Fine secolo - 19-20 ottobre 1985
Adriano Solri Le par.o/e i loro fatti Siamo qui perchè ci sono questi arresti. La «ri– flessfone sugli anni '70» è cominciata molto tempo fa: fra quelli che oggi la esigono con più solennità, molti ce ne sono ai quali non impor– ta niente. Senza questi scampoli giudiziari pic– canti, non ci starebbero a sentire neanche cin– que minuti. Noi stessi non ci sogneremmo di ricominciare a parlarne. Ma tant'è. lo parlerò di questo, e non del significato di quegli anni, che è altra cosa. Quella esperienza ebbe in sè il veleno della politicizzazione totale e il suo an– tidoto, l'autonomia dei fenomeni sociali e civi– li; accolse un pregiudizio «collettivistico», ma non solo a scapito dell'individualità, bensì an– che nella speranza, o nell'illusione, di realizza– re la sua umanità attraverso lo scambio fra in– telligenza personale e movimenti di massa; oscillò fra centralismo e molteplicità: sul falli– mento di questi tentativi si sciolse, e non sulla «violenza». Dunque se della violenza discutia– mo, è come di una parte, certo la più rivelatri– ce, di quella esperienza. Ho scritto, e ripeto qui, che mi sento solidale con gli arrestati come chi avrebbe potuto tro– varsi al posto loro. E' la premessa, umana più che politica, di quello che dirò. Non è facile decidere a chi rivolgersi. Si incontra qualcuno dei "vecchi", qui, e ci si chiede se non ti ha sa– lutato perchè non ti ha riconosciuto, o perchè ti ha riconosciuto. O i giovanissimi, quelli sì davvero sconosciuti. Il fatto é che venendo qui abbiamo accettato, noi che «c'eravamo», un appuntamento con noi stessi, e non è difficile figurarsi la nostra faccia di allora far capolino con un'aria irridente e indignata, al solo vedere la nostra faccia di ora. Bisogna evitare di avere troppo facilmente partita vinta contro noi stes– si come eravamo. Io sono molto cambiato, così cambiato che me ne rallegro col me stesso di allora, perchè qualunque cosa mi sia capita– ta o mi capiti ancora, lui se l'è scampata. Ho simpatia per lui, penso che per lealtà anche oggi dovrei dargli la parola. Lealmente, non dunque attaccandomi alle sue parole di allora, che non volevano dire tutto, e neanche molto. Naturalmente, le prendevamo sul serio, le pa– role. on farò digressioni polemiche, ma certo non sono stato entusiasta di Petruccioli che ha scelto, ed è questione di gusti, di venire qui a spiegare che lui e il PCI hanno avuto sempre ragione, ma ha preteso anche che il messaggio consegnato allora e oggi dal PCI ai giovani fosse quello della trasparenza, del rifiuto di ogni doppiezza. E' perfino banale ricordare che il PCI è stato una propaggine importante della tortuosa elaborazione secolare della dop- . piezza politica e del machiavellismo. Miriam Mafai, che mi ha appena preceduto, ne ha ri– percorso un paragrafo con la biografia di Sec– chia. Io feci in tempo a incontrare quel com– piaciuto virtuoso dell'arte della doppiezza che era Togliatti, e anzi gli inizi politici di gente come me vennero proprio da un'obiezione mo– ralista a quella doppiezza, dal rifiuto di una lingua doppia e della distanza fra parole e fat– ti. Noi ci buttammo a sciogliere quell'incoeren– za dalla parte del volontarismo, dell'azione, ma anche della conferma delle parole. (E pian– tiamola pure con questa storia dei cattivi mae– stri che mandavano gli altri allo sbaraglio: ave– vamo vent'anni, come diceva la canzone, e una gran voglia di andare allo sbaraglio di perso– na. E se i ventenni di ora si iscrivono all'avven– tura nella forma non violenta di Greenpeace o del birdwatching, tanto meglio). Il '68 in parti– colare fu una liberazione nell'azione, nei gesti - le stesse parole furono gesti. Ma prima e dopo le parole ereditate pretesero i loro diritti. Rin– negavamo i nostri maggiori perchè avevano tradito le parole. Ci avvicinavamo alla rimo– ·zione dei sostantivi, ma poi ritornavamo alla via più facile della loro conferma rincarata da– gli aggettivi. Il «vero» comunismo, la sinistra «nuova» o «rivoluzionaria», l'antifascismo «militante». La verità stava in quegli aggettivi - e nei fatti. Ma se le parole non bastano a ve– rificare i fatti, i fatti, costretti a rincorrere le parole, finiscono per rivelarle e tradirle, e i sa– cri testi riscoperti vanno a finire nel comunica– to numero ennesimo impostato in un cestino della spazzatura. E' così per la violenza, ma non solo per la violenza. Costa caro, liberarsi delle parole. Perciò si spe– ra che i fatti, i misfatti, siano solo degli inci– denti di traduzione, fraintendimenti delle paro– le. Si spera di poter continuare a distinguere fra una violenza giusta e una ingiusta, una tempestiva e una intempestiva, nella quale ru– bricare gli errori. In realtà tutte le formulazio– ni con cui abbiamo tentato di controllare il tema della violenza ci si sono sbriciolate nelle mani (la violenza educatrice e levatrice dell'uo– mo. nuovo; fa violenza difensiva; la violenza omeopatica della politica destinata a incanala– re quella dirompente della società; la violenza di avanguardia cattiva e quella di massa buo– na...). Questa fiducia nelle parole e insieme paura delle parole continua a inseguirci. Poco fa è stata fischiata la Mafai che ha chiamato l'ag– gressione a Ramelli «delitto» e non «errore». Ma è certamente un delitto, e chiamarlo così non é davvero un negare solidarietà o rispetto a chi è in carcere per quello. E' un convegno sulle «ragioni e gli errori», e non credo che questa dizione sia ipocrita; ma io -quanto Ca– panna sappiamo bene che in quegli anni abbia– mo commesso o permesso o conosciuto por– cherie, misfatti, cose ignobili. Anche se per for– tuna non ha più il minimo senso stabilire chi le ha date e chi le ha prese, non è certo un miste– ro che ci siamo attrezzati a menarci fra di noi, · e che anche fra noi ci sono state teste rotte, e lesioni permanenti, fisiche e no. (E non lo dico perchè sia scontato che la violenza «fra di noi» fosse peggiore· dell'altra - neanche questo è scontato). Se chiamiamo dèlitto un delitto, possiamo davvero capire che è, nel senso più profondo, un errore: se ci barrichiamo per chiamarlo «errore», inganniamo noi stessi, e soffriamo quando qualcuno ce lo rinfaccia. Su un altro punto c'è disaccordo, se interpreto bene qualche intervento, e un articolo di Ros– sanda: che rapporto ci sia fra sinistra extrapar– lamentare e terrorismo. Qualcuno ha visto nel titolo del convegno, «I968-76» una volontà di segnare la rottura, l'estraneità con gli anni suc– cessivi e l'espansione del terrorismo. Non è or– mai un falso problema? Lotta Continua si sciolse appunto alla fine del 1976, e io stesso passai allora a miglior vita. Ma questa discon-· Foto T. D'Amico FINE SECOLO* SABATO 19 / DOMENICA 20 OTTOBRE 23 tinuità, estraneità, è al tempo stessa ovvia e falsa. Non mi sembra che dobbiamo preoccu– parci tanto che si voglia assimilare a ritroso la politica della nuova sinistra al terrorismo . . Piuttosto, tutta la riflessione e il lavoro che nel carcere e intorno al carcere si sono condotti, sull'inchiesta detta del 7 aprile, sulle varie for– me di crisi della «lotta armata» e soprattutto sulla dissociazione, costituiscono un patrimo– nio prezioso anche per affrontare problemi giudiziari come quelli posti dagli arresti recenti di Milano. E' grazie a quella esperienza e a quella riflessione che il dogma dell'inevitabilità della galera (vorrei dire: il gusto e l'augurio della galera) è stato intaccato in Italia, e que– !-\topuò valere più di qualunque amnistia, che pure verrebbe benvenuta. Altri fischi hanno qui reagito quando si è evo– cata una «paranoia» della nuova sinistra di al– lora. Eppure non c'è dubbio che in quegli anni è cresciuto uno stato d'animo che è arrivato fino a momenti di delirio persecutorio. Quante persone per questo sono state male, molto male? Non sono stati male solo i singoli, ma un «movimento», anche se i manuali di psi– chiatria giudiziaria non sono abituati a occu– parsi dei movim<;nti. Noi invocheremmo tut– t'altro che volentieri una seminfermità come attenuante a quegli anni, nè è buon metodo far dipendere i nostri malanni da quel che faceva (fatti, errori, delitti) il Nemico, ma è bene ri– cordare l'altra ovvietà che dove c'è delirio di persecuzione c'è di norma qualche persecuzio– ne reale, e che quelli erano tempi in cui Pertini - parlo di uno che non è imputabile - si alzava la mattina, vedeva un'auto di poliziotti sotto la finestra, e pensava che avessero fatto il colpo di stato: ed era la sua scorta ..Ricordo la storia, innocua per fortuna, di quattro ragazzi di pro– vincia che discutevano e discutevano della ne– cessità di passare alla clandestinità. (C'è stato un tempo in cui tanti giovani non si chiedeva– no come si potesse diventare terroristi, ma come si potesse non diventarlo). Una sera, con la loro Cinquecento, furono fermati dalla poli– zia stradale. Scesero, e si dichiararono prigio– nieri politici. Non c'è qui il tempo di parlarne, ma è certo che di questa sensazione oscuramente persecu– toria, di una condanna alla violenza, anche di un culto doloroso e compiaciuto delle proprie vittime, il dicembre 1969 fu una causa repenti– na e irreparabile - uno scandalo che spezzò la giovinezza del «movimento». , Io credo che voi proviate, come me, un forte disagio sia a sentir esaltare l'esperienza di que– gli anni, sia a sentirla denigrare. Non voglio dire la banalità per cui ci sono sempre luci e ombre, bene e male... E' qualcos'altro. In pri– mo luogo, la sconvenienza di linguaggi giudi– ziari o politici o sociologici a un'esperienza umana integrale e appassionata. In questo sen– so, il silenzio può servire meglio delle parole, e il linguaggio allusivo più di quello diretto. Un'ambiguità è condizione della comunicazio– ne - senza di che, resta la comunicazione giudi– ziaria. Non è'un caso che la letteratura sul ter– rorismo, avida di verosimiglianza e di colpi di scena, sia stata essenzialmente una cattiva co– pia dei verbali di pentiti. Ma c'è un'ulteriore ragione di quel disagio, che spiega perchè si respinge chi viene ad accusare, e insieme si approva con riluttanza chi si limita a rivendicare. Questa ragione consiste nell'in– fondatezza morale di ogni accusa - e insieme di ogni autoassoluzione. L'Accusa, quella istitu– zionale, giudiziaria, ma anche quella che sce– glie altre sedi di predicazione, ha una motiva– zione pratica, e non può arrogarsi un titolo morale. Moralmente, la questione è stata defi– nita una volta per tutte dalla provocazione «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Ma quando si tratta di giudicare se stessi, e non gli altri, le cose cambiano. Ricordate la storia di Edipo. Punisce un signorone prepo– tente, libera una città dalla pestilenza, si inna– mora di una vedova e la sposa - come può non ·indignarsi delle accuse che gli vengono rove– sciate addosso? Finchè non scopre di aver commesso un parricidio, uno stupro sacrilego, un incesto. Ma è dunque solo questa la verità?
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