Il Leviatano - anno I - n. 1 - 4 novembre 1979

N. I· 4 novembre 1979 Lire 500 IL LEVIATANO settimanale di commento politico ...... __ L'arte ... imita quel raz.ionale e più eccellente lavoro della natura che è l'uomo. Poiché con l'arte è creato quel gran Leviatano. chiamato Stato (in latino dvitasJ, il quale non è che un uomo artificiale, bench; di maggiore statura efon.a del naturale, per la protezione e difesa del quale fu concepito. (T. Hobbes. Leviatano. Introduzione) li grande Leoiatano è quell'unica creatura al mondo che dovrà restare senza ritratti sino alla fine. Questo Ll'viatano ci scende addosso, diballendosi dalle fonti dell'Eternità. (H. Melville. Moby Dick. capp. LV. CV) Tra i detenuti del lager ci si muove come su un terreno minato, si esplora ciascuno di loro con i raggi dell'intuizione ptr non saltare in aria. E nonostante ques1a generale circospez.ione, quanle nalure poeliche mi si sono rilevate, in quelle teste rasate come scalo/e, sollo i giubbolli neri dello zek! E quante si sono trallenute per non essere scoperte? E quanle - migliaia di volle più numerose - non le ho incon1ra1e ajfauo? E quante ne hai strangolale tu nel corso di questi decenni, malede110 Leviatano? A. Solzenicyn. Arcipelago Gulag, V. 5) in questo numero: Il recente intervento del dirigente sovietico B. Ponomarev sull'eurocomunismo è stato interpretato come un attacco ai comunisti occidentali. Ma non è solo questo: l'editoriale mette in luce Le ragioni di Ponomarev. Parlando delle cause della crisi italiana dell'ultimo decennio Rosario Romeo ne individua la principale nell'esistenza in Italia di Uno Stato troppo fragile. Vi sono però, della crisi, anche ragioni di formazione mentale, di ideologia, soprattutto nella sinistra: è quanto ricorda Giuseppe Bedeschi nell'articolo Tra scienza e utopia. C'è un rapporto di filiazione tra comunismo e terrorismo? C'è stato nel passato, da parte del PCI, un atteggiamento di compiacenza o tolleranza nei confronti dei terroristi? Se lo chiede Lucio CoUetti in Un quadro veritiero. Per la politica estera italiana Gianni Finocchiaro compie un bilancio dello Squallore deUa VII legislatura. Un lungo saggio di Leszek Kolakowski dal titolo Il viUaggio introvabile affronta la contraddizione tra l'aspirazione dell'uomo a ritrovare la sicurezza, la tranquillità, i rapporti affettivi nel modello della vita primitiva e l'individualismo della società industriale moderna; tutti vogliono tutto dallo Stato-Leviatano, dice Kolakowski, e nello stesso tempo non vogliono più nemmeno che lo Stato esista. Inoltre: commenti sulla riforma costituzionale, l'intervento di Pertini a proposito dello sciopero dei controllori, il documento degli intellettuali socialisti, gli arresti di Jean Fabre, il futuro del Nicaragua, lo sterminio dei cambogiani, la politica musicale di comunisti e socialisti. E ancora altri commenti e notizie. Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 17737del 6 luglio 1979. Prezzo: lire 500. Arretrato: il doppio. Abbonamenii: annuo lire 20.000. semestrale lire 11.000. Versamenti sul conto corrente Postale n. 58761008 intestato a ..11Leviatano - via dell'Arco di Parma 13 - 00186 Roma•. Stampa SO.GE.MA. srl .. via di Santa Seconda. 28-00166 Roma-Tel. 6960745-Anno I. n. I -Sped. abb. post. gr. 2°/70% - Progetto grafico di Carla Volpato Collaboratori: GIOVANNI ALDOBRANDINI. GIUSEPPE ARE. DOMENICO BARTOLI, GIUSEPPE BEDESCHI. ENZO BETIIZA. LUCIANO CAFAGNA. VENERIO CATTANI, LUCIO COLLETTI, RENZO DE FELICE. PAOLO DEMARTIS. CELSO DE STEFANIS, SIRIO DI GIULIOMARIA. GIANNI FINOCCHIARO. CARLO FUSI, ALDO GAROSCI. PIER CARLO MASINI, NICOLA MATTEUCCI, RENATO MIELI. ALDO G. RICCI. GUIDO RILLETTI. ROSARIO ROMEO, ALBERTO RONCHEY, DOMENICO SETTEMBRINI. GIUSEPPE TAM_~U~RANO. PAOLO UNGARI. GUELFO ZACCARIA. Direttòre responsabile: GIULIO SAVELLI

«IL LEVIATANO» SETTIMANALE, DI CUI presentiamo al lettore Il primo numero, è edito da una cooperativa costituita dai collaboratori stessi del periodico e sarà (ce lo auguriamo) autofinanziato. La distribuzione In edicola potrà presentare non Irrilevanti difetti, dei quali fin d'ora ci scusiamo col lettori, che sono tuttavia pregati di segnalarci le disfunzioni maggiori. Il modo più sicuro di avere tutti i numeri del «Leviatano», soprattutto nel centri minori, è perciò quello di abbonarsi. L'abbonamento regolare costa L. 20.000 per un anno e L. 10.000 per sei mesi. In funzione promozionale, tuttavia, a tutti coloro che sottoscriveranno l'abbonamento annuo entro Il 31 dicembre 1979 riconosceremo uno sconto del 50% e invieremo il periodico fino a tutto il 1980. Da oggi a fine d'anno, dunque, l'abbonamento fino al 31 dlcem• bre 1980 costa diecimila lire. I versamenti vanno effettuati sul conto corrente postale n. 58761008 Intestato a «Il Leviatano» • via dell'Arco di Parma 13 · 00186 Roma. I LETTERE I Ideologia e politica Caro direttore, il numero «zero» del «Leviatano» pubblica una lettera di Federica Acqua di Ancona che solleva, con una certa vena polemica, il problema del rapporto tra ideologia e politica. Non sono un esperto del problema; tra i collaboratori del «Leviatano» ci sono certamente persone capaci di scrivere cose interessanti al riguardo. Vorrei solo fare alcune considerazioni alla buona a proposito di ciò che la lettrice di Ancona considera una ideologia come le altre: la liberaldemocrazia. A mio avviso la concezione liberaldemocratica potrebbe essere considerata una vera e propria ideologia oppure, semplicemente, un modo di ripensare alcuni problemi alla luce delle recenti (purtroppo tutte negative) esperienze. Mi spiego. Una cosa è partire da un principio ispiratore di tutto il comportamento politico, e non solo politico, come mi sembra sia il marxismo, arrivando persino a negare o ad occultare la realtà, quando contrasta con tale principio; altra cosa è invece partire da una ipotesi da verificare costantemente mediante l'analisi della realtà. . Facciamo un esempio. Se si considerasse la libera concorrenza e il libero gioco delle forze economiche come un principio assoluto e intoccabile, si cadrebbe negli schemi dell'«ideologismo», che Federica Acqua giustamente rifiuta. Se invece si partisse da questo assunto considerandolo una semplice ipotesi da veri2 ficare attraverso, che so, l'esame del funzionamento dei pro e contro delle industria IRI, si farebbe allora un utile lavoro, un lavoro di cui si sente la mancanza. Purtroppo siamo ben lontani dall'assumere questo stile di lavoro. I sindacati, ad esempio, sono in prima fila nell'affermare principi intoccabili: «la scala mobile non si tocca», «il diritto di sciopero non si tocca», senza neppure rinettere se una revisione della scala mobile e una regolamentazione del diritto di sciopero potrebbero giovare agli stessi lavoratori, in quanto membri della collettività. Se invece fossimo più elastici, se sviluppassimo un reale processo di ripensamento, senza tabù e senza condizionamenti ideologici, allora forse potremmo trovare soluzioni reali ai problemi che travagliano il nostro Paese. Forse mi sbaglio, ma un certo spirito liberale, con tutta la spregiudicatezza che ha sempre caratterizzato il vero liberalismo, è proprio ciò che manca oggi in Italia, forse anche in quelli che ufficialmente rappresentano la tendenza liberaldemocratica. In ogni caso varrebbe la pena di discutere con maggiore ampiezza e, lo confesso, con idee più chiare delle mie. Franco Bruni, Roma Una campagna moralizzatrice Caro direttore, ho letto con interesse il numero «zero» del «Leviatano». Ho l'impressione che siate alla ricerca di una nuova formula e, anche se non credo l'abbiate trovata, mi sembra che siate riusciti almeno a raccogliere collaboratori validi e interessanti. È inutile sottolineare che la vostra iniziativa si colloca in una situazione politica estremamente difficile e drammatica. La mia opinione è che uno dei fattori che hanno contribuito ampiamente a creare questa situazione sia la corruzione. A tale riguardo è doveroso precisare che è proprio la Democrazia Cristiana a costituire l'ambiente politico più fertile per lo sviluppo di uno dei mali di cui soffre la nostra società: la corruzione, per l'appunto. Tutti gli scandali che sono scoppiati - e quelli che non sono stati ancora scoperti? - dimostrano che questo partito è corrotto sino al midollo. Negli altri partiti che sono stati al governo i fenomeni di malcostume e di corruzione non sono frequenti come nella Democrazia Cristiana. Mi sembra tuttavia che nessun partito ne sia stato immune. È proprio questa situazione che permette al Partito Comunista di presentarsi come un partito onesto, che promette di gestire lo Stato in modo esemplare. Questo elemento della situazione politica italiana non andrebbe, a mio avviso, sottovalutato. La gente è stanca di amministrazioni non solo inefficienti, ma anche marce. A mio avviso si potrebbe, e si dovrebbe, fare qualche cosa al riguardo. Ad esempio, si potrebbe fare un appello ad uomini politici come Zaccagnini, perché si facciano promotori di una campagna moralizzatrice. Di ciò, ripeto, abbiamo urgentemente bisogno. Non di nuove formule politiche, non di nuovi programmi, non di nuovi schieramenti o di «terze forze», ma di uomini onesti e incorruttibili, che attuino un nuovo modo di governare. Forse cosi si riuscirebbe a risolvere anche il problema del terrorismo. Buon lavoro. Alberto Gioia, Milano 4 NOVEMBRE 1979

I IL PRINCIPE IN REPUBBLICA I I POLITICA ITALIANA I (a cura di Paolo Ungari) I giacobini di turno IL CAPO DELLO STATO CHE VUOL LIVELiare la durata del suo incarico su quella del parlamento, pur con l'opportuna aggiunta dell'abolizione del «semestre bianco»; un presidente della Camera che suggerisce con insistenza di affievolire la funzione politico-legislativa del Senato, pur accentuandone quella di controllo; esponenti dei grandi partiti che progettano di semplificare lo schieramento parlamentare eliminando dalla scena (secondo un 'inchiesta di «Mondoperaio») otto su dodici delle formazioni politiche oggi rappresentate; autorevoli consiglieri giuridici della sinistra che raccomandano ora l'elezione popolare diretta del presidente della Repubblica, ora (ad esempio) il ritorno del pubblico ministero alle dipendenze del ministro guardasigilli controllato e indirizzato dalla Camere, cioè dai partiti. E ancora: dopo l'allineamento della durata del Senato su quella della Camera (dal 1953), dopo la riduzione a nove anni del periodo di mandato dei giudici costituzionali con eliminazione contestuale della prorogatio ed altre indirette limitazioni dell'indipendenza della Corte, chi è in vena di abolizione propone anche quella del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, senza peraltro offrire soluzioni di ricambio al medesimo problema sostanziale. Che cos'hanno in comune queste ed altre soluzioni, destinate a riversarsi nel gran pentolone di nebbia della riforma costituzionale, interlocutorio esercizio nella ricercadi vie d'uscita alla tormentosa crisi politica italiana? È presto detto: l'insofferenza crescente per il disegno equilibratore e garantista della Costituzione della repubblica, una volta che le grandi maggioranze del 90 e più per cento si sono rivelate anche esse inette ad avere ragione della «lentocrazia» italiana. La Costituzione - si torna a ripetere come negli anni cinquanta - non può essere una trappola: ed ecco che, di fronte allo spettacolo di un potere irresoluto a ordinare ciò che si deve - intento com 'è a enunciare di continuo ciò che occorrerebbe -, avanzano le soluzioni brutalmente semplificatrici dei giacobini di turno. Ma un potere irrigidito e centralizzato, ·Ìiberato da «intralci», è democraticamente più forte? Davvero la situazione italiana non sa suggerire nulla di meglio che continuare nella linea già sostanziata nel finanziare a carico del bilancio dello Stato non già le associazioni di cittadini denominate partiti, ma i loro gruppi di comando centrali; la stessa che tendeva a semplificare due volte la nostra rappresentanza nel parlamento europeo, durante l'interminabile negoziato del Viminale, attribuendo un premio di maggioranza ai due partiti più forti e determinando gli eletti, col sistema delle liste bloccate, prima dell'apertura della campagna elettorale? Consideriamo, appunto, il caso dei partiti. Cancellare dalla scena le piccole formazioni politiche con una buona legge elettorale che lasciasse in vita solo i tre «di massa» e (fino a scioglimento) il MSI-DN, non rischia di respingere la protesta di sinistra e le minolscgu~ a pag. è I J IL LEVIATANO Alla riscoperta del liberalsocialismo CoN UNA CONFERENZA STAMPA TENUTASI a Roma presso lasede dell'Associazione Stampa Estera il sindaco di Milano Carlo Tognoli (PSI), il sottosegretarioagliEsteri Antonio Baslini (PLJ) e il prof. Leo Valianihanno illustrato aigiornalisti ilprogramma e le finalità del convegno internazionale di studi che si terrà a Milano il IO e 11 dicembre p. v. sul tema «Liberalismo sociale e socialismo liberale in Europa: esperienze e prospettive». Promosso ad iniziativa delle riviste «Alleanza» (di area libera/democratica) e «Critica sociale» (di area socialista), il convegno milanese sarà presieduto da Norberto Bobbio ed avrà tra i propri relatori studiosi come Aldo Garosci, Ra/f Dahrendorf, Ugoberto A/fassio Grimaldi,Domenico Settembrini, Nicola Matteucci e altri. All'iniziativa hanno aderito numerosi periodici dell'area laico-socialista, tra i quali «Nord e Sud», «Argomenti Radicali», «Ragionamenti» e «li Leviatano». All'Università di Roma democratici latitanti IL PROF. ANTONIO RUBERTI, CANDIDATO del PCI, è stato riconfermato rettore dell'Università di Roma con il voto «unitario» di socialisti, comunisti ed ultrasinistra. «Unità» e «Paese Sera» hanno a lungo inneggiatoalla vittoria, guardandosi bene, ovviamente, dal soffermarsi con un minimo di attenzione sulle cifre che hanno portato a questo risultato. li prof. Ruberti, infatti, ha vinto con 419 voti su un totale di 839professori che esercitano l'elettorato attivo per la massima carica dell'Ateneo romano, ovverosia non ha ottenuto nemmeno la metil dei suffragi degli aventi diritto. I 420 professori che non hanno votato per il candidato frontista (e cioè la maggioranza) risultano così suddivisi: 2I O non sono andati a votare, 150 hanno votato scheda bianca, 46 hanno disperso il loro voto pronunciandosi per una quindicina di loro colleghi e 14 si sono fatti annullare la scheda. Ci sarebbe da chiedersi, a questo punto, come mai tra i 420 professori che in un modo o nell'altro hanno dimostrato di non gradire il candidato comunista non si sia stati in grado di varare una candidatura contrapposta di segno democratico sulla quale si sarebbero potuti riversare anche i voti di non pochi socialisti. Pellicani convertito? UN GRUPPO DI INTELLETTUALI SOCIALISTI ha diffuso nei giorni scorsi un documento nel quale si prendono le distanze dallapolitica di solidarietà nazionale (che «deve essere circoscritta nel tempo, limitata ed estremamente concreta negli obiettivi, come si conviene a un armistizio tra fon.e di diversa e opposta (segue a pag. 21) 3

I NELMONDO I I VITA DI CHIERICI I Soluzione finale SECONDO I CINESI (AGENZIA «NUOVA Cina»), «quali che siano stati gli errori che il governo del Kampuchea democratico (cioè il governo di Poi Por) ha potuto commettere nel passato, è un fatto che esso rappresenta oggi la principale forza di resistenza a/l'aggressione vietnamita»; e poiché «il compito urgente in Cambogia è oggi quello di obbligare il Vienam a ritirasi da quel Paese», se ne conclude che la Cina appoggia in tutti i modi la restaurazione dei cosiddetti «khmer rossi». Dall'altra parte, i Paesi del blocco sovietico sono impegnati strenuamente nel difendere il governo-fantoccio di Heng Samrin, installato dal Blitzkrieg vietnamita dell'inizio dell'anno. Con il pretesto dei crimini commessi dai «khmer rossi», dei quali peraltro non si erano accorti tra il 1975e il 1978, anche i comunisti italiani sono sostanzialmente schierati sulla stessa linea. Tra le stragi di Poi Por e le uccisioni in una guerra cinosovietica per interposti vietnamiti e cambogiani, la popolazione khmer, stimata in oltre 8.000.000 di abitanti nel 1976, è nel frattempo quasi dimezzata. / superstiti, inoltre, rischiano la morte per denutrizione, mentre la sterilità delle donne e l'elevatissima mortalità infantile rischiano di far scomparire in pochi mesi tutti i bambini di età inferiore ai cinque anni. Il «compito urgente» appare dunque né quello di cacciare i vietnamiti né quello di lasciar terminare l'occupazione, ma più semplicemente quello di soccorrere tutti i cambogiani ammalati e affamati, ciò che solo recentemente si è potuto cominciare a fare, aggirando le prrgiudiziali politiche delle opposte fazioni. Resta, nondimeno, il problema del futuro politico della Cambogia. E se appare inaccettabile che si lasci ai vietnamiti il compito di governarla manu militari, altrettanto assurdo deve apparire, ad ogni persona di buon senso, esigere sic et simpliciter il ritiro dei vietnamiti e il conseguente ritorno al potere di quel Poi Por responsabile, per parte sua, della morte di almeno 1.500.000 cambogiani, tanto più che sembra che la politica del genocidio continui nei territori attualmente sotto il controllo dei «khmer rossi». Senza doverne sposare la filosofia politica e senza dimenticarne gli errori del passato, sembra ragionevole, in questo contesto, ciò che propone Norodom Sihanuk (nel recente libro Croniques de guerre ... et d'espoir) per la pacificazione della Cambogia, e cioè: a) la convocazione di una conferenza internazionale di tutte leparti interessate; b) l'invio in Cambogia di una forza internazionale che provveda al disarmo di tutte le parti e al ritiro delle truppe vietnamite; c) la convocazione di libere elezioni sotto controllo internazionale cui possano partecipare tutte le formazioni politiche; d) l'impegno da parte di tutti sulla neutralità <segue a pag. :?3) (a cura di Guido Rilleth) II comunismo in musica LA PROPOSTA DEL so VRINTENDENTE DELla Scala, il socialista Carlo Maria Badini, di reperire risorse a sostegno del suo teatro con l'intervento pubblicitario dell'industria, è piovuta come una bomba in un ambiente che pure è avve1.1.oa tutti gli sperimentalismi. Badini, di fronte al dissesto cronico del teatro, nonostante l'impegno finanziario di Stato, enti locali e banche cittadine, pone con chiare1.1.ail problema: «non si può continuare a presentare allo Stato conti a/l'incasso, non si può continuare a chiedere che tutta l'attività musicale, anche quellaprivata, sia esclusivamente finanziata dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali. A questa linea vi può essere un 'alternativa. Questa è rappresentata dalla capacità delle istituzioni musicali pubbliche di trasformare in prodotto industriale quanto vengono realizzando nei teatri d'opera e nelle sale da concerto... occorre che dette istituzioni trasformino in dischi, in film, in collegamenti radiotelevisivi il proprio prodotto operistico e sinfonico, traendo da ciò quei «profitti» da reinvestire nell'attività istituzionale primaria». A sostegno del ragionamento di Badini si potrebbe anche aggiungere - e non sarebbe la questione meno importante - che la migliore garanzia del pluralismo culturale e della democrazia politica è il mercato; che quello che accomuna i Paesi totalitari di destra e di sinistra è il dominio assoluto dello Stato su scuola, editoria, giornali, radiotelevisione e spettacolo in genere; che non le elezioni - quelle le fa anche Khomeini - ma l'indipendenza economica dei mass media dallo Stato è il segno più sicuro della salute deHa democrazia. Ma per tornare alla Scala, a Badini ha replicato, stracciandosi le vesti per l'eresia neoliberista, il ministro della musica del PCI Luigi Pestaloua, che ha così sentenziato: «il nodo della questione musicale, sotto la specie della sua economia, è quello di una rapida riforma che renda obbligatorio il finanziamento statale... In altreparole, anche in campo musicale, si tratta fondamentalmente di far funzionare lo Stato, poi viene il resto». La replica di Pestaloua, a parte il lapsus del «resto», che significa la qualità artistica degli spettacoli prodotti, potrebbe così riassumersi: «La minestra è rancida; allora doppia porzione!». Toscanini tolse la gestione della Scala ai palchettisti privati non per darla ai sindacati o alle cricche partitiche, ma a un ente pubblico chiamato non a caso «autonomo». Ma su che cosa si fonda tale autonomia se non sulla pluralità delle fonti di finanziamento (botteghino, Stato, privah)? A Pestaloua questa autonomia non piace. E non a caso. In quali enti autonomi di fatto oltre che di nome avrebbe potuto infilare alla direzione artistica una nidiata di fedelissimi, promossi sul campo per meriti di partito? Quale ente veramente autonomo avrebbe tollerato una delle più sfacciate prostituzioni della musica agli interessi di partito come l'opera di Nono Al gran sole carico d'amore, rappresenta di fronte a una sala disertata dagli appassionati e affollata di militanti? O (segue a pag. 24) 4 NOVEMBRE 1979

EDITORIALE Le ragionidi Ponomarev NON SEMBRI UNA FORZATURA o UN paradosso. Ma - a nostro parere - Boris Ponomarev tutti i torti non li ha. Riassumiamo i fatti. Il 17 ottobre la TASS diffonde il resoconto di un discorso di Ponomarev, menbro candidato dell'ufficio politico del PCUS e segretario del Comitato centrale, nel quale tra le altre cose, si p;trla dell' «eurocomunismo»: «L'oratore - scrive la TASS - ha fornito una analisi critica dell'eurocomunismo. Grazie alla politica ferma e duttile del PCUS ed anche in seguito all'impulso della realtà e della lotta di classe, nei paesi capitalisti i dirigenti dei partiti comunisti cominciano a comprendere che l'eurocomunismo danneggia il movimento comunista internazionale e gli stessi partiti e provoca un grande malcontento tra i semplici comunisti militanti di base. Il CC del PCUS contribuirà con tutti i mezzi a superare le deviazioni dal marxismo-leninismo e dall'internazionalismo proletario e favorirà, su questa base, la coesione del movimento comunista». Prescindiamo dal fatto che il brano è stato prima trasmesso dalla TASS, poi ufficialmente ritirato. Ciò riguarderebbe semmai solo la scelta sull'opportunità che l'opinione del dirigente russo fosse fatta conoscere pubblicamente o no. Si può anzi formulare l'ipotesi che quello adottato sia stato un artificio per far conoscere quell'opinione a tutti, ma nello stesso tempo, attribuendone la trasmissione a un errore giornalistico, per renderla, in qualche modo, non ufficiale. È come se Ponomarev, non senza ipocrisia, avesse detto ai dirigenti comunisti occidentali: «Questo è quello che penso e a voi, in privato, l'ho già detto e l'avrei ancora detto. Mi dispiace che, per un errore, ciò che doveva rimanere riservato sia ormai di dominio pubblico». In altre parole, il «giallo» della pubblicazione e della successiva soppressione non modifica il fatto che conosciamo l'opinione di Ponomarev. E infatti il brano è stato ritirato, non smentito; e, d'altra parte, per buona è stata presa quella posizione dai comunisti italiani che si sono affrettati a replicare. Dunque, i dirigenti sovietici pensano - e non è una novità - che l'eurocomunismo danneggia il comunismo internazionale e i singoli partiti, provoca malcontento nella base e rappresenta una deviazione dall'ortodossia. A loro può replicare Berlinguer con la conferma della «validità e attualità della nostra scelta eurocomunista, lungo la quale noi continueremo ad operare con sereniIL LEVIATANO tà, senza spirito di rottura, ma con assoluta coerenza, convinti come siamo che essa è la sola capace di aprirsi - nell'unità e nella democrazia - la via al socialismo nei paesi di capitalismo sviluppato». «Secca replica», «ferma risposta» è stato definito l'intervento di Berlinguer. D'accordo. A un giudizio pesante sull'eurocomunismo, una formula che Berlinguer aveva invece dimostrato di apprezzare, non poteva che seguire una replica orgogliosa. Ma Ponomarev - e qui ci sembra che il punto sia sfuggito a non pochi commentatori - non si limita a criticare l'eurocomunismo. Esprime anche un giudizio sullo stato attuale dei rapporti con gli eurocomunisti: questi - dice il dirigente sovietico - «cominciano a comprendere». Sono, cioè, meno eurocomunisti di quanto non fossero prima; sono meno deviazionisti di quanto non si potesse credere o non potesse apparire. Ora, a noi sembra che questa è la questione essenziale. Non basta replicare a un inopportuno - diciamolo pure, a un becero - attacco all'eurocomunismo che non poteva che suonare sgradito a chi dell'eurocomunismo ha fatto la propria bandiera. Quand'anche Berlinguer e Breznev fossero ormai d'accordo su tutto - e non è questo peraltro che vogliamo sostenere - non sarebbe quanto meno di cattivo gusto che l'uno parlasse dispregiativamente di eurocomunismo e l'altro, che so, di monocentrismo? Una ritrovata concordia non dovrebbe manifestarsi anche con la cessazione delle asprezze verbali, col dare per superate le polemiche in corso durante il contrasto? Ma la questione politica centrale, sulla quale finora risposta non è venuta, è se sia vero o no che tra comunisti russi e comunisti italiani ci sia stato un riavvicinamento, un appannarsi della divergenza, ciò che Ponomarev esprime nella infelice rappresentazione di un ravvedimento. Risposta non c'è stata, dicevamo. E risposta non può esserci. Appunto perché, come anticipavamo, Ponomarev - ci sembra - ha ragione. Tra comunisti italiani e comunisti sovietici un riavvicinamento c'è stato. Padrone ciascuno di giudicare chi si sia ravveduto (purché non si· voglia far credere che la Montagna sia andata a Maometto). Le prove? Ma ce ne sono a bizzeffe. L'eurocomunismo toccò il proprio punto più alto quanto fu proclamato - da Berlinguer, Carrillo, Marchais - che l'unione tra democrazia e socialismo 5

era «una questione di principio»: non può esserci socialismo ladovve non c'è democrazia. Ora invece non solo si riafferma che i paesi socialisti sono socialisti, sia pure con qualche tratto illiberale; ma, nella risposta stessa a Ponomarl!v, Berlinguer dichiara che «nei paesi di capitalismo sviluppato» l'eu:ocomunismo, cioè il socialismo insieme alla democrazia, è la sola «via al soéialismo». Il nesso democrazia-socialismo non è dunque più una questione di principio, ma una questione di tattica politica. Il socialismo ha varie forme, democratiche e non: in Occidente la sola via (manca solo un purtroppo) è quella della democrvJa. Il riavvicinamento all'URSS è sensibile ormai da lln anno e più. Nel settembre del 1978Berlinguer affermava: «le nostre riflessioni critiche, lib::re, sulla storia sovietica e sulla realtà dei paesi socialisti si muovono sempre nella consapevolezza della portata mondiale della rivoluzione socialista e della costruzione delle società nuove». Società socialiste, società nuove, società superiori alle società occidentali, nelle quali, essendoci il capitaiismo, dice ancora Berlinguer, c'è un'inDISEGNO DI RAFFAELLA OTTA V/ANI Cb6 compatibilità profonda con la democrazia. Da un anno a questa parte non c'è stata iniziativa di politica estera dei russi o dei loro alleati che non abbia avuto il consenso o la comprensione del PCI: dalle avventure africane all'invasione della Cambogia, per la quale pure i comunisti italiani, se avessero voluto differenziarsi da Mosca, non sarebbero stati soli, visto che solo i regimi fedeli al Cremlino riconoscono il regime di Heng Samrin e non pochi partiti comunisti (dai rumeni agli jugoslavi) hanno preso le distanze; dalla pronta condanna dei cinesi nel conflitto con il Vietnam all'invito ai rappresentanti di Husak a partecipare al congresso del partito (il che non ci impedisce di apprezzare la posizione assunta dal PCI a proposito della condanna di Petr Uhi e compagni). Ma è inutile dilungarsi sulle vicende dei mesi passati. Basta esaminare la posizione del PCI sulla questione del riarmo europeo per comprendere quanto i comunisti italiani siano ancora legati all'URSS e quanto Ponomarl!v abbia motivo di rallegrarsi del ritorno all'ovile di una pecora che sembrava smarrita. 4 NOVEMBRE 1979

L'URSS non è certo una potenza militare di second'ordine. Secondo le stime dedica alle spese militari tra l' Il e il 13 OJo del prodotto nazionale lordo, di cui solo il 300'/oper gli stipendi al personale, gli Stati Uniti sono scesi al 4,90'/o,di cui il 600'/oper il personale; l'URSS ha più missili intercontinentali (1400 contro 1054), rampe sottomarine (950 contro 656), uomini alle armi (3.658.000 contro 2.022.000), carri armati (50.000 contro 10.500), pezzi di artiglieria (40.700 contro 18.000), aerei tattici (4.350 contro 4. 164), navi ( I. 769 contro 458) rispetto agli Stati Uniti. In questo contesto l'URSS decide di potenziare i propri missili a medio raggio, diretti contro i paesi europei, installando circa 100 SS-20 a testata multipla. A questa modificazione dell'equilibrio militare in Europa, come si potrebbe rispondere se non ricreando l'equilibrio, con il programma di riarmo dei missili da crociera e dei Pershing II? Certo, i comunisti non sono sciocchi come i radicali, che propongono il disarmo unilaterale dell'Occidente. Certo, dichiarano che l'equilibrio militare è importante per il mantenimento della pace, pur interrogandosi pensosamente se, in effetti, i nuovi missili sovietici quest'equilibrio abbiano modificato. Certo, hanno accantonato le posizioni di qualche anno fa, quando chiedevano l'uscita dell'Italia dalla NATO e lo smantellamento delle basi militari, spiegando che i guerrafondai erano gli americani e che i russi erano «partigiani della pace». Sfuggono però, unici tra i partiti seri, alla questione che si impone oggi, accettare il riarmo, rifugiandosi nelle fughe in avanti di improbabili conferenze tra paesi atlantici e Patto di Varsavia, proponendo di esperire tutti i tentativi perché l'equilibrio si ricrei a un livello più basso, titolando perfino, demagogicamente, un editoriale dell'«Unità» Un missile agli affamati. Bene. Anche noi siamo d'accordo che l'equilibrio potrebbe, dovrebbe anzi, essere ricercato ai livelli più bassi. Anche noi pensiamo che una riduzione delle spese militari su scala mondiale e la destinazione di una parte delle risorse così risparmiate all'aiuto per i paesi del terzo mondo sarebbero moralmente e anche politicamente, decisioni più apprezzabili e sagge. Chiedano dunque i comunisti ai compagni sovietici di smantellare gli SS-20 già installati e di destinare al terzo mondo i fondi stanziati per i missili futuri; l'Occidente e l'Italia risparmieranno così i soldi per i Cruise e i Pershing, con beneficio di tutti. Ma in attesa che i sovietici si decidano, i comunisti italiani continueranno la politica dello struzzo o sosterranno il riarmo europeo? IL LEVIATANO LA CRISI ITALIANA L....-- __ f ROSARIO ROMEO Uno Stato troppo fragile OGNI GIUDIZIO SULLA CRISI CHE HA investito il nostro paese nell'ultimo decennio dipende in larga misura da quello sul precedente periodo di espansione. Ma su questo terreno le valutazioni sono tutt'altro che concordi. Se i successi clamorosi del «miracolo economico» avevano sollecitato, soprattutto fra il 1959 e il 1968, apprezzamenti positivi e previsioni ottimistiche, la prospettiva si è nettamente rovesciata sotto l'incalzare delle difficoltà degli ultimi anni. Le «distorsioni» dell'economia, gli squilibri fra settori e zone diverse del paese, il «consumismo», la necessità di cambiare il «modello di sviluppo», sono stati al centro del dibattito culturale e politico: salvo a riconoscere in misura crescente, come si è fatto in questi mesi, che i settori più vitali della nostra economia sono proprio quelli caratterizzati con le etichette del «lavoro nero» o dell'«economia sommersa», nei quali per molti aspetti rivive Io «spontaneismo» e lo «sviluppo senza programma» degli anni del «miracolo». Un punto resta fermo in ogni caso, nonostante i molti tentativi di metterlo in discussione. Qualunque fossero gli equilibri da cui era caratterizzata, l'espansione dell'economia italiana fino al 1968-69 si resse su basi economicamente sane, e tali da garantire una crescita ragionevole nel medio periodo, se non fossero poi intervenuti fatti esterni ad arrestarla. Superata la crisi della «congiuntura», a partire dal 1966 l'incremento del reddito nazionale in termini reali era tornato su livelli del 5,5 per cento. Gli investimenti, che in quell'anno erano cresciuti del 6,1 per cento, nel 1967 erano aumentati dell'll,1 per cento. L'occupazione, che nel 1966 aveva toccato il minimo di 19.157.000 unità, nel 1%769 era risalita a una media poco inferiore a 19.400.000. Su un terreno più solido si muovono probabilmente coloro che insistono sugli effetti «destabilizzanti» di un processo di sviluppo così rapido. I 4 milioni di emigrati dal Mezzogiorno, 2,5 milioni dei quali trasferiti nel Centro Nord, il crollo degli addetti ali 'agricoltura dal 42,4 al 22,0 per cento degli occupati fra il 1952 e il 1968, con il correlativo aumento di oltre il 42 per cento registratosi nella popolazione urbana del Centro Nord, sono alcuni indici dei rivolgimenti verificatisi prima dei fatti 7

dell'autunno caldo. Ma ai processi destabilizzanti di quegli anni altri se ne affiancarono di segno contrario, a cominciare dalla rilevantissima espansione delle classi medie, cresciute (come suggerisce una lettura critica delle indagini di Sylos Labini) da un 30 a un 50 per cento della popolazione attiva, e nella gran parte orientate verso la conservazione dell'ordine di cose esistente. Altri hanno insistito sulla necessità che i salari italiani si adeguassero a quelli europei: ma in un paese dove il reddito nazionale restava ancora largamente inferiore a quello degli altri membri del Mercato Comune, i redditi operai potevano raggiungere i livelli francesi o tedeschi solo sottraendo ad altri ceti un parte della quota ad essi spettante; a non contare l'irrazionalità di un assetto economico che rinunciasse a combinare nel modo più economico i fattori produttivi disponibili in sede nazionale. Ma soprattutto la debolezza della spiegazione socio-economica della crisi italiana appare evidente quando venga riferita ali' esperienza francese. Modello di uno sviluppo realizzatosi con squilibri comparativamente minori che in ogni altro paese europeo, la Frj\ncia attraversò nel 1968 una crisi politico-sociale assai più grave della contemporanea crisi italiana: ma, a differenza di quel che accadde da noi, essa venne rapidamente ed energicamente superata, e il decennio successivo al di là delle Alpi ha visto una continua e grandiosa espansione in tutti i settori. I fautori della sociologia ad ogni costo invocano a questo punto le tradizioni della burocrazia francese, tanto più solida di quella italiana. Ma a fronteggiare i dieci milioni di operai in sciopero e gli studenti rivoluzionari del maggio 1968 non furono i funzionari dei ministeri parigini ma una classe politica ispirata dall'autorità e dal prestigio di De Gaulle, e sostenuta da una opinione conservatrice che intorno al generale e al suo governo rimase unita anche quando si profilò la possibilità di un intervento dell'esercito. 8 11discorso viene dunque ribaltato dal livello sociologico a quello politico: al livello, cioè, dello Stato, e della sua capacità di assicurare l'ordinato progresso della vita civile. In un momento di crisi drammatica, in presenza di una concreta minaccia di rivoluzione e forse di guerra civile, lo Stato francese riuscì ad assolvere questo compito, facendo appello alle energie e alle risorse di un'antica e solida società politica, che invano la leggerezza di molti osservatori cercò subito di svalutare come manifestazione di sola paura borghese. Messo alla prova, in una situazione assai meno difficile, lo Stato italiano si è invece rivelato incapace di controllare le tensioni prodotte dallo sviluppo, e ha lasciato in gran parte inutilizzate anche le potenzialità che lo stesso sviluppo offriva di avviarle a sbocchi positivi. In questo senso, la sola politica praticata con coerenza è stata la utilizzazione di una fiscalità sempre sperequata ma meglio armata che in passato, al fine di prelevare dal cresciuto reddito nazionale i mezzi non già di meglio provvedere alle esigenze della collettività ma di tacitare per qualche tempo le richieste dei gruppi più forti e più aggressivi: che è, oltre tutto, l'origine della incontrollata dilatazione della spesa pubblica e del rilevantissimo contributo che essa reca all'inflazione. Una politica di questo tipo documenta la degradazione dell'arte di governo ad arte della corruzione generalizzata, in un paese dove sembra che non si sappia più distingere la funzione redistributrice del reddito propria dello Stato democratico dal mero clientelismo e dalla pratica dei favori settoriali. Una spiegazione più soddisfacente di ciò che in Italia è accaduto negli ultimi anni andrà dunque ricercata nei caratteri dello Stato repubblicano nato il 2 giugno 1946. La Resistenza e le speranze sorte dal crollo del fascismo avevano espresso alcuni gruppi dirigenti dotati di precise motivazioni politiche: ma le cose stavano assai diversamente per il resto della società italiana. Per gran parte dei ceti medi, formatisi alla scuola del patriottismo di stampo risorgimentale 4 NOVEMBRE 1979

e poi del nazionalismo fascista, le delusioni della seconda guerra mondiale avevano bensì costituito una critica radicale delle vecchie ideologie, ma non erano bastate a dar vita a un nuovo patrimonio di princip'ì e di indirizzi politici. Se questi ceti si schierarono così largamente sotto l'egida della DC non fu certamente per una subitanea adesione ai princip'ì del cattolicesimo politico ma solo nella disperata ricerca di una ultima «diga» contro il comunismo. Non si dimentichi, del resto, che dei 12 milioni di votanti per la DC 10 avevano votato monarchia nel referendum istituzionale; mentre il grosso dei votanti per la repubblica veniva dalle file delle sinistre marxiste, decisamente schierate all'opposizione sotto la guida di un partito con larghe venature rivoluzionarie. Fino all'avvento del centro sinistra la nuova repubblica venne dunque governata da forze che in gran parte non l'avevano voluta, e combattuta invece dalla maggioranza di coloro che avevano votato in suo favore. · All'inizio uno Stato eretto su fondamenta di questo tipo poteva dunque contare su un consenso assai esteso ma di carattere piuttosto statico e passivo, e accusava una visibile povertà di quelle energie morali che nascono da una convinta adesione agli obiettivi della collettività politica: senza contare la distanza che tuttora separava i gruppi minoritari ma importanti del cattolicesimo politico da uno Stato in larga misura ereditato dalla tradizione laica e liberale. Certo, l'esperienza democratica, l'ingresso dei socialisti nel governo, il «miracolo economico» alla vigilia del '68 avevano modificato notevolmente la situazione iniziale. La graduale diffusione del benessere contribuì ad allontanare le mitologie nazionaliste e a legare molti strati medi allo Stato con i legami concreti dei vantaggi sociali ed economici, mentre la partecipazione socialista al governo significò certamente un allargamento della base democratica dello Stato. Si può deplorare che a questo processo non si sia accompagnato un movimento analogo sul terreno culturale, abbandonato dalla debolezza intellettuale dei cattolici e dalla impotenza politica delle forze laiche alla penetrazione marxista, con conseguenze che furono specialmente gravi nel inondo .delle uhive~sità. · A,ps che a questo si deve se la crisi del I968 colse il regime democratico quando questi processi erano ancora largamente incompiuti. li venir meno del senso di responsabilità a tutti i livelli, la ricerca affannosa di alibi di ogni genere, i cedimenti indecorosi di cui si fu testimoni allora e negli anni successivi (a non contare le illusioni di molto cattolicesimo di sinistra) hanno dato la misura delle fragilità delle istituzioni alle quali il popolo italiano aveva affidato il proprio avvenire. Una riflessione su ciò che allora accadde nei settori più importanti della vita del paese, dalla scuola all'industria alle stesse forze armate, potrebbe essere l'avvio a un esame di coscienza che forse ha tardato anche troppo. IL LEVIATANO · LA CRISI ITALIANA GIUSEPPE BEDESCHI Tra scienza e utopia S1 SAREBBE ANCHE POTUTO PENSARE che la grande ubriacatura ideologica che ha caratterizzato la sinistra alla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, fosse ormai finita o stesse per finire. Allora andavano a ruba i libri di Marcuse, traboccanti di l(ÌS polemica contro la scienza, la tecnica, l'organizzazione industriale del mondo moderno. Il lavoro stesso veniva condannato senza incertezze e senza esitazioni. Nel lavoro, diceva Marcuse, si tratta sempre della «cosa». «Lavorando, il lavoratore è 'presso la cosa', sia che stia dietro una macchina, o che progetti piani tecnici, o che prenda delle misure organizzative, o che studi problemi scientifici, o che istruisca degli uomini. Nel suo fare si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando domina il suo oggetto, ne dispone a piacere, lo guida e lo mette in moto». Nel lavoro l'uomo non è «presso di sé», non lascia accadere liberamente la propria esistenza, bensì è posto al servizio dell '«altro da sé», è presso l' «altro da sé». Al lavoro veniva contrapposto il gioco, perché «giocando, l'uomo non si conforma agli oggetti, alla loro regolarità per così dire immanente», e perché, insomma, solo nel gioco l'uomo giunge a se stesso, «in una dimensione della sua libertà che gli è negata nel lavoro». Marcuse non arretrava di fronte alle conclusioni più sconcertanti, e che d'altra parte discendevano logicamente dalla sua posizione: «Un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull'oggettività che é infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico». Marcuse ha, a suo modo, impersonato una epoca. Ma i suoi libri non stati certo i soli documenti della grande sbornia che ha ottenebrato il cervello della sinistra (extraparlamentare, ma non soltanto). In quegli anni si moltiplicarono le versioni del marxismo in chiave irrazionalistica, che cancellavano in esso qualunque eredità illuministica, qualunque tentazione 'scientistica', qualunque pretesa 'industrialistica'. Il marxismo diventava così in primo luogo una filosofia dei 'bisogni radicali', da appagare subito prescindendo completamente dal problema della creazione dei mezzi materiali capaci di soddisfare quei bisogni. Dalla Cina, d'altro canto, ovvero da un paese in preda alle 9

conculsioni della 'rivoluzione culturale' (che altro non era che una guerra civile), arrivavano notizie confortanti, e cioè che la politica e la coscienza di classe decidevano di tutto («la politica al posto di comando») e risolvevano tutto: potevano produrre non solo un egualitarismo rigoroso, ma anche l'acciaio in piccoli fornetti casalinghi. Le nostre frange sindacali più accese, a loro volta, respingevano la «rigidità» della catena di montaggio, e promettevano un modo nuovo di fare l'automobile. E su tutto ciò si innestava il millenarismo cattolico, le cui avanguardie erano penetrate in tutti i partiti e in tutti i gruppi della sinistra parlamentare ed extraparlamentare portandovi la loro attesa messianica di un avvento imminente del regno, dove tutte le aspirazioni sarebbero state soddisfatte e dove sarebbero scorsi in abbondanza il latte e il miele. Si sarebbe anche potuto pensare, dicevamo, che questa ubriacatura fosse ormai finita. Dopotutto, la dura realtà della crisi sociale ed energetica dovrebbe richiamare persino gli ideologi ai problemi veri, cioè ai problemi del lavoro e della sua produttività, dei sacrifici da fare, del tessuto sociale sconvolto da ricomporre. E invece ci sono segni sicuri che alcuni non hanno affatto intenzione di cambiare strada. Ce ne ha dato la prova un recente numero di «Rinascita» (36), che dedica largo spazio alla «crisi della razionalità classica». «Rinascita» pubblica un ampio brano di un saggio di un filosofo, Aldo Gargani, il quale ci spiega che «quando gli schemi geometrici del tempo e dello spazio nella fisica classica erano invocati per determinare le funzioni fisiche dell'inerzia e dell'accelerazione, senza esserne a loro volta modificati, era all'opera un modello di razionalità e di gerarchia concettuale che è appropriato all'immagine di un potere. Si trattava, cioè, di legittimare una gerarchia di concetti mediante una distribuzione asimmetrica di poteri». Ai più giovani la scoperta di Gargani potrà forse apparire nuova. In realtà, si tratta di una musica assai vecchia. Il grande imputato è qui, an,;ora una volta, la scienza. Come osserva Luciano Gallino in un commento al saggio di Gargani, «rischiano di sembrare cedimenti alla moda le note che collegano direttamente il model:o di razionalità classico, e la logica formale che lo integra, alla struttura gerarchica delle società occidentali». Gallino aggiunge che l'equazione razionalità classica = dominio dei pochi sulle masse, ovvero disciplina della mente delle classi subordinate a fini di controllo sociale, è uno dei motivi guida della critica della società moderna elaborata dalla Scuola di Francoforte, ma è anche uno dei suoi lati più deboli. Dopotutto, sembra di ricordare che nei secoli andati le «masse» sono state disciplinate con ben altre idee e rappresentazioni, assai meno laiche e razionali del modello classico di razionalità. Ma, a parte queste sacrosante considerazioni, a noi interessa mettere in rilievo i presupposti 10 sociali e politici che tali posizioni sottendono, o quanto meno i risultati ai quali portano. Ce ne dà un saggio Claudio Napoleoni, il quale accetta integralmente le tesi di Gargani, e porta il discorso sul terreno che gli è più congeniale, quello economico-politico. Si tratta, dice Napoleoni, di superare anche il modello di razionalità tradizionalmente espresso dall'economia politica (e strettamente connesso alla razionalità classica), cioè «la teoria dell'amministrazione dei mezzi per il massimo conseguimento di fini, che si presuppongono dati». Questo sarebbe un modello aprioristico, valido forse per singoli settori del sistema economico, ma non per la totalità sociale. Occorrerebbe quindi superare questo modello, e giungere a una vera composizione fra mezzi e fini, fra bisogni e lavoro. In che cosa consista questa «composizione» Napoleoni lo spiega assai bene su «La Repubblica» del 22 settembre, dove, polemizzando con Modigliani a proposito delle difficoltà attuali, egli sostiene che si può benissimo sviluppare il prodotto nazionale senza aumentare il fabbisogno di energia. Si tratta, egli dice, «di realizzare finalmente l'utopia», cioè di concepire il prodotto e il reddito non come sono stati configurati dall'industria capitalistica negli ultimi due secoli, ovvero come produzione e possesso di beni materiali, bensì come produzione di cultura, di relazioni interpersonali di tipo non competitivo, di beni spirituali ecc. L'ideale di Napoleoni è certo generoso. Fa venire però un sospetto: che la critica della «razionalità classica», mentre porta a trascurare del tutto i problemi materiali, postuli un puro e semplice salto nell'assoluto. Per un materialista, bisogna ammetterlo, è un bel risultato. TERRORISMO LUCIO COLLETTI Un quadro veritiero PouTICAMENTE MOLTO ISTRUTTIVA - e anche coraggiosa - l'intervista di Piero Fasino, dirigente comunista di Torino, a Giampaolo Pansa, apparsa sulla «Repubblica» del 21 ottobre. Contiene la storia del modo in cui il PCI e la sinistra hanno reagito, nel corso degli anni, al terrorismo. E delle «spiegazioni» che ne hanno avanzato. Gli esordi del fenomeno, com'è noto, risalgono al 1972. Tre anni dopo, nel '75 (e già c'è stato, in mezzo, tra le altre cose, il rapimento del giudice Sossi), il PCI e la sinistra sono arroccati ancora nel rifiuto più intransigente della teoria 4 NOVEMBRE 1979

degli «opposti estremismi». L'estremismo è soltanto «nero». Un estremismo «rosso» non esiste. Il terrorismo nasce da un «complotto»: è la congiura della destra fascista con i «corpi separati» dello Stato. Verso la fine del '75, si profila una lieve correzione di questa tesi. «Nei nostri documenti - racconta Fasino - la formula «provocazione» lasciò il posto a quella di «oggettiva provocazione». Volevamo suggerire che erano, si, fatti provocatori, ma forse non di destra. Non si andò più in là». Il perché non ci si spingesse oltre, Fasino lo spiega molto bene: «abbandonare la teoria del complotto voleva dire incamminarsi lungo una strada fitta di incognite, che ci obbligava a fare i conti con le contraddizioni nostre e del movimento operaio, con quello che poi si chiamerà l'album di famiglia». Nella base del PCI, accanto a quelli che pensavano al «complotto» seguendo la tesi ufficiale del partito, c'erano altri in cui la condanna del terrorismo era solo «tattica». Il terrorista sbagliava soltanto perché la forma di lotta che aveva scelto faceva il gioco del padrone: «mancava - dice Fasino - un giudizio negativo della violenza, da rifiutare sempre, in sé e per sé. E c'erano anche gruppi isolati di nostri compagni che dicevano di certe vittime: «Gli sta bene!». E Fasino conclude: «erano due anime presenti non solo nel sindacato e nella sinistra in generale, ma nel PCI». La situazione non mutò sostanzialmente neppure nel '77. In quell'anno, a Torino, il terrorismo sferrò una serie di colpi impressionanti. Venne assassinato il brigadiere Ciotta. Un mese e mezzo dopo, le BR uccisero l'avvocato Croce. Segui il ferimento di Ferrero, un giornalista del- )' «Unità». In ottobre mori Crescenzio, il ragazzo bruciato dalle molotov degli autonomi ali' Angelo Azzurro. Poco dopo, infine, ci fu l'assassinio di Casalegno. A quel punto, Fasino e altri uscirono allo scoperto. Dissero chiaramente: «sono rossi, sono tra di noi, nel movimento». La tesi suscitò scandalo. Fasino venne contraddetto «in modo aspro dal segretario di un'importante federazione del Piemonte». E - nota bene questo - «anche da Roma autorevoli compagni ci richiamarono alla prudenza». Era la fine del '77, pochi mesi prima del rapimento di Moro e le C.)Se,nella sinistra, andavano ancora così. Un fatto, del resto, lo prova irrefutabilmente. Un paio di giorni prima che il giovane Crescenzio venisse bruciato dagli autonomi in quel bar di Torino, si celebrarono a Roma i funerali di Walter Rossi. Ex-Lotta continua, Rossi militava nell'Autonomia. (Alcuni suoi amici e compagni, pochi mesi fa, sono stati arrestati perché in possesso di armi e di dinamite). Ai funerali, nel corso dei quali vennero incendiate sezioni della DC e del MSI, andò, in forma ufficiale, tutta la sinistra unita, che a Rossi, poi, intitolò una piazza. Ma torniamo a Fasino. A Torino, nel '77, IL LEVIATANO mentre infieriva il terrorismo, il sindacato pensava ad altro: «il sindacato era tutto preso da problemi diversi: la polemica sui sacrifici, l'austerità, le tariffe ... E nel sindacato la tendenza a sottovalutare e a dire: «sono compagni che sbagliano» continuava ad essere fortissima». Ma l'intervista non si ferma qui. Fa l'inventario completo della leggerezza e dell'irresponsabilità di cui una parte (ma che parte!) della sinistra si è rivelata capace in materia di terrorismo, non solo ieri ma ancora oggi. «Settori del sindacato sostenevano che il terrorismo si combatte solo con le riforme sociali, le tariffe giuste, l'equo canone ... E c'era chi aggiungeva: «Se sconfiggia."llo il padrone, sconfiggiamo il t<!rrorismo». Non fu semplice dimostrare che e,a sbagliato, che anche con l'equo canone i Curdo avrebbero comunque ccnti:mato a sparare, ci:e la battaglia centro il terrorismo era centrale perché metteva in pericolo la democrazia ed esigeva un'iniziativa specifica e autonoma». Fasino attribuisce la tesi al sindacato. È troppo buono. Dovrebbe ricordare oltre a certi sindacalisti, i tanti intellettuali - da Rodotà e Federico Mancini - che se ne sono fatti banditori, per mesi, per anni. E senza mai battere ciglio. Che concludere? Nulla. L'importante è tenere per ora bene a mente questo piccolo quadro veritiero delle condizioni reali della sinistra in Italia - al vertice e alla base - sul finire del '79. Passerà certo del tempo, prima che capiti di ,itrovare, in bocca a un dirigenti del PCI, ammissioni altrettanto franche. li

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==