Fine secolo - 28-29 settembre 1985

ro confermare tutti quelli che ci sono stati, gente la cui condotta merita il giudizio più se– vero. Ma, considerando ogni singolo caso, constatiamo che il verdetto individuale varia. Perchè, per esempio, uno di questi :'personaggi discutibili", Paul Eppstein, è stato messo a morte dai nazisti? Lei non ne fornisce una spie-. gazione. Tuttavia la spiegazione è molto chia– ra: aveva fatto esattamente ciò che secondo lei avrebbe potuto fare senza serio pericolo: ha detto alla gente di Theresienstadt che cosa l'a– spettava ad Auschwitz. Ma ventiquattr'ore dopo era messo a morte. La sua tesi secondo cui quelle macchinazioni dei nazisti sono servite in un certo modo a can– cellare la distinzione fra carnefici e vittime, tesi che lei impiega per fustigare l'Accusa al pro– cesso Eichmann, mi sembra completamente falsa e tendenziosa. Nei campi, l'essere umano era sistematicamente degradato·; i deportati erano, come lei dice, costretti a partecipare al proprio stesso sterminio e a collaborare all'ese– cuzione dei propri compagni. La distinzione fra carnefici e vittime ne esce forse cancellata? Che perversità! Ci si chiede, a quanto pare, di confessare che anche gli Ebrei hanno preso la loro "parte" a questi atti di genocidio. Ecco una tipica quaternia terminorum. Ho letto di recente il resoconto di un libro scritto nel momento della catastrofe, con la . piena coscienza di ciò che si preparava, da rab– bi Moshé Cbaim Lau, di Piotrkov. Questo rabbino ha cercato di definire con tutta la pre– cisione possibile il dovere degli Ebrei in situa– zioni così estreme. Gran parte di quel che ho letto su questo libro toccante e terribile - e non è il solo - si accorda con la sua tesi generale (ma non col suo tono). Ma in nessuna parte del suo libro lei mostra chiaramente come ci siano stati degli Ebrei che hanno agito come hanno fatto con la piena coscienza di ciò che li aspettava. Il rabbino in questione è andato a Treblinka con il suo gregge, dopo averlo esor– tato prima a fuggire, e i suoi fedtli avevano fatto altrettanto con lui. L'eroismo degli Ebrei non è stato sempre quello del guerriero; e noi non ne abbiamo sempre avuto vergogna. Io non posso confutare quelli che dicono clie gli Ebrei hanno meritato la loro sorte perchè non hanno fatto per tempo i passi necessari per di– fendersi, perchè sono stati vili, ecc. Assai re– centemente mi sono imbattuto in questo ragio– namento in un libro scritto da quel buon ebreo antisemita che era Kurt Tucholsky. Non posso evidentemente esprimermi con l'eloquenza di Tucholsky, ma non posso negare che abbia ra– gione; se tutti gli Ebrei fossero fuggiti, inn par– ticolare in Palestina, un maggior numero fra loro avrebbe avuto salva la vita. Sarebbe stato possibile, tenuto conto delle circostanze spe– ciali della storia e della vita ebraica? Questo implica una partecipazione storica alla colpe– volezza del crimine di Hitler? E' altro affare. Non parlerò dell'altra questione che è al centro del suo libro: la colpevolezza o il grado di col– pevolezza di Adolf Eichmann. Ho letto il testo del giudizio pronunciato dal tribunale e la dif– ferente proposta che lei ha avanzato e che è contenuta nel suo libro. Trovo quella del tribu– nale più convincente. Il suo giudizio mi sembra di un'incongruenza prodigiosa. Il suo ragiona– mento si applicherebbe allo stesso modo alle centinaia di migliaia, forse ai milioni di esseri umani ai quali si applica la sua ultima frase. E' la frase finale che contiene la ragione per cui Eichmann doveva essere impiccato perchè nel resto del testo lei sviluppa in dettaglio il suo ragionamento - che io non condivido - secondo cui l'accusa non si è curata di provare ciò che si era impegnata a provare. A questo riguardo, posso segnalare che ho dato la mia firma a una lettera indirizzata al Presidente di Israele e ostile all'esecuzione; ho esposto inoltre, in un saggio in ebraico, la ragione per cui considera– vo l'esecuzione della sentenza - che Eichmann aveva in ogni senso meritato, ivi compreso il senso dell'accusa - come un errore storico, pre- cisamente a causa delle nostre relazioni stori– che col popolo tedesco. Non ripeterò qui quel ragionamento. Vorrei dire solo che la sua de– scrizione di Eichmann come un "convertito al sionismo" non può venire che da una persona che avversa profondamente tutto ciò che ha a che fare col sionismo. Trovo pressochè impo~– sibile prendere sul serio questi passi del suo li– bro. Essi approdano a una caricatura del sioni– smo, e io sono forzato a concludere che era la sua intenzione. Basta con questo. Dopo aver letto il suo libro, io non sono con– vinto dalla sua tesi circa la "banalità del male", tesi che, a stare al suo sottotitolo, sta dietro ,all'intero suo ragionamento. Questa nuova tesi mi colpisce come uno slogan; essa non mi sembra, per certo, il frutto di una pro– fonda analisi, del genere di quella che lei ha fornito in modo così persuasivo al servizio di una tesi dél tutto differente e perfino contrad– dittoria nel suo libro sul totalitarismo. Lei non aveva ancora fatto a quell'epoca, evidentemen– te, la scoperta della banalità del male. Di que– sto "male radicale" del quale la sua analisi di allora testimoniava con tanta eloquenza ed erudizione, non resta che quella parola. Forse più che di uno slogan, essa dovrebbe essere og- FINE SECOLO * SABATO 28 / DOMENICA 29 SETTEMBRE getto di una ricerca, su UD piano serio, come UD concetto che trova il suo posto nella filoso– fia morale o nell'etica politica. Mi rammarico, e lo dico, credo, in tutta sincerità e senza spiri– to polemico, di non poter prendere più sul se– rio la tesi del suo libro. Avevo tenuto caro il suo libro precedente e mi aspettavo altro. GERSHOM SHOLEM Il male è banale New York, 24 luglio 1963 Caro Gerhard, bo trovato la sua lettera rientrando la settima– na scorsa. Lei sa com'è quando si è stati via per cinque mesi. Le scrivo nel primo momento di tranquillità; può darsi dunque che la mia ri– sposta non sia meditata quanto forse dovreb– be. La sua lettera contiene delle affermazioni che non si prestano a controversie perchè sono 27 semplicemente false. Vorrei prima di tutto trattare di queste per poter passare poi alle questioni che meritano d'essere discusse. Non sono di quegli "intellettuali usciti dalla si– nistra tedesca". Lei poteva ignorarlo, perchè non ci siamo conosciuti nella nostra gioventù. E' un fatto di cui non vado particolarmente fiera e sul quale provo qualche ripugnanza a insistere, specialmente da quando questo paese è entrato nell'epoca del maccartismo. Ho pre– so coscienza solo tardi dell'importanza di Marx, perchè non mi interessavo da giovane nè alla storia nè alla politica. Se occorre che io "sia venuta da qualche parte", è dalla tradizio– ne filosofica tedesca. Per quanto concerne un'altra delle sue affer– mazioni, non posso purtroppo dire che lei non era a conoscenza dei fatti. Trovo intrigante che lei abbia scritto: "Io la considero una figlia del nostro popolo, una fi– glia a pieno titolo e nient'altro". La verità è che io non ho mai preteso di essere altro, nè di essere diversa da come sono e non ne ho mai nea~che provato la tentazione. Sarebbe come dire che ero un uomo e non una donna, cioè una dichiarazione senza senso. So naturalmen– te che esiste un "problema ebraico", anche a questo livello, ma questo non è mai stato il mio problema, neanche nella mia infanzia. Ho sempre considerato la mia ebraicità come uno dei dati reali e indiscutibili della mia vita. E non ho mai desiderato cambiare o sconfessare fatti di q\lesto tipo. Esiste una sorte di gratitu– dine fondamentale per tutto ciò che è come è; per tutto ciò che è stato dato e non è stato, non poteva essere,fatto; per le cose che sono physei e non nomo. Questo atteggiamento è senza dubbio prepolitico, ma in circostanze d'ecce– zione, come le circostanze della vita politica che riguarda gli Ebrei, esso è destinto ad aver anche conseguenze politiche, sia pure, per così dire, in modo negativo. Questo atteggiamento rende impossibili certi tipi di comportamento, precisamente quelli che lei ha voluto rintrac– ciare nelle mie riflessioni. (Per fare un altro esempio, nella sua nota necrologica su Kurt Blumenfeld, Ben Gourion ha espresso il suo rammarico perchè Blumenfeld non aveva rite– nuto opportuno cambiare nome quando venne a vivere in Israele. Non è evidente che Blumen– feld ha agito così esattamente per le stesse ra– gioni che lo hanno condotto da giovane a di– ventare sionista?) La mia posizione su queste questioni le deve senz'altro essere nota, e non riesco a capire perchè lei voglia attribuirmi un'etichetta che non mi si è mai convenuta ieri, e non mi si addice oggi. Veniamo al punto. Cominceròt a partire da quel che ho appena precisato, da ciò che lei chiama "l'amore del popolo ebraico" o Ahavat lsrael (fra parentesi, le sarei grata di volermi dire da quando ·questo concetto ha giocato un ruolo nell'ebraismo, quando è stato utilizzato per la prima volta nella lingua e la letteratura ecc.) Lei ha completamente ragione: io non sono animata da alcun "amore" di questo ge– nere, e ciò per due ragioni: non ho mai nella mia vita né "amato" alcun popolo, alcuna col– lettività - né il popolo tedesco, né il popolo francese, né il popolo americano, né la classe operaia, né niente di tutto questo. Io amo "unicamente' i miei amici, e la sola specie di amore che conosco e nella quale credo è l'amo– re per le persone. In secondo luogo, questo "amore per gli Ebrei" mi sembrerebbe, Ebrea come sono io stessa, piuttosto sospetto. Non posso amarmi da me stessa, amare ciò che so essere una parte, un frammento, della mia stes– sa persona. Per chiarire ciò, mi permetta di raccontarle una conversazione che ho avuto in Israele cçn una personalità politica di primo piano, che difendeva l'assenza di separazione, ai miei occhi disastrosa, fra religione e Stato in Israele. Ciò che mi ha detto - non sono più cer– ta delle parole esatte - suonava pressappoco così: "Lei capisce che per quanto mi riguarda, come socialista, io non credo evidentemente in

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