofamiglia tenuto a conservare i rotoli usati, da co,uegnare mensilmente al capofabbricJJto. [Il nostro lettore, evidentemente inoltrato negli anni, dimentica che il capofabbricato i stato soppresso dal presente regime. Leggasi quindi: al Consiglio di quartiere]. Sarebbe il massimo della giustizia fiscale: chi più mangia più paga. t ben vero che gli stitici potrebbero evadere; ma l'evasione sarebbe compensata dal dolore, mentre Il pla«re di una buona evocuazione consola di qualsiasi imposta». Fin qui /'amico di Ferrara. Da come scrive, sembra, più che un marxista, un proudhonlano: «Chi non lavora, non manti/» La proposta i talmente ovvia, che non dubitiamo sarà attuata quanto prima. JJ NOVEMBRE 1979

I VITA DI CHIERICI I di Guido Rii/etti Credenti a teatro NEL NOVEMBRE 1970 I CORTEI DI MARXJsti-leninisti che uscivano dalla Statale di Milano, dopo aver scorrazzato per la città, si ritrovavano quasi intatti in Via Larga, per affollare il «Lirico» dove la collaudata ditta «Brecht-Grassi-Strehler» esibiva il sul ultimo prodotto: Santa Giovanna dei macelli. / giovani entravano a teatro con un fiero disprezzo per l'arte, tranne quella che incitasse alla lotta di classe, e l'avvenimento teatrale era vissuto come una prosecuzione, sotto altra forma, de/l'assemblea del mattino e della manifestazione del pomeriggio. Ma il teatro era affollato da un'altra categoria di persone nettamente diversa dalla prima per età ed abbigliamento, la quale era spinta da motivazioni altrettanto diverse: costoro avevano l'arte in grandissima considerazione e avrebbero giurato di essere Il per ragioni puramente estetiche, insomma per godersi il teatro di questo Shakespeare del XX secolo, ultimo dei classici.A un decennio di distanza, col metro del senno del poi, fra i due gruppi, gli studenti e gli intellettuali, quello che ci fa migliore figura è il primo: gli uomini giusti al posto giusto, come dicono gli Inglesi. Poi, i giovani hanno la fortuna di cambiare, quasi sempre in meglio, mentre c'è da scommettere che l'onorevole De Carolis rimarrà un brechtomane tutta la vita. Infatti uno di quei giovani di strada ne ha fatta tanta da scrivere l'unico libro su Brecht che meriti il nome di saggio, essendo tutti gli altri delle comuni agiografiche. li francese Guy Scarpetta, ventenne nel '68, ex marxista-leninista, ex teatrante brechtomane, col suo libro Brecht o il soldato morto (SugarCo Edizioni) è riuscito, documenti alla mano, a smascherare i più tenaci luoghi comuni della retorica brechtiano: il ~uo pacifismo, il suo lirismo, il suo antifascismo, il suo antiautoritarismo, la sua dissidenza, la sua avanguardia. Le reazioni non si sono fatte attendere, da quelle istericheda vestali del culto come Strehler ( «ignobile libello»), a quelle intrise di benevola condiscendenza che hanno l'aria di rimproverare a/l'autore di non essere abbastanza noioso, il che è verissimo. Sembra di capire che quello che spinge Scarpetta ad occuparsi di Brecht non è tanto l'autore, dato il suo significante valore letterario, quanto il suo pubblico; infatti l'intero affare Brecht sembra a Scarpetta la dimostrazione che «una società può funzionare benissimo... con una struttura borghese e una sovrastruttura marxista». Che le cose stiano cosi, ed in Italia più che in Francia, è difficile negare specialmente se si pensa che la confezione del mito «Brecht grande autore di teatro» è riuscita solo nell'Europa continentale, ma sarebbe stata assolutamente impensabile nel mondo anglosassone dove, grazie a Dio, l'equazione marxiana è rispettata.· Poiché il mito brechtiano è una funzione politica, Scarpetta non si fa alcuna illusione sulla funzione di una critica culturale come la sua: «... Brecht è vivo e lo sarà ancora a lungo, per lo meno finché il marxismo avrà in Occidente l'egemonia sull'insieme delle pratiche sociali e culturali; finIL LEVIATANO ché sarà il riferimento d'obbligo di tutti i discorsi intellettuali». Finché a messa ci vanno i cattolici non c'è nulla di strano, ma quando le chiese si riempiono di miscredenti la cosa è sospetta. A Santa Giovanna dei macelli, che tra tutti gli spettacoli noiosi di Brecht può senz'altro avere l'Oscar della noia, dopo quattro ore e mezzo di spettacolo anche i più volenterosi er.ano distrutti; eppure alla fine anche coloro che erano stati svegliati dagli applausi giuravano di essersi divertiti. La cosa preoccupante è che chi è riuscito a far passare questa opera per un capolavoro può far credere tutto, anche che la libertà stia in una prigione. I IL PRINCIPE IN REPVBBLJCA di P{U)wUngari Continua il tempo della "grande intesa" I INTESSUTO DI SORRIDENTI AMBIGUITÀ, seguita a snodarsi il lento cerimoniale dei colloqui fra partiti «rispettabili» in tema di riforma delle istituzioni, per la quale è troppo facile prevedere il rinvio a nuovo ruolo. Ma non poteva cader più tempestiva, intanto, la pubblicazione per i tipi del Mulino di una massicciaserie di volumi che vengonofacendo stato di una grande ricerca di «primo scavo», promossa dalla Regione Toscana sull'opera della Costituente. Chi intende apportare a un edificio modificazioni di qualche rilievo, è bene si procuri anzitutto la mappa dellefondamenta: non fosse che per questo l'iniziativa è ben meritoria, e destinata ad assumere· rilievo primario ai fini del dibattito politico-istituzionale in corso. Su quale terreno poggiamo i piedi? Come si colloca la Costituzione del 1947 nel complessivo orizzonte delle nuove costituzioni postbelliche, con speciale riguardo ai paesi vinti, ed in quale rapporto con la cultura degli esi/f e con i fermenti e le esperienze del tempo partigiano? Cosa si può dire di documentato e concludente in ordine ai collegamenti con l'avventura europea del «parlamentarismo razionalizzato», nonché alla più ampia cornice di «revisionismo» democratico postweimariano in cui essa si inscrive? Secondo un'opinione vulgata, la nostra Costituzione risulterebbe da un compromesso fra marxismo, cattolicesimo e libera/democrazia. Un'altra, più penetrante, mette in luce lo scontro fra il costituzionalismo ortodosso di derivazione prefascista e un neocostituzionalismo che riassumeva l'eredità delle critiche al vecchio Stato e delle autocritiche democratiche del tempo totalitario, oltre a risentire di elaborazioni caratteristiche del circolo dell'alta cultura giuridica europea fra le due guerre. Una visione ancor più scientificamente persuasiva è quella che al di là delle mutevoli tattiche dei partiti, in particolare dei rovesciamenti di fronte dei due maggiori, scorge un conflitto fra due «modelli» costituzionali (equilibratore-garantista, «americano» l'uno, assembleare-giacobino, «francese» l'altro), conflitto dal quale si generano le successive antinomie interpretative della Costituzione. 3

Nei volumi muliniani l'impronta politica de/l'augusto finanziatore si avverte, e come. Ma il pluralismo delle voci è, in certa misura, assicurato nelle sillogi saggistiche, l'informazione è seriamente curata, e la documentazione di prim'ordine. Si deve piuttosto avvertire di un rischio, che è nell'aria: che di questa occasione di dibattito e di studio si faccia una ennesima «operazione culturale». Sotto il segno, parlando alla grossa, di quella che oggi va sotto il nome di «cultura della Grande Intesa»: la proposta cioè di una cultura di regime, atta a collocarefra gli estranei chiunque non condivida le asserite basi di convergenza spirituale del novanta per cento della comunità popolare italiana. La linea argomentativa è già pronta, sulla scia di una recente e discussa ricostruzione storiografica della figura di De Gasperi. Costretto a subire una indesiderata rottura con il PCI, e contenendo/a comunque nel minimo necessario sul piano immediato, il leader democristiano avrebbe in pari tempo dato delega al gruppo dossettiano di predisporre sul piano strategico, e cioè nella Costituzione, l'alveo di un diverso possibile futuro politico, nel quale le due grandi correnti popolari erano destinate a riconfluire. A tanto quel gruppo era specialissimamente attreuato, sia per posizione politica più idonea ad una mediazione con la sinistra, sia per bagaglio teorico congeniale a quella sintesi operativa di valoridi giustizia e di libertà, che fallì invece agli uomini del partito d'azione. Di qui taluni corollari di politica costituzionale, che la scoppoliana Lega democratica annuncia di voler trarre pubblicamente fra breve. Senza dubbio una costituzione, in quanto costituzione, contiene molti possibili futuri. Ma proprio in quanto quadro di essi, sembra assurdo asserire che ne prefiguri uno determinante. Risorgerebbero allora le tesi alla Lelio Basso, secondo le quali il primo trentennio di vita costituzionale italiana si sarebbe svolto, appunto, tutto «fuori alveo» in ragione del tipo di maggioranze politiche prescelte. Quanto alla mediazione dossettiana, c'erano molti tipi di dossettiani sotto la volta del cielo in quel tempo, come vicendesuccessive si sono incaricate di mostrare. Ma quali idee nutrisse, ad esempio, il Dossetti in ordine al sistema rappresentativo, lo spiegò egli stesso di li a poco ai «giuristi cattolici» discorrendo di Funzioni e ordinamento dello Stato moderno in una relazione che non pochi allora, a sinistra, trovarono assai inquietante: anche nel convegno qualcuno si levò a dire che si era recitato il De profundis alla Costituzione. E quanto a La Pira, o non si tratta di quello stesso che volevafarci in Italia il regalo di collocare la Santissima Trinità in testa alla Costituzione? Ci è caduta ora sott'occhio una nota di diario di Croce, anticipata dal nipote Piero Craveri, sui giorni dell'articolo 5 (ora 7): «Ha poi parlato a lungo un democristiano, che mi dicono un comunista o socialista convertito, che fa vita ascetica in un convento e insegna diritto all'università di Firenze. Discorso biuarrissimo, puerile nelle spiegazioni e nei paragoni, terminato con una invocazione alla Verginee con un largo segno di croce. Ha parlato poi il Togliatti, sottile e cupo di minacce... ». Se gli intellettuali organici della Grande Intesa hanno intenzione di rassicurarciin ordine al corso di cose italiane che volgono alla mente, forse è meglio evitino, almeno per qualche tempo, di farci curvare di nuovo su certe fonti, costringendoci a darne illustrazione. " Stampa e libri di regime ÀsouRE LE SOVVENZIONI ALLA STAMPA, abolire il prezzo imposto CIP dei quotidiani, abolire la S/PRA, abolire l'Ente cellulosae le sue «assegnazioni» di carta, abolire l'ordine dei giornalisti: la «dottrina delle cinque abolizioni» ha conferito al recente convegno del centro di studi giuridici dei radicali grande vivacità e richiamo. Naturalmente, al preuo libero dei giornali e allafine delle sovvenzioni si può e si deve arrivare allo sbocco di un piano quinquennale di risanamento di un settore industria/e in crisi. Naturalmente, la SIPRA deve continuare a vendere la pubblicità radiotelevisivaal più alto prezzo consentito dal mercato, mentre non è ammissibile, al suo interno o al suo fianco, un 'agenziastatale che convogli la pubblicità verso determinate testate giornalistiche a preferenza di altre; naturalmente, non si vede perché l'Ente cellulosa debba funzionare come cassa di erogazioni ai giornali quotidiani, ma può ben avere una sua funzione specifica,salve le competenze costituziona.'ide/le regioni in materia di agricoltura, in ordine alla sperimentazione di tecnologie idonee a fronteggiare la crisi mondiale della carta. Naturalmente l'ordine dei giornalisti con l'insieme dei congegni di legge e di 1:ontrattoche tendono a farne una corporazione chiusa non ha ragion d'essere in una democrazia fondata sulla più ampia circolazione dei messaggi e delle informazioni, e dove· la difesa del lavoro subordinato è affidata ai sindacati: ma residuano poi problemi previdenziali e di tutela di fondi creati con private contribuzioni, che i giornalisti hanno semmai il torto di difendere isolatamente, cioè corporativamente. Tutto ciò non toglie che l'inizuitiva sia fra le migliori di quelle (non proprio tutte felici) che vengono dall'area radicale, mettendo come mette sotto accusa alcune dellepiù insidiose redini di «regime», che mentre procurano a ministri e politici il delicato piacere periodico di deferenti visite dei padroni della grande stampa, contribuiscono per non poco a caratterizzare la nostra cultura militante come una <<culturadi sottogoverno». Come sta a mostrare, in quel progetto Aniasi che pure in molti punti riflette un compromesso equilibrato ed apprezzabile, l'impagabile aggiunta di un sesto sistema di corruttela: tre miliardi in contributi ai libri «di qualità» a favore degli editori che abbiano pubblicato «almeno un'opera». li che implica o una lettura preventiva dei testi, cioè censura dei riprovevoli e scelta di quelli graditi, o la formazione di liste di scrittori, direttori di collana ed editori meritevoli di fiducia «a scatola chiusa», cioè anteriormente alla pubblicazione. La politica italiana è spesso vile; ma che la viltà protegga se stessa imponendo con metodi pretini il silenzio alla cultura, e popolando le anticamere di commissioni parlamentari o ministeriali di editori e agenti editoriali che fan ressaper esserepreferiti ai loro colleghi, questo non è solo vile, è infame. 13 NOVEMBRE /979

EDITORIALE Ma Pannella non muore IL CONGRESSO DI GENOVA HA DIMOstrato che il Partito radicale, in realtà, non esiste. È un giudizio drastico, ce ne rendiamo conto. Pure, crediamo, non infondato. E cercheremo di dimostrare che vi sono ragionevoli argomentazioni che autorizzano questa conclusione. C'è da premettere che il fatto che solo oggi ci si accorga sulla grande stampa di una realtà quanto meno confusa all'interno del PR e si avanzino gravi dubbi sulla sua democrazia interna deriva dall'accresciuto interesse verso i radicali seguìto al cospicuo risultato elettorale che Pannella e compagni hanno conseguito lo scorso giugno. Si può anche, con ragione, aggiungere che proprio quel successo è all'origine dell'attuale drammatizzazione dei contrasti, soprattutto per la consistente entità che, sulla base di quel risultato, ha raggiunto il finanziamento pubblico al partito. E però, a chi abbia seguito con attenzione negli anni passati la vicenda radicale, non dovrebbe essere sfuggito che le premesse di quanto è accaduto a Genova erano tutte nella passata gestione, e ancor più nella stessa normativa interna che da vari anni il Partito radicale si è dato. Perché diciamo che il Partito radicale non esiste? Basterebbero i dati. Gli iscritti al partito sono circa tremila, divisi in cosiddetti «partiti regionali», con una media quindi di circa centocinquanta iscritti per regione. Se dividiamo il risultato elettorale per il numero degli iscritti, risulta un militante ogni 430 voti, mentre - per fare un confronto - v'è un iscritto ogni sette voti al PCI e uno quattordici alla DC. I voti che ottiene il Partito radicale, in altre parole, non sono dovuti a una propaganda capillare, a un'azione di persuasione costante e prolungata dei militanti tra gli elettori, ma provengono - come giustamente dice Pannella - dalla risonanza delle campagne nazionali del partito, dall'immagine generale che una parte dell'elettorato si è fatta del suo gruppo dirigente o forse solo di Pannella personalmente. In altre parole, l'esistenza o la non esistenza della base del partito, dei tremila iscritti, ha poca o nulla rilevanza sul risultato elettorale conseguito o conseguibile. Ne deriva che il gruppo dirigente, e soprattutto il gruppo parlamentare e Pannella stesso, guardano con una certa insofferenza al condizionamento di una base ritenuta pressoché inutile: come dimostra la sostanziale indifferenza per il dibattito congressuale - testimoniata dalla parIL LEVIATANO tenza per Parigi di Pannella e dei suoi fedeli - e, a volte, un vero e proprio ostentato disprezzo (l'opposizione interna, per Pannella, è composta di «lanciatori di merda»). Che il Partito radicale non esista, quindi, non siamo noi a dirlo, ma lo stesso Pannella. E tanto egli ne è convinto che, da qualche anno, ha fatto codificare nello Statuto del partito la sua. irrilevanza e incompetenza. Lo Statuto del Partito radicale, come è noto, stabilisce la reciproca indipendenza e autonomia tra partito e gruppo parlamentare. Il gruppo non risponde al partito della propria attività. In linea di principio l'idea che il deputato, eletto dal popolo, al popolo e non al partito debba rispondere, ci sembra condivisibile. Ma perché questo principio possa avere pratica attuazione è necessario un meccanismo elettorale che faccia effettivamente dell'eletto un rappresentante diretto dei suoi elettori, come potrebbe essere per esempio un sistema elettorale con collegio uninominale. Questo non è però il caso del sistema elettorale italiano, in cui è in effetti il gruppo dirigente che, grazie all'organizzazione delle preferenze, presceglie, all'interno della lista per la quale andrà in parlamento. E infatti, nello stesso Partito radicale, era già noto l'elenco di coloro che sarebbero stati eletti ben prima del 3 giugno, con la sola incertezza per gli ultimi, la cui elezione dipendeva dal numero finale dei voti in lista. Per cui, anche, se non soprattutto, nel Partito radicale, le liste elettorali, anziché in rigoroso ordine alfabetico (o in ordine di sorte), erano capeggiate da vari capolista (a volte, come a Trieste, sgraditi alla base locale), cioè da coloro che il partito aveva designato per essere eletti. In mancanza di un meccanismo che consenta una effettiva verifica degli elettori sul deputato, un certo rapporto di disciplina nei confronti del partito, sia pure nei limiti della dignità dell'eletto, appare, per quanto imperfetto, più democratico che non l'assoluto arbitrio del deputato stesso. A maggior ragione quando, come nel caso dei radicali, i deputati, violando la lettera e lo spirito della legge per il finanziamento pubblico dei partiti (non dei gruppi parlamentari), si sono appropriati (come è avvenuto) e si appropriano, e hanno utilizzato a loro libera scelta, una cospicua somma di denaro, mentre, a loro dire, il partito veniva messo dal «regime» in 5

condizioni di non operare. Dal regime sì: ma da quello democratico o da quello interno di partito? Il congresso appare quindi un congresso-farsa, perché chiamato a decidere dopo essere stato preventivamente dichiarato incompetente sulle questioni veramente importanti. Ma non basta. Non solo il congresso non ha niente di veramente importante su cui decidere; esso non è neppure rappresentativo di:! partito: è un'assemblea casuale e senza potere. I congressi del Partito radicale, infatti, avvengono senza delegati né deleghe. Anche in questo caso un principio condivisibile (la partecipazione diretta è, se il numero dei partecipanti è ragionevole, migliore della partecipazione delegata, almeno in certi casi) manca di effettiva applicazione nella pratica. Condizione indispensabile perché la partecipazione diretta sia preferibile è infatti quella per cui tutti siano messi nelle condizioni di partecipare; altrimenti la partecipazione spontanea discrimina tra chi può e chi non può partecipare. Infatti al congresso di Genova hanno partecipato alle votazioni finali meno di venti iscritti ogni cento; il congresso cioè non rappresenta il partito, essendo assenti e senza rappresentanza, cioè senza nessuna voce il capitolo più dell '800Jo degli iscritti. Il congresso non decide delle cose che contano e non può, per· mancanza di rappresenDISEGNO DI RAFFAELLA 07TA V/ANI 6 NON Ml MANDERETE MAI A SANT1 ELENA! -- - tatività, nemmeno essere ragionevolmente messo nelle condizioni di deciderle. Il congresso è il nulla. Il partito che dunque si vanta di difendere più e meglio di tutti gli altri i diritti civili, il partito che si definisce libertario, alternativo, laico, pacifista, antimilitarista, autogestionario (sono solo alcuni degli attributi che i dirigenti usano per definirlo) appare privo di un'istanza democratica interna di un qualche rilievo, dominato da un gruppo dirigente oligarchico e rinnovato per cooptazione, dipendente a sua volta dal carisma bonapartista di Marco Pannella. Di fronte a questa realtà, l'elezione a segretario di Giuseppe Rippa appare solo come un pallido segno positivo, che difficilmente potrà modificare la realtà fin qui descritta. La mancanza di democrazia all'interno del Partito radicale è, peraltro, in singolare contraddizione con le ripetute dichiarazioni radicali di fedeltà al sistema democratico-rappresentativo. Chi dubita che il PCI aderisca ormai senza riserve al sistema parlamentare, come proclama, chiede perché mai, se a. quella convinzione esso è effettivamente giunto, non ne applichi i principi anche in casa propria, abolendo il centralismo democratico. Analoga domanda potrebbe essere rivolta ai radicali. Se essi sono per principio fedeli al sistema democratico-rappresentativo, perché non lo applicano al proprio interno? 13 NOVEMBRE 1979

DIRITTI CIVILI • • • • . . . in pnnc1p10 eraMao PER QUANTO SUONI PARADOSSALE, IL processo per reati d'opinione contro Wej Jingsheng, direttore della rivista non ufficiale «Tansuo» (Esplorazioni), che si è concluso lo scorso 16 ottobre con la sua condanna a quindici anni di reclusione per i delitti di «attività controrivoluzionaria» (avere opinioni lo è notoriamente) e trasmissione «di segreti di Stato a organizzazioni straniere» (attraverso un giornale semi-clandestino!) rappresenta un passo avanti sulla via della democratizzazione e della liberalizzazione in Cina. Prima, quando c'erano Mao da solo e poi Mao insieme alla «banda dei quattro», succedeva di peggio: si andava in galera o in campo di concentramento senza processo e per un periodo di tempo indefinito. Adele Rickett, una americana che è stata a lungo imprigionata in Cina negli anni cinquanta e che insieme al marito Allyn ha scritto il libro Nelle carcericinesi (pubblicato in Italia dall'editore Mazzotta), libro tanto più significativo in quanto scritto per elogiare il sistema carcerario della Cina, racconta di una discussione in cella tra detenute: «Alcune sostenevano che se avessimo saputo quanto tempo ancora avremmo dovuto rimanere in prigione, avremmo potuto metterci il cuore in pace e studiare e lavorare con spirito più sereno»; altre invece spiegavano: «se la promulgazione della sentenza viene rimandata, si ha la possibilità di manifestare il proprio atteggiamento. Se si dimostra di trasformarsi e di diventare oneste, la sentenza potrà essere molto ridotta quando alla fine verrà annunciata». E l'annuncio della sentenza avveniva, come nel caso dei coniugi Rickett, al momento d.ella liberazione. Gli oppositori cinesi, in altre parole, intanto si facevano dieci anni; quando il regime giudicava che non fossero più pericolosi, li condannava ai dieci anni già scontati e li rimetteva in circolazione. Quando regnava la banda dei quattro succedevano tragedie come quelia di Zhang Zhixin, raccontata dalla rivista <(Zhengming» {questa ufficiale) del luglio 1979; Zhang è ora considerata un'eroina, vittima della dittatura (<feudale e fascista della 'banda dei quattro' e di Lin Biao», e una martire, nel senso originale, perché ha preferito la morte piuttosto che abiurare la fede nel «vero marxismo-leninismo» (riprendiamo l'episodio da «Le Monde» del 13 ottobre). Zhang Zhixin, dunque, lavorava nell'ufficio di propaganda del comitato di partito di IL LEVIATANO Liaoning ed era membro del PC. Nel 1969, in piena rivoluzione culturale, venne arrestata per «tradimento ed eresia». Il suo calvario durò sei anni, durante i quali ebbe a subire torture incessanti. Per farle «confessare il suo crimine», gli agenti del Servizio di sicurezza organizzarono anche una falsa esecuzione. Fu portata un giorno insieme a due criminali comuni condannati a morte su un terreno destinato alle esecuzioni. Quando i fucili esplosero i colpi, i due caddero a terra, ma Zhang rimase indenne. Zhang resistette a tutto. Nel 1975, allora, Mao Yuanxin, nipote di Mao, e Chen Xilian, excomandante della regione militare del Nord Est, e, naturalmente all'unanimità, il comitato provinciale del partito, decisero di passarla per le armi. Gli agenti incaricati dell'esecuzione la violentarono quattro volte e, per impedirle di gridare, le tagliarono le corde vocali squarciandole la gola. Tutto questo avveniva mentre vari personaggi, in Italia, ci spiegavano con sussiego che in Cina v'era una democrazia avanzata Ora dunque la Cina ha deciso di reprimere sì, ancora, con la mano di ferro; ma almeno di rispettare una parvenza di procedura legale. Non c'è certo da esultare, ma che si tratti di un progresso appare innegabile. Non c'è da esultare perché, dopo la cacciata dei quattro, sono avvenuti altri episodi edificanti. Nel luglio 1977, per esempio, Sun Jingqi, operaio di venti anni, si assenta dal lavoro per due settimane. L'assenteismo è punito in Cina, come subito si vedrà, in maniera un po' più dura che non con la reintegrazione nel posto di lavoro con decreto pretorile. Colpevole dunque di assenteismo, Sun il 10 agosto viene spedito, per rieducarsi, nella comune «Verde-tutte-le-stagioni». Due giorni dopo al padre viene comunicato che Sun si è suicidato. Il padre d.enuncia il fatto in un dazibao affisso al muro della democrazia a Pechino il 16 dicembre 1978, mostrando ai lettori fotografie da cui risultano numerose tracce di sevizie sul corpo di Sun. Nel febbraio 1978, invece, era stato giustiziato come controrivoluzionario He Chunshun, un intellettuale di Canton. He, nel 1968, aveva scritto un articolo critico che aveva ciclostilato e spedito per posta ad alcuni indirizzi. Quasi tutti gli esemplari furono in.tercettatidalla polizia, mentre Lin Biao in persona aveva ordinato di rintracciarne l'autore. Lin non riusci a trovarlo, prima di morire. Ma, nonostan.te fossero suoi acerrimi nemici, Hua e Deng Xiaoping continuarono l'inchiesta e alla fine He fu rintracciato e giustiziato. Il caso di He Chunshu_ non è isolato. Nel gennaio 1979, dopo lo storico plenum del Comitato centrale che inaugurava l'epoca della «liberalizzazione del pensiero» e dopo che Deng in persona assicurò che gli autori dei dazibao non sarebbero più stati perseguiti, Teng Husheng, che aveva creduto al plenum e aveva affisso un dazibao di critica contro Hua Guofeng, fu arrestato, mentre i muri di Shanghai venivano 7

ricoperti di manifesti che, a nome delle masse, reclamavano la sua esecuzione come «elemento controrivoluzionario». La sorte di Teng non ci è dato conoscerla. Sappiamo invece della condanna a morte «eseguibile immediatamente)> (appelli? cassazioni? ricorsi?: formalità borghesi!) pronunciata il 25 ottobre scorso contro Wang Zhouxin, direttrice tra il 1971 e il 1973 della compagnia dei carburanti di Bingxian, accusata di aver truffato allo Stato la colossale somma di 500.000 yuan (quasi 300 miliardi). La condanna è interessante sia percM, visti i precedenti procedurali, è difficile valutare se la signora Wang debba essere considerata colpevole o no; sia perché, ammesso che sia colpevole - e fermo rimanendo l'orrore per la condanna a morte -, essa dimostrerebbe che i casi Lockhecd rispetto a quello che succede nei Paesi socialisti fanno la figura di un moscerino a petto a un elefante. Per regimi che pretendono di aver abolito lo sfruttamento e di essere egualitari, c'è da dire che non c'è male. un altro processo politico, contro la signora Fu Yuehua, accusata di aver organizzato marce di protesta per le vie di Pechino e di calunnia nei confronti di un uomo da lei denunciato per violenza carnale. Aprendo il processo, il giudice apostrofa Fu: «Lei deve essere sicuramente l'organizzatrice della protesta, visto che marciava davanti agli altri». Al che l'imputata pronta: «Certo. Se fossi stata l'ultima del corteo avreste detto che lo controllavo da dietro; se fossi stata nel mezzo, mi avreste accusato di essere proprio al centro». A queste parole la folla, riferisce Liu Qing, direttore di un'altra rivista non ufficiale, scoppia in un applauso prolungato. Il giudice, imbarazzato, rinvia il processo, che non è stato più ripreso. Da allora, inoltre, sembra che non si sia stato più, almeno a Pechino, alcun processo politico. Tra tanto squallore, una buona notizia. Sembra che il giorno successivo alla condanna di Wei Jingsheng, il 17 ottobre scorso dunque, al Tribunale di Pechino fosse all'ordine del giorno Ciò che, se confermato, getterebbe qualche luce sull'improvvisa decisione delle autorità cinesi di seguire d'ora in poi la procedura nei processi e farebbe prudentemente sperare, a scorno dei nostrani fautori della «democrazia socialista», che anche in Cina le cose stanno cambiando davvero. Giulio Savelli 8 La ftnlandiuadone dell'Europa Onesto, rispettabile e ammirevole popolo, U nnlandese. In poc:o più di mezzo secolo ha dato all'Europa akunl esempi senza confronti: ba pa1ato nno all'ultlmo soldo I debiti sia della prima sia della seconda 1ucrra mondiale. E per quest'ultima enormi trlbu• ti di san1uc, di sudore e di beni al suo strapotente vicino. E ancora out continua a pa1are U prezzo del silenzio verso l'URSS In cambio del suo auto1ovemo. Il suo cuore, U suo modo di vita, la sua cultura, la sua economia apparten1ono all'occldcntc europeo. Ma, come tutti sanno, 01nl finlandese si 1uarda bene dal formulare una benché minima critica alla Russia. Anzi, si sente In dovere di proclamare che ciii rifiuta di essere presente laddove qualcuno osteula quel suo potente vicino. Nella pubblicistica politica occldcntalc questa sua specialissima condizione ba fallo nascere Uconcetto di «flnlandlzzazlone» come una vera e propria catqorla della politica lntcmazlonalc. ProbabUmcntc esso entrerà ora anche In Oriente allorebé, al suo rientro In Cina, Il Presidente Hua Guofcng dovrà dennlre l'atteutamcnto di almeno tre del quattro Paesi curopel Come, Infatti, si potrà considerare l'atteutamcnto del aovcmo francett che si t addirittura rifiutato di rispondere alle valutazioni sull'qemonlsmo sovietico fatte dal leader clncae? E come l'attcglamcnto della Germania fc• dcralc la quale, con meno nnezza di• plomatlca, avvertiva l'ospite, prima di mettere piede In Germania dcll'«lnopportunltà» ch'egli esprimesse 1ludW sull'URSS? Dall'attcg&lamcnto Italiano tutti abbiamo registrato l'abuUca e Inconsistente risposta del presidente del consl• gllo Il quale, alla constatazione che «l'Europa subisce pressioni e minacce crescenti» fatta da Hua Guofcn1, rispondeva con la frase bizantina: «cercheremo di rafforzare cd estendere le convergenze &là esistenti». Tiriamo le somme su quel che sta accadendo da poco più di un anno nel rapporti URSS.Europa. Alla fine del 1978Breznev, con una lettera personale diretta al capi di governo, Invitava la Francia, l'Inghilterra, la Germania e l'ltalla a non fornire materiale belllco alla Cina. Dalla seconda metà del corrente anno, L'URSS ha esortalo In tutti I modi I paesi europei a far pres• slonc sul Senato americano affinché ratlncbl senza condizioni l'accordo sul Salt 2. Nel settembre scorso ha zittito rudemente quel paesi europei I quall, lndl&natl per U massacro del popolo cambogiano, deploravano apertamente Il Vietnam, allealo dell'URSS, Invasore della Cambo&la. Gli ammonlmcn• ti, le minacce, al llmltl della decenza, a proposito dcll'lnstallulonc In Europa del missili Crulse e Pcrsblna 2, a controbUanclamcnto della superiorità raa- HUA GUOFENG IJ NOVEMBRE 1979

- HUA IN ITALIA DOMENICO BARTOLI Alla caccia del <<Milione>> L , AMMAINABANDIERA IMPOSTO DALle autorità italiane al circo Orfei che inalberava il vessillo di Formosa, avendo nel proprio personale alcuni acrobati cinesi non di obbedienza comunista, è stato un significativo esordio della visita di Hua Guofeng, il primo ministro e supremo capo della Cina. Pare che l'offensivo simbolo sventolasse lungo il percorso che l'ospite doveva percorrere dopo l'arrivo all'aeropc,rto. La vista sgradita gli fu risparmiata. Si dice che gli acrobati fossero invitati a non muoversi dalla loro roulotte, quando il corteo di automobili giunta dall'URSS, sono cronaca del nostri giorni. Il comportamento del governi francese, tedesco ed ltaUano nel confronti di Hua Kuofeng ~ apparso abbastanza sincronizzato per non avvalorar,, U sospetto che la visita del pn,sidente cinese sia stata preceduta da massicci Interventi diplomatici dell'URSS. A quanto sembra In Europa esistono oggi solo due capi di governo con le paUe: Josip Broz Tito e Margan,t Thatcber. Il primo, alle dun, deplorazioni deU'URSS per aver accolto calorosamente lo stesso Hua Guofeng In visita a Belgrado, ba risposto con U consueto orgoglio, In un discorso pubblico addirittura, rivendicando al suo Paese Il diritto di accogllett cbl vuole e confermando cbe «l'egemonismo esiste In pattccble parti del mondo». La seconda, alle minacce sovietiche per la questione del Crulse e Persblng 2, ha risposto senza esitazione di essett favottvole alla loro Installazione In Europa, mentn, nella visita di Hua Guofeng si ~ comportata con dignitosa flen,zza accettando, per di plil, di fornltt alla Cina 90 aettl a decollo verticale. Il n,sto dell'Europa, al contrarlo, da qualche anno mostra di essett predisposta a subltt le pttvarlcazlonl sovietiche accettandole In nome di un ptt• sunto «rafforzamento della. distensione». Menttt In n,altà, cosi facendo, essa sta scrivendo le prime paclne della sua flnlandlzzazlone. Gianni Finocchiaro IL LEVIATANO passava v1cmo al circo. Dovere di ospitalità, senza dubbio. Ma non si agitavano per Roma gli emblemi dei Vietcong durante le visite, nei tardi anni '60, di grandi personaggi americani? Non fu quasi aggredito un vice-presidente degli Stati Uniti? Non si fece viaggiare Nixon in elicottero? L'Italia ufficiale, per quanto lusingata da questa visita, era anche imbarazzatissima, trovandosi sballottata da due pressioni opposte. Da una parte, i sovietici, che ripetendo quanto avevano detto nelle altre capitali europee, annunciavano proteste e finimondi diplomatici se il nostro governo avesse tollerato invettive contro di loro da parte del visitatore. E dall'altra, i cinesi per i quali l'Europa serve a due soli usi, tutti e due sgraditi ai sovietici, e cioè come fornitrice di prodotti industriali, specialmente di interesse militare, e come contrappeso strategico. Il viaggio a Parigi, Bonn, Londra e Roma del successore di Mao doveva servire a questi due scopi. La voce di Hua nei brindisi, nei discorsi, nelle conversazioni riservate doveva levarsi liberamente per segnalare i pericoli, per incitare alla resistenza quelli che, senza dubbio, i cinesi giudicano come i pavidi, decadenti e rammolliti europei. Hanno poi tanto torto? In un articolo di alcuni anni fa, il mio amico Sergio Fenoaltea ci avvertiva di non prendere sempre sul serio gli incitamenti antisovietici dei cinesi. Questi, diceva Fenoaltea, per anni hanno aizzato il governo di Mosca contro l'Occidente, contro la «tigre di carta» americana». Ora, fanno il contrario. È il loro interesse, anche se il gioco viene condotto un po' rozzomente, più da imitatori dei bolscevichi che da eredi dei mandarini. Una tensione intorno a Berlino, qualche incidente fra sovietici e occidentali sarebbero utili ai cinesi, ma non agli europei. Pure, non è possibile negare che molte delle cose gridate da Hua contro gli «egemonisti» siano del tutto vere. È vero che l'Unione Sovietica fa pesare su di noi una minaccia armata permanente, e che la sua espansione mondiale non ha tregua. È vero, che un comune interesse difensivo, sia pure un po' alla larga, ci lega a quel lontano Paese. È vero, infine, anche se Hua ha la prudenza di non minacciarlo, che sarebbe rovinoso per noi un ritorno dei due colossi comunisti alla collaborazione e all'alleanza. Da tutti questi punti di vista, mi sembra, il bavaglio che gli europei hanno tentato di mettere all'ospite, senza riuscire del tutto a imporglielo, è un errore politico, e la rivelazione perfino ridicola della debolezza di un continente che fu il centro del mondo. 9

ALDO GAROSCI Cauti ricordi per il papa polacco Voci ALLARMATE s1 soNo ASCOLTAte in questi giorni sul capitolo che - lo ha confermato l'on. Gonella - dovrebbe chiudersi in questi giorni, nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa. Voci sulla «quarta bozza» del nuovo Concordato che il governo, forte della sua delega, intenderebbe approvare senz'altro, salva la successiva ratifica. Voci alimentate dall'affermazione recentissima di Giovanni Paolo II sul diritto della Chiesa a impartire l'istruzione religiosa «nella scuola o nel quadro della scuola»; e persino dal cordiale intimo pranzo tra il Papa e il Presidente. Senza allarmarci, qualche preoccupazione l'abbiamo anche noi. Anzitutto, il Concordato che dovrebbe impegnare reciprocamente lo Stato italiano e la Chiesa non sarà un «patto di famiglia». Per la prima volta dal Cinquecento in qua il capo della Chiesa non è un Italiano. Nel senso tecnico della parola, intendiamoci, non lo è mai stato: jl Papa IX - Italiano o Polacco, Greco o Siriano, l'israeliano Pietro o il Fiammingo Adriano VI o l'Italiano Pio IX - è stato sempre il capo. di una Chiesa Universale e coloro che si sono succeduti sul trono di San Pietro non lo hanno dimenticato. Ma non c'è dubbio che l'appartenenza a una data comunità terrestre abbia un suo peso psicologico: si rifletta al fatto che lo stesso presente pontefice ha in più di un'occasione ricordato con particolare affetto, fin nelle devozioni (Madonna di Cz.estochova), la sua patria terrena, e si intenderanno meglio come siano importanti certi legami psicologici e le relative esperienze. Per questo anche crediamo sia non inutile segnare qui alcuni «ricordi» che il Pontefice dovrebbe tener presenti nello stringere un nodo con una realtà cosi complessa come il popolo 10 italiano. Giovanni Paolo certo conosce i fatti, ma non li ha vissuti dal di dentro, come li abbiamo vissuti noi, ed è bene senta anche la nostra voce. Per cominciare, il Concordato non solleva nella unanimità del popolo italiano ricordi lieti. È legato, nelle sue origini, a un patto con un dittatore, l'unico che l'Italia unitaria abbia conosciuto; e, nella sua conferma costituzionale.a una formula politica in cui non erano assenti calcoli di potere che non vorremmo veder riprodursi. La «Conciliazione» tra lo Stato e la Chiesa non poggia perciò, nel sentimento di molti italiani, su quei due strumenti giuridici, ma sul sentimento degli apporti che il Cristianesimo - non senza drammi - ha dato all'umanità italiana, dalla caduta dell'Impero Romano alla Resistenza. È quindi ovvio che moltissimi laici, e molti cattolici praticanti preferirebbero a un nuovo Concordato la separazione, che del resto sarebbe più conforme, almeno a prima vista, ai principi di libertà religiosa riconosciuti dal Vaticano Il. Ma bisogna pur riconoscere che, richiedendo per sé norme contrattuali di tutela speciale, la Chiesa ha due buone ragioni. La prima che le libertà di tutti sono bensl sancite nella Costituzione; ma nel tumulto delle vicende odierne, in cui le costituzioni possono avere labile esistenza, la Chiesa agisce con prudenza, in presenza dell'imperscrutabile avvenire, assicurando le sue libertà particolari con uno strumento internazionale. Sarà limitato, ma è umano; i contratti sono schermi di carta, lo sappiamo: ma sempre meglio di nulla. La seconda, l'allargarsi costante e incontrollato della sfera d'azione dello Stato e enti affini. Ciò che una volta era motivo di scandalo, il /3 NOVEMBRE /979

contributo pubblico alla vita materiale della Chiesa, non ci sembra abbia più il peso di un tempo, dal momento che i partiti, gli spettacoli, i giornali, i sindacati sono in cosi larga misura sovvenzionati o forniti del potere di riscuotere. Sarà, se mai, questione di giustizia distributiva. La libertà religiosa Oibertà di tutti, secondo il Concilio) può perciò essere difesa in regime concordatario, in regime separatista e persino in regime giurisdizionalista. Verremo, perciò, direttamente, alla materia delle inquietudini. La Chiesa ha, secondo noi, diritto, di rivendicare una sua iniziativa, non assoluta, non incontrollata (i casi Pagliuca insegnino), ma una sua sfera di libertà nel campo assistenziale. In esso, diciamolo apertamente, la burocrazia statale, partitica, regionale, si è dimostrata spesso inferiore alla spontaneità, allo spirito di sacrifizio, di servizio, all'umanità degli uomini della Chiesa. Ove questi sappiano evitare la tentazione del proselitismo non vediamo perché ad essi non sarebbero affidate - attraverso rapide mobilitazioni e smobilitazioni di forze da parte loro - anche compiti urgenti: quello, per esempio, di colmar la lacuna tra la disposizione che ha chiuso gli ospedali psichiatrici e l'incapacità delle «regioni» di assistere i dimessi. Certo, ogni attività tende a diventare istituzione, e con le istituzioni sopravvengono abusi e monopoli. Sarà certo stato un problema, per i giuristi, la coesistenza della libera forma associativa e del potere autonomo, dell'ente morale, obbediente in più alle regole del diritto canonico. Confidiamo lo abbiano risolto; su questo problema naufragarono sempre, prima della tormenta repubblicana, i tentativi di accordo tra la Spagna liberale e il Vaticano. Ma il problema dei problemi sarà stato senza dubbio quello della scuola. Nessuno pensa di toccare la scuola libera, o privata, dei religiosi, che anzi prospera sulla crisi della scuola di massa statale. La società moderna è cosi onnipenetrante, universalmente diffusiva, che il pericolo delle «due patrie», uscite dalle due diverse educazioni, appartiene al passato. Ma qual'è, quale dev'essere l'educazione religiosa, l'educazione cattolica impartita nella PAPI E PRESIDENTI DEL DOPOGUERRA IL LEVIATANO scuola pubblica'? Fondato sulle sue esperienze, probabilmente, e anche su giuste preoccupazioni di disciplina all'interno dell'istituzione che egli regge, il Papa sembra assai interessato al problema. Qui potrebbero venir compiuti i maggiori errori. Il corso di religione tenuto per tutti coloro i quali non ne chiedessero l'esenzione che veniva intercalato tra le ore di lezioni scientifiche o letterarie riusciva da un lato oppressivo verso il dissidente che lo subiva passivamente in silenzio o passeggiando nel corridoio. (peggio accadeva nelle scuole elementari, ove l'istruzione religiosa era interamente fusa nella lezione del maestro); dall'altro era compito sovrumano per l'insegnante, tanto poco la «materia» che aveva da illustrare si inseriva nel tessuto di una scuola in cui tutti gl'insegnanti, cattolici o no, han l'obbligo di non trasferire la propaganda dei loro principi nella pratica dell'insegnamento. A noi sembra che alla Chiesa converrebbe assai più chiedere - e allo Stato assicurare - libero accesso alle «assemblee» indette nelle scuole dai suoi sacerdoti a tutti gli alunni che lo vogliono, e tutelarne la libertà d'accesso, che presentarsi in veste d'autorità, docente tra i profani, in nome di un antiquato privilegio. O se «assemblea» non piace la si chiami ora di informazione e meditazione; non sono i vocaboli che mancano, l'importante è che ci intervenga chi vuole. Dov'è che il «Papa polacco» ha ottenuto la massima popolarità tra i suoi nuovi concittadini romani'? Forse nelle sue visite ufficiali'? O nelle spontanee accolte di gente propensa ad ascoltare una sua parola che - senza mai interferire, nemmeno in materia delicata, in quelle che sono le leggi dello Stato italiano - ha dettato quella che è la regola del credente al servizio dell'umanità'? Questo «ricordo» di quel che sia il popolo italiano - indulgente, forse troppo, alle adunate oceaniche, ma poi gelosissimo della sua individuale autonomia e pronto al sarcasmo verso l'autorità codificata - conveniva dedicassimo non soltanto al Papa polacco, ma ai negoziatori che rappresentano il suo e il nostro governo.

COMUNISTI DOMENICO SETTEMBRINI La rivoluzione • • viaggia in seconda IL PCI, PUR NON PRETENDENDO DI creare il socialismo attraverso l'azione della DC, vuole introdurre delle forme nuove di governo nella società italiana, facendo un'operazione rivoluzionaria: magari soltanto quella che consista nel far funzionare lo Stato italiano, perché in Italia è rivoluzione anche far camminare i treni in orario o far funzionare i tram o gli aerei». Questo drastico ridimensionamento di un'operazione, il compromesso storico, che la propaganda ufficiale del PCI seguita invece a presentare ancor oggi come l'avvio infallibile verso una nuova civiltà, è di Emmanuele Rocco, giornalista del TG2, ma non incontra obiezioni di alcun genere da parte del suo illustre interlocutore, Fernando Di Giulio, l'esponente comunista che tra il 1976 e il 1979 ha tenuto, tramite Evangelisti, l'uomo di Andreotti, i rapporti ufficiosi col governo (Un ministro ombra si confessa, Rizzoli, pagg. 156, L. 5.000). Nessuno crediamo, leggendo questa intervista, riuscirà a sottrarsi alla malinconica considerazione di quanto sia amaro il destino delle rivoluzioni e dei rivoluzionari nel nostro Paese. Cominciano sempre con grande strepito di fanfare - l'ordine nuovo, l'uomo nuovo - per ridursi sempre, prima o poi, a considerarsi addirittura fortunati se riescono almeno a conseguire gli obiettivi che per il riformismo appartengono invece alla più ordinaria amministrazione. Cosi, ad esempio, Togliatti sosteneva, pensando con tranquilla sicurezza a se stesso, che in Italia, per essereall'altezza del compito, al futuro duce della rivoluzione non sarebbe bastato di avere le doti strategiche di un Lenin. Ad esse avrebbe dovuto unire il genio di un Michelangelo e la cultura di un Leonardo. Dopo trent'anni, i suoi successori si contenterebbero invece di essere al più dei buoni capostazione, senza neppure rendersi conto magari di squalificare in questo modo il comunismo di fronte al fascismo, che di far marciare i treni in orario seppe non solo vantarsi, ma anche farlo, e alla svelta. Da parte di Rocco l'accostamento della rivoluzione del compromesso storico alla rivoluzione del fascismo, in termini per di più cosi efficacemente evocativi, è da ritenersi ovviamente 11 FERNANDO DI GIULIO CON EUGENIO SCALFAR/ un incidente del tutto involontario, niente più di un lapsus per lui particolarmente infelice, anche se per noi molto rivelatore. Non è infatti a caso che accadono certi lapsus, che ritornano sulla penna delle sinistre filocomuniste certe espressioni, come ad esempio «terza via», adottata addirittura all'ultimo congresso del PCI per definire la linea strategica del partito, e «compromesso col capitalis1'":»>,a cui dalle colonne di «Repubblica» si i.,vitano con insistenza le forze rivoluzionarie; espressioni che valsero nel passato a contraddistinguere l'immagine che della propria identità dava il fascismo, per non venir confuso né col collettivismo di Stalin né col capitalismo della plutocratica America. Come sempre in questi casi, la frequenza e l'ampiezza delle coincidenze semantiche testimoniano che deve esistere almeno una qualche analogia di base tra le diverse situazioni. Non si pensi, per carità, che si voglia da parte nostra profittare dell'occasione per ritorcere contro i comunisti quell'accusa di fascismo che essi quotidianamente lanciano, senza tanti scrupoli filologici,a destra e a manca, contro chiunque dia loro ombra. L'analogia cui ci riferiamo si limita al fatto che il fascismo, quando si vantava di realizzazioni che di per sé neppure appartengono alla tradizione del riformismo, ma addirittura a quella del liberalismo e persino del conservatorismo illuminato, non lo faceva per convalidare di aver cambiato pelle. Voleva anzi fondare su cose limitate, e quindi fattibili, la garanzia che un giorno avrebbe saputo realizzare anche quella rivoluzione dell'uomo nuovo, a cui non intendeva assolutamente rinunciare, sebbene nessun fascista, neppure Mussolini, sapesse che diavolo mai quest'uomo nuovo avrebbe dovuto essere. E proprio da quest'irriducibile fedeltà al mito della rivoluzione discendeva il fatto che il fascismo, anche quando realizzava miIJ NOVEMBRE 1979

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