Fine secolo - 19-20 ottobre 1985

La ritualizzazione della violenza e il movimen– to armato crebbero in questo vuoto, sotto la spinta di nuovi e più drammatici problemi so– ciali, cui nessuno seppe dare una risposta in termini politici. La lotta armata fu il prodotto più esasperato di questa crisi, .che trovava le sue radici in un grande disagio sociale. Nel vuoto politico lasciato dalla sinistra, la lotta armata fu per tnolti una strada obbligata, un problema anche di coerenza. E' ancora oggi un luogo comune credere che il «terrorismo» abbia condizionato il tempo e gli strumenti della repressione, legittimando l'e– stendersi dell'emergenza in ogni ambito della società. Come in ogni luogo comune anche in questo c'è una buona dose di verità: siamo i primi ad ammetterlo. Ma il rifiuto alla contesa di una sinistra impaurita e spesso consenziente (non parliamo qui di D.P.) 'ha costituito un fattore altrettanto grave. Noi abbiamo confuso l'incubo con il sogno e il sogno stesso con la ragione. E reali sono le no– stre responsabilità e i nostri errori, anche drammatici. Ma per lungo tempo ha fatto co– modo a troppi scaricare la propria coscienza sui soliti capri espiatori, demonizzati ed erga– stol?ti nei tribunali dell'emergenza. E' amaro constatare come ancora oggi persista l'ansia di porre sempre le mani avanti, prendendo le di– stanze, senza capire i rischi e l'inutilità di una simile miopia. Le mobilitazioni degli anni settanta sono state ultimamente definite «lotte popolari in difesa della democrazia». Però tutti sanno che questa è una definizione posticcia e che allora si man– giava un po' tutti pane e intolleranza. «Lo stato borghese si abbatte e non si cambia» o il vonclausewitziano «la guerra è la conti– nuazione della politica con altri mezzi» erano le parole d'ordine maggiormente in voga, pro– prio perchè rivoluzionarie (a parole, appunto). E allora diciamo che stiamo scontando tutti, senza distinzione, l'infantilismo di quegli anni. li capitale ha nel frattempo guadagnato enor– mi spazi, operando una rivoluzione tecnologi– ca senza precedenti dai tempi della macchina a vapore. La sinistra di allora, occupata a inseguire lo spettro del colpo di stato e a litigare per la te– sta del corteo, ha perso il senso della realtà. E' ora di tornare con i piedi per terra e capire che il vero «golpe» è stato questo: il rigore e l'emergenza giocati contro un nemico ormai di comodo. Anche chi un tempo disselciava il porfido .: oggi magari siede in parlamento do– vrebbe ricordarselo più spesso. S.Vittore, ottobre 1985. Foto T. D'Amico . Giovanni Comlnelll Etica di classe etica dellaspecie C'è come una sorta di riflesso automatico di difesa attorno e dentro questo nostro dibatti– to: la difesa di un'identità minacciata. Chia– miamola, genericamente, l'identità del '68. Sono convinto che tale difesa sarà tanto più ef– ficace quanto più sia in grado di mettere in di– scussione la stessa identità, che qui si vuole di– fendere. Ho notato in molti interventi una ten- . <lenzaa battere il mea culpa sul petto del vici– no . Si rico noscono gli errori, ma per aggiunge- . re subi.to che lo Stato, che la sinistra, che il P CI, che i l sindacato hanno sbagliato molto di più! Se questo è il metodo, non faremo nessun passo in avanti. Che tutte le azioni e le reazioni si tengano dentro un sistema è chiaro. Ma non è una buona ragione per non assumersi, cia– scuno, le responsabilità che gli competono. Abbiamo il coraggio si scomporre quella no– stra identità, soprattutto quelli di noi che han– no fatto parte dei gruppi dirigenti della Nuova sinistra in quegli anni! Alla formazione di quella identità hanno contribuito una catena di eventi e di comportamenti delle altre forze, che sono stati più volte ricordati. Qui non Ii analizzo. E vi hanno contribuito le culture, cui il movimento del '68 ha chiesto soccorso, al– lorchè si trovò a dover sfuggire ad una con– traddizione drammatica: quella di essere un movimento nuovo, al quale mancavano le pa– role e i pensieri per costruirsi la propria auto– coscienza teorica, e per definire la propria col– locazione rispetto agli altri soggetti. Non c'è lo spazio per un'analisi di quelle culture: la sini– stra comunista, l'operaismo, il leninismo, il cri– stianesimo rivoluzionario. Voglio solo osserva– re che fummo «costretti» a usare linguaggi ina– deguati e spesso del tutto invecchiati. Siamo andati a rovistare negli archivi di Lenin o di Rosa Luxemburg o, più da vicino, nel «Qua– derni rossi». A quella contraddizione non po– tevamo forse scappare. E' certo però che que– sta genesi tormentata delle nostre culture e del– le nostre linee politiche non ci dispensa dal compito di passare al vaglio la nostra identità e di criticarne gli elementi. Mi risparmierete qui di dire tutto il bene che si deve dire del '68. Ciò che serve oggi è saper dire anche il negati– vo. Dobbiamo saper spiegare perchè un gran– de movimento di riforma della società italiana è riuscito a produrre grandi mutamenti nel campo sociale e culturale, ma è stato sconfitto sul piano politico istituzionale. Abbiamo con– tribuito alla crisi di legittimazione, in cui oggi marcisce il sistema politico istituzionale, nella quale le forze si stanno logorando in un reci– proco assedio, non siamo riusciti ad andare ol– tre. Quali categorie e culture nostre hanno pre- parato la sconfitta? Senza pretese sistematiche, provo a identificare alcuni punti critici, tre o quattro. li primo: la concezione della trasformazione come rivoluzione, come rottura dei rapporti di produzione capitalistici e costruzione della dit– tatura del proletariato, mediante l'uso della violenza. Rivoluzione e violenza sono concetti organicamenti collocati. Al di là di differenze culturali questo è il leninismo profondo della Nuova sinistra, nel quale la violenza non è questione tattica, ha valenza strategica. Il secondo: la visione della società spaccata verticalmente in due o secondo i moduli del marxismo classico o secondo quello dell'ope– raismo: da una parte il sistema dominante, dal– l'altra il proletariato e i soggetti marginali. Il terzo: la politica come dimensione che assor: be l'etica, il civile, il giuridico e l'istituzionale. Il quarto: le analisi sulla fase, di cui c'erano al– meno due varianti: la fascistizzazione dello sta– to qppure il riformismo della borghesia, che avrebbe integrato operai, sinistra, sindacati. Oggi è chiaro, almeno per me, quanto quelle concezioni fossero sbagliate. Intendere la tra– sformazione come rivoluzione significava fare violenza alla complessità crescente della so– cietà italiana, negare il valore di principio della democrazia politica; dimenticare l'autonomia del diritto e dello stato di diritto, ridurre l'etica alla politica. Chi vuole capire gli errori del pas– sato, fino all'omicidio Ramelli, deve scoper– chiare le culture che stanno alla radice dei comportamenti. E non solo per capire il passa– to. Qui ne va del nostro presente. Se qualcuno continuasse a restare ostaggio della propria storia e di quelle culture non sarebbe in grado di affrontare il presente, di entrare nella cor– rente delle forze vive della trasformazione in corso nel paese, in una società complessa, in un mondo minacciato dalla condizione nuclea– re, in cui i temi dell'etica della specie debbono ormai prevalere sulla nostra vecchia etica «di classe». Non è molto produttivo discutere sulla graduazione tattica della violenza. Occorre de– cidere se essa debba far parte o non del nostro orizzonte strategico. Possiamo riportare molti compagni alla politica, all'impegno solo se noi abbiamo il coraggio_di dire che quelli furono errori. Costruire l'unità della siriistra e trasfor– marla è possibile se anche que11ache proviene dal '68 si assume le sue responsabilità.

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