Fine secolo - 27-28 aprile 1985
Resoconto di una vocazione sorta dalla tradizione orale del culto di Pasquali, e naufragata nelle secche della "vita intera". La prima volta che sentii nominare Giorgio Pasquali, ma senza che potessi farmi un'idea di chi fosse, fu non mi ricordo se in seconda o in terza liceo. Stavamo facendo compito in classe di Latino o di Greco; il giovane professore sul– l'alto della cattedra (a quei tempi dalla catte– dra si dominava incombenti sulla piccola sco– laresca) leggeva tutto assorto un piccolo libro, mi pare giallo o rosa (era Università e scuola) senza badare a noi; era tale la sua 'ferocia' che a nessuno veniva in mente di tentare di copiare (ma anche lui poi cambiò, e ne abbiamo parla– to di quella severità 'di sinistra', dovuta a scel– ta ideologica). A un certo punto, non so come, richiamò la nostra attenzione su ciò che stava leggendo e disse enfaticamente che chi aveva scritto quel libro -lesse titolo e autore- aveva più cervello di tutti noi messi insieme, lui com– preso. Avevo una grande ritrosa ammirazione per quel professore e ci rimasi male che usasse una frase così bottegaia e che si dichiarasse in– feriore a qualcuno in un modo che mi pareva umiliarlo (e umiliare in second'ordine quindi anche me). Verso la fine del terzo anno, quel professore, ch'era stato normalista e, seppi poi, allievo -uno degli ultimi- di Pasquali, mi suggerì di tentare il concorso d'ammissione alla Normale per Lettere classiche. Mi diede dei consigli, ma senza aprirsi a confidenze sui suoi studi. Per l'estate mi prestò, tra l'altro, Le lettere di Pla– tone di Pasquali.' Entrai in Normale nel '56 coll'intenzione di di– ventare un buon insegnante di Lettere classi– che. Rimasi confusamente sorpreso che tra i miei compagni questa aspirazione non venisse nemmeno presa in considerazione. E ben pre– sto fui assorbito nel clima di ambizioni scienti– fiche e accademiche ch'erano vissute ed espres– se come scontate, naturali, e mi appassionai a discipline di cui avevo ignorato anche l'esisten– za (la glottologia, per esempio, e soprattutto la critica testuale). Erano molte le cose scontate che si rovesciava– no sulla matricola e che venivano assorbite e fatte proprie -più tardi si assumeva la conti– nuità della trasmissione- per l'identificazione col gruppo e con la sua tradizione. (Per questo chi entrava dopo il primo anno si omologava con più difficoltà e imperfettamente). Tra tali cose c'era per i 'letterati classici' il culto di Pa– squali, che si estendeva anche ben al di là del mondo dei classicisti: non c'era insegnante di discipline letterarie, e anche storiche, ,he non si facesse onore di dichiarare il suo debito, e della sua disciplina, verso Giorgio Pasquali. Nelle polemiche coi compagni della Classe di scienze, sprezzatori dell'ascientificità di noi 'letterati', Pasquali era il campione del rigore dei nostri studi dietro il quale ci proteggeva– mo. Un mio caro amico, studente di Fisica, fragile ebreo dall'aria dolente, suicidatosi po– chi anni dopo (a me fu detto ch'era stata una disgrazia), Sergio De Benedetti, diventò gran– de ammiratore della filologia quando restaurai con rigore metodologico il testo di una canzo– naccia goliardica dei nostri cori notturni. Il primo efficace contributo al culto di Pasqua– li veniva dagli anziani che ci consigliavano le letture e controllavano l'iniziazione. Non passò molto che Storia della tradizione e critica del testo divenne 'livre de chevet'. E qualunque cosa studiavo mi veniva spontaneo di vedere se c'era qualche contributo o spunto o cenno da Ricordo di 11n filologo ·dini.ezzato ----------- di Vincenzo BUGLIANI ------------ qualche parte in Pasquali. Del tutto natural– mente i volumi delle Pagine stravaganti diven– tarono per qualche tempo, e a più riprese in se-. guito, lettura 'amena' preferita. Erano una mi– niera di scoperte che consolidavano il senso d'appartenenza a una tradizione e consentiva– no di collocare Pasquali nella costellazione dei .filologi, di conoscere i suoi padri, i suoi legami, i suoi disparati interessi, i suoi gusti, e d'impa– rare tante cose attraverso un'autorità ammira– ta. Conobbi storia e momenti della filologia classica e personalità di filologi innanzi tutto attraverso Pasquali, ricomponendo via via no– tizie sparse, magari scoperte in una nota (v'era un vero e proprio statuto e culto della nota). I La preferenza andava, ovviamente, alla scuola germanica. Anche il mio apprendimento del te– desco fece le sue primissime piove sulla Te– xtkritik del Maas (da una recensione a quell.o smilzo e geometrico libretto era nato Storia della tradizione): prendevamo due piccioni con una fava usandolo anche come testo a scelta per l'esame di Lingua tedesca del primo anno . In quei primi mesi lessi anche l'edizione pa– squaliana dei Caratteri di Teofrasto. Poi c'erano alcuni miei professori (come Aure– lio Peretti, di Letteratura greca) ch'erano stati allievi e intimi di Pasquali, quelli dell'Univer– sità di Pisa che insegnavano anche in Normale, o quelli che venivano da fuori a tenere semina- l , ri. Oppure filologi illustri e anziani, come Eduard Fraenkel, che durante le sue esercita– zioni (ricordo quelle sulle Fenicie di Euripide e sul Satyricon) a più riprese rievocava il 'vostro' grande maestro prematuramente scomparso. E allora alzavamo, i più giovani, gli occhi alla fo– tografia di Pasquali, colto in una vivacissima espressione, ch'era appesa in fondo all'aula di Filologia classica, accanto alla finestra, nell'u– nico piccolo spazio di parete lasciato libero da– gli scaffali dei libri. A questi seminari talora partecipava (a quelli di Fraenkel e di Scevola Mariotti, mi ricordo) il più universalmente sti– mato e amato, e in Normale mitizzato, dei pa– squaliani, Sebastiano Timpanaro, che incurio– siva per la sua estraneità alla carriera accade– mica e per il suo impegno politico a sinistra. La mia tesi di laurea venne da un suo suggeri– mento. Ma Timpanaro quasi si vergognava d'esser filologo e di non dare il meglio di sè a ben altra causa. Dagli anziani della Scuola e dai discepoli veni– vano poi gli aneddoti sull'uomo Pasquali, la sua vita privata, i pettegolezzi intimi (spesso da lui stesso confidati), le sue debolezze, la sua fanciullaggine. Erano tutti questi racconti che non mi facevano amare l'uomo Pasquali, per me non padre ma nonno, per motivi che anche rendevano contraddittorio il mio amore per la Filologia. Nel mio ingenuo, e forse totalitario, ideale di uomo completo, di intellettuale a tut– to tondo, non riuscivo ad accettare la persona– lità contraddittoria (e dimidiata, mi pareva) di Pasquali: il grande maestro di metodo filologi– co, di storicismo, di vivacità intellettuale, di ri– gore antiretorico, e l'uomo che smaniava per l'Accademia d'Italia, amico di Gentile, accon– discendente verso il fascismo, ch'era stato ad– dirittura tra le personalità schierate a ricevere Hitler alla stazione di Firenze nel 1937. E non mi piaceva l'atteggiamento dei suoi allievi che parevano passare sopra a tutto, perdonargli tutto con mille distinguo (eppure, i più di quel– li che conoscevo erano di sinistra). E diffidavo anche delle vantate generosità e affettuosità. La stessa gente che nei propri studi esercitava un rigore e una competenza senza eguali, che era per altre questioni e altri personaggi capa– ce d'estrema severità, anche liquidatoria, con Pasquali erano benevoli, comprensivi, attentis– simi a sfumare, a precisare, a tener fermo 'il ~,eroPasquali' sotto le manifestazioni che ne tradivano il vero essere. Al punto da essere protettivi, paterni verso il padre, per il quale si concludeva -e tuttora si conclude, mi pare- col giudizio assolutorio di 'fanciullo', di 'innocen– za fanciullesca'. Certo, erano miei problemi d'insicurezza, di rigidità, ed era per questi che anche mi sentivo a disagio, cercavo altro, altri maestri, altro impegno, fuori della Filologia. Al tempo dei fatti d'Ungheria, il mio professo– re di Letteratura greca, durante la lezione (non conobbi altro caso), interrompendo la lettura di Aristofane, disse emozionato poche dignito– se parole di solidarietà per la libertà ungherese schiacciata dai carri armati. Ma nemmeno questo poteva bastarmi. Cercavo nella filolo– gia, negli studi, negli intellettuali .un assoluto ch'era romanticamente mio. Qualche anno dopo mi misi a cercare altrove. Ancor oggi, però, gli scritti su Pasquali dei pa– squaliani (e la loro conversazione) mi mettono a disagio. Un paio d'anni fa ho riletto la Prei– storia della poesia romana riedita da Timpana– ro: leggendo la sua introduzione mi sono tro– vato di fronte ancora una volta a una difesa pi– gnola che mi è parsa sproporzionata. Eppure, per quel che lo conosco, Timpanaro non mi sembra che sia in generale meno rigido di quanto fossi io allora, e anche più di recente per comuni settarismi politici. Ma forse è uno dei modi migliori per fare i conti coi propri pa– dri, tanto più che a molti pasqualiani non si può certo rimproverare di non aver fatto le loro libere scelte culturali e civili lontano dal padre.
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