Fine secolo - 9-10 novembre 1985

UN'IDEA DI·GIORGIO AG --------------~a cura di Adriano SOFRI ___________________________________ _ Colloquio,c_on unfiloso/ o filopoeta, contento dell'uscita di un suo nuovo libro, j'Idea dellaprosa". G iorgio Agamben è nato a Roma nel 1942. Filologo erudito, non è però ve– nuto a capo del problema de/l'origine del suo cognome. Forse /'Armenia, gli ha sugge– rito una volta Gianfranco Contini. Da ragazzo · andava al cinema spesso, anche due volte al giorno. Suo padre era proprietario di sale cine– matografiche, sua madre era ·chimica. In casa c'erano libri, anche qualcuno difilosofia. Al mo– mento de/l'università, aveva già predilezioni-/et– tefarie e filosofiche spiccate, cosicchè si iscrisse a legge, di cui non gli importava nulla. Ottenne almeno difare la tesi su Simone Weil e la nozio~ ne di persona. Aveva letto con profitto itsaggio di Mauss sulla persona e la maschera, un picco– lo modello di storia delle categoriefondamentali della cultura occidentale. Ma sono ancora pro– dromi. L'incontro vero con la filosofia avviene nel '66, a Le Thor, in Provenza. Là vicino viveva René Char e Heidegger quell'estate aveva deciso di andarlo a incontrare. E, per non starsene con le mani in mano, tenne un seminario di un mese ne/l'albergo del paes_ino.Agamben era stato av– vertito da un allievo di Char, suo amico. Così si unì agli altri partecipanti, cinque in tutto. Aveva ventiquattro anni e qualche buona lettura e il se– minario era su Eraclito. Ma più ancora di quello che vifu detto, Agamben fece tesoro de/l'incon– tro con chi lo diceva e col paesaggio della Pro– venza. «Ci sono tornato quest'anno, sapendo che avrei visto un paese reso irriconoscibile dal turismo, e invece ho ritrovato lo stesso alber– ghetto, ma completamente abbandonato, inva– so dall'erba e con le finestre spalanca.te, come se fosse rimasto per vent'an ni ad aspet tarmi. Nel 1968 çi fu,-nello stesso posto, un seminario su Hegel. Questa volta eravamo. una decina, fra poeti e filosofi. Si faceva vita comune, il se- - minario all'aperto la mattina, i pasti insieme e lunghe passeggiate in campagna. Il seminario era assolutamente privo. di ogni formalità e si fondava sull'attenta lettura dei testi. Heidegger ricordava all'inizio che in un seminario non può esserci altra autorità che la cosa stessa. A volte la lentezza del lavoro seminariale mi spa– zientiva, e cercavo di rifarmi durante i pasti in comune interrogando Heidegger su tutto quel che· mi stava a cuore. Fra i partecipanti c'era anche Jean Beaufret, il destinatario della Let– tera sull'umanesimo, un conversatore infatica– bile, che Heidegger presentava come "un filo– sofo francese che non ha la nozione del tem– po". A volte ci spostavamo nella casa di Char a L'isle-sur-Sorgue, dove una volta discutem– mo a lungo su una frase di Rimbaud che affa– scinava Heidegger come un'enigma: "la poésie ne rythmera plus l'action, elle sera en avan– ce"». Hai avuto dei maestri, dei grandi vecchi amati? «E' strano che tu me lo chieda, perchè ci pen– savo proprio in questi giorni, dopo il ritorno a Le Thor. Heidegger, certo. Ma altrettanto de– cisivo fu a partire dal 1967 e fino alla sua mor– te due anni fa, l'incontro con José Bergamin e la Spagna. Certo erano entrambi molti più an– ziani di me, ma, in particolare nel caso di Ber– gamih, io li ho sentiti soprattutto come esempi e come amici. Solo dopo la morte ho comincia– to a sentirli come maestri. Quello con i morti è un rapporto molto difficile, su cui Kierkegaard ha scritto pagine bellissime. I morti sono insie– me gli esseri più impotenti e più potenti, più indifferenti e più amabili. In questo senso, an– che quello con Benjamin è stato per me un in– contro decisivo, anche se avvenuto soltanto sui libri.» Quando hai fatto la conoscenza di Benjamin? «Lo lessi la prima volta negli anni sessanta, Martin Heidegger, Gio~ Agambeo e Ginevra Bompiania Le Thor, in Provenza, nel 1968. nell'edizione italiana di Angelus Novus, curata da Renato Solmi. Mi fece subito un'impressio- · ne fortissima: per nessun altro autore ho pro– vato un'affinità così inquietante. Mi capitava quel che Benjamin racconta del proprio incon– tro col Paysan de Paris di Aragon, che dopo un istante doveva richiudere il libro per il bat– ticuore. Qualche anno fa a Roma andai a tro– vare un uomo, Herbert · Blumenthal, che era stato in giovinezza intimo amico di Benjamin, negli aruii in cui questi era il leader del Movi– mento della gioventù berlinese. Puoi immagi– nare la mia sorpresa quando Blumenthal, ap– pena cominciammo a parlare, manifestò un rancore incontrollabile per l'amico morto da quasi 40 anni, dicendo che aveva sbagliato tut– to, che non aveva voluto seguire i consigli degli amici, che era pienamente responsabile della propria tragica fine. Non mi ci volle molto per sentire bruciare dietro quelle accuse la ferita di un amore ·straordinario. Blumenthal aveva cqnservato per 60 anni tutte le lettere di Benja– min, e anche due manoscritti dell'unica stesura esistente. Attraverso di lui, sentivo Benjamin vivo e vicino come se l'avessi davanti ai miei occhi. In seguito ho conosciuto tanti altri che gli érano stati amici, Gershom Scholem, Giséle Freurid, Pierre Klossowski, Jean Selz, ma nes– suno mi ha restituito l'impressione che ricevetti · da Blumenthal». Tu non sei mai diventato accademico, e forse non lò diventerai neanche ora, coi concorsi che tirano. Che cosa haifatto negli anni dopo la lau- rea? . «Nel 1965 andai una prima volta a Parigi, con una borsa di studio. Vi tornai nel '70 per tre anni come lettore di italiano. Poi passai a Lon– dra, forse inseguendo l'ideale nietzschiano del "buon e,Ùropeo". Italo Calvino mi aveva pre– sentato Frances Yate·s, che mi introdusse al Warburg Institute e alla sua meravigliosa bi– blioteca, dove trascorsi un anno di indimenti– cabile e accanita ricerca filologica. La bibliote– ca di Warburg era ordinata secondo quella che egli chiamava la "legge del buon vicino", per cui chi andava a prendere un libro scopriva che il libro che veramente gli interessava era quello accanto, e così praticamente senza fine, finchè non si fosse percorsa tutta la biblioteca. Allora, nel. '74, la voga di Warburg in Italia non era ancora iniziata: quando mi misi a scri– vere su di lui, mi accorsi che non c'era altro che il vecchio e bel saggio di Pasquali é un arti– colo di Carlo Ginzburg sui direttori dell'Istitu– to. Quando nel '75 tornai in Italia, l'Università era diventata una corporaziòne chiusa, che non aveva molto a che fare con la cultura. Concorsi a un incarico, ma mi ,spiegarono che doveva essere assegnato a una signora del par– tito comunista. Da allora le cose non sono cambiate». E~el '68?_ «Col '68 non sono stato del tutto a mio agio_ In quegli anni io leggevo Hannah Arendt, che i miei amici della sinistra consideravano un au– tore reazionario, di cui non si poteva assoluta– mente parlare. Un mio saggio sui limiti della violenza, che faceva i conti.col pensiero deUa Arendt, fu rifiutato da una rivista del movi– mento e dovette uscire su una rivista letteraria. Non ti nascondo che ora, di fronte a celebra– zioni e convegni sulla Arendt, provo un'certo fastidio, e non per la gelosia di chi si vede sot– tratto un autore riservato, ma per un senso di ritardo irreparabile, di appuntamento storico mancato. Può succedere, in momenti di accele– razione e di rivoluzione, che un libro letto da pochi arrivi per corto cirèuito ai molti e faccia da detonatore storico. Può non succedere, com'è avvenuto nel '68 per la Arendt. Ma que- sta inerzia storica, per cui le idee si diffondono solo quando è passata l'occasione del loro uso reale e non meramente accademico, è una delle esperienze più umilianti che la storia ci riser– vi». Parliamo ora del tuo ultimo libro, Idea dèUa prosa. Da che cosa ti viene la preferenza per una scrittura aforistica? «Per me la riflessione sulla forma del pensiero è stata sempre centrale e non ho mai creduto che un pensiero tesponsabile potesse eludere questo problema, come se pensare significasse semplicemente esprimere opinioni piu o meno giuste su un certo argomento. Proprio questa centralità deUa forma fonda la vicinanza di poesia e filosofia. Ho sempre pensato che quel che Nietzsche dice per l'arte, e-cioè che non si è artisti se non a patto che ciò che i non artisti chiamano forma diventi l'unico contenuto, fosse altrettanto vero per il pensiero. In que– st'ultimo libro, decisivo è appunto il problema deUa "presa" del pensiero. Per questo ho cer– cato di resuscitare le risorse di quello che Jolles chiama "forme semplici": l'apologo, l'afori– sma, il racconto breve, l'enigma, la favola. Si tratta di forme che non si propongono tanto di esporre teorie più o meno convincenti, quanto di far compiere un'esperienza, di trar fuori dal– l'inganno, di risvegliare. Per questo mi affasci– nano i dossografi, i raccoglitori di aneddoti e __di. fattereUi apparentemente insignificanti, che rimasticano l!l memoria sociale fino a ridurla a un cristallo di pura trasmissibilità, in cui è ve– nuta meno ogni distinzione fra cosa da tra– smettere e atto della trasmissione. Questi cri– stalli sono le mattoneUe sconnesse nell'impian– tito della memoria sociale inciampando nelle quali può accadere allo storico di veder vacilla– re le proprie categorie temporali. Inoltre mi stava a cuore il. problema della brevità, della

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