Fine secolo - 13-14 aprile 1985

Gabriel Garcia Marquez (foto Paola Agosti) Liu Binyan Oggi cinquantenne, dopo ven– t'anni di esilio e di silenzio, questo vice-presidente dell'As– sociazione degli scrittori cinesi di freschissima nomina fu re– porter-vedette del Quotidiano del Popolo. Un tema, la corru– zione burocratica ("Fra uomo e diavolo"). All'inizio, la ragione che mi ha spinto a scrivere era piuttosto vaga. Passata la trentina, ho capito che cosa mi anima– va: un bisogno di svelare la vita, di mo– strare che cosa nascondono le nebbie; di restituire alle cose il loro viso originario, mostrando che il vero può essere il fal– so, e che quello che sembrava falso può rivelarsi per vero. Io cerco di scrivere quello che gli altri non hanno ancora detto. Lo scopo, in fondo, è che ci sia più piacere nella vita dell'uomo, e che i malfattori non abbiano più sonni tran– quilli. COLOMBIA GabrielGarcia Marquez Nato a Aracataca nel 1928. Ha trascorso vent'anni a in– ventare Macondo e diciotto mesi a farne la storia che fece il giro del mondo: Cent'anni di solitudine. Non ha mai rinun– ciato completamente al suo mestiere di giornalista. Rima– sto un "Costarefto", al punto di essersi infilato un pili-pili ~r ricevere il Premio No– bel. Perchè i miei amici mi amino di più. David Sanchez Juliao Un colombiano che è restato in Colombia dove è nato nel 1945. Una valanga di ricono– scimenti recenti. Amo dire le cose come le dico sebbene a volte prendano l'aria di menzogne. Non sono un bugiardo, capitemi. Semplice– mente mi piace immaginare. E' il mio lavoro. A volte, immaginare non porta denaro, ma a me permette di vivere. Io sono di quelli che fanno una gran diffe– renza fra vivere di racconti e vivere per i conti. Io vivo per raccontare, e sono fe– lice quando lo faccio. Credo di rendere allo stesso tempo felice molta gente. Non mi importa che si diano o no da fare per rendermi felice. Per chi raccon– ta, la felicità risiede nella felicità degli altri. Loro sono felici con i miei racconti e tanto mi basta. CONGO TchicayaU Tam'si Nato nel 1931, non vive che per la scrittura, ossessionato dalla figura carismatica del– l'assassinato Lumumba. Drammaturgo, poeta, è autore della rutilante trilogia "I Can– crela, Le Meduse o le ortiche del mare, Le Falene". Sono stato imbarazzato a lungo da que– sta domanda. Senza sapere bene perchè ogni risposta fosse difficile da formula– re. Più di una volta, mi è apparso chiaro che non c'era risposta, se non forse dire: é successo così, senza che sapessi perchè. Un'inclinazione. Spiegare un'in– clinazione non è facile. Questo esige uno .sforzo di discesa in sè. L'ho fatto senza saperlo? In realtà, mi è tornato un ricor– do. Progressivamente, l'ho visto dissep– pellirsi dal più profondo della mia me- .moria~ E' il ricordo di una fuga che mise in agitazione mio padre, il quale temette un rapimento criminale. Mio padre so– spettò i fratelli di mia maare dalla quale era separato, e da cui fui staccato, mol– to presto. Fuga, quella? A 7 anni? Nes– suno mi aveva visto seguire Zio Pietro, un cugino di mio padre, dopo una delle sue favolose visite, in cui lo si era ascol– tato una volta di più, l'anima ebbra per l'acquazzone, il tornado, l'uragano delle parole tepide, fredde o fresche che gli uscivano dalla bocca. Io lo seguivo a bocca aperta, "Guarda come ti guar– da". Gli occhi tondi, la bocca spalanca– ta, andavo in estasi a sentire lo zio Pie– tro parlare come solo gli dei sapevano. "Dove trova tutto quello che raccon– ta?" Raccontava dei miraggi. Io non ca– pivo niente di quello che raccontava, ma quelle parole erano leccornie, quelle parole erano carezze per l'anima e per il corpo. E io andavo pazzo per le leccor– nie e le carezze soprattutto perchè tre– mavo di terrore a causa di tutto il fra– stuono che era in me, a causa delle zuffe che non sapevo ingaggiare coi miei rozzi compagni di gioco; a causa infine delle arringhe che io non sapevo pronunciare per consolare il debole -il debole era sempre a mia immagine- e poi come uscire da tutto quel mio frastuonq se il suo segreto, di zio Pietro, aggiungeva tanti enigmi a un mondo già indecifra– bile? Io mi sono esercitato a essere lui. Ho voluto abitare nella sua testa, nel suo corpo per conoscere la virtù, la, fre– schezza, l'esuberanza, la luminosita del– le sue parole. E ho fatto quella fuga, se– guendolo da lui, nella notte della sua casa dove mi sono smarrito a sentirlo sempre parlare. Mi sono sorpreso a imi– tarlo. Gli devo anche il mio nome di penna: U Tam'si. Non aveva che un li– bro: la Bibbia. Ma aveva ricevuto un gran dono di parola, secondo h tradi– zione. Con quella fuga io sono andato in fondo a una iniziazione. Ecco, io scri– vo perchè ho ricevuto in consegna il do– vere di testimoniare del dono e della vo– lontà di dire, che da sempre era nella ~ mia famiglia. COREA Yun Hung-gil Nato nel 1942, sa descrivere la guerra con Jo sguardo di un bambino, le tradi'lioni sciama– niche delle campagne e l'indu– strializzazione delle città. In servizio da due decenni. Dall'età di 11 anni, alla scuola primaria, mi succedeva spesso di fare delle fughe. Ricevevo moltissimo amore dai miei ge– nitori e da fratelli e sorelle, e tuttavia fuggivo per un niente. Lasciando la casa senza meta, vagavo per territori scono– sciuti, affrontando difficoltà capaci di disgustarmi, e parecchi giorni, o anche parecchi mesi dopo, rientravo a casa, al limite delle forze. Mi succede, ancora oggi, di essere spin– to da un desiderio di fuga. Ho questa idea in testa malgrado mia moglie e i miei bambini che contano su me e mi amano. La responsabilità del C&Jofami– glia mi impedisce di passare all'azione, ma, diventato adulto, io conservo anco– ra il desiderio infantile di fuggire da un momento all'altro. Quando la voglia di vagare per un terri– torio sconosciuto mi riprende, io scrivo un romanzo. Nel mio caso, questa aspi– razione alla fuga e l'impulso di fronte all'opera coincidono stranamente. Così ancora oggi io mi trasformo spesso in un vagabondo che fugge, abbandonan– do la mia famiglia per vagare in mondi sconosciuti. La realtà non é mai soddisfacente per me. E nonostante che questa realtà, in senso sociale, le condizioni necessarie al mio benessere, non manchino affatto, io non so perché il niio ideale sia distante. Circondato da una famiglia amata e da amici cari, io sento ciononostante la so– litudine. In questa civiltà, la vita mate– riale é diventata facile, gli oggetti ab– bondano, e tuttavia, senza sapere perché, io sono insoddisfatto. La mia esistenza autentica non é quella che vivo ora: essa non é ancora realizza– ta, e poiché io mi trovo già in un mondo , ignoto, il pensiero che, se cerco con te– nacia, un giorno tirerò fuori certamente il mio .vero io, mi seduce e mi eccita. Per volontà degli uomini che hanno creato il ventesimo secolo, la civiltà che! ha sviluppato la crescita verso una vita materiale e spirituale ancora più grande, rende all'opposto l'uomo solitario e in– felice. Io sento di dover rifiutare tutto ciò. Se i costumi dei paesi industrializzati d'Europa e d'America che idealizzano e invidiano i paesi in via di sviluppo sono destinati alla fine dei conti a distruggere l'ordine e i valori· tradizionali dei paesi asiatici, io devo fuggire in spirito dalla dimora della civiltà. 'Io scrivo r,omanzi per riempire .la.coppa -della.mia anima che é sempre vuota. Ma per quanto scriva, la coppa non é mai riempita, e dunque continuo a scrivere. Per giungere al territorio sconosciuto al quale aspiro, io· evado -d'un sol tratto dalla mia- vita in cui. manca -sempre qualcosa, e se non posso arrivare a rea– lizzare ·questo sogno ·grazie alla scrittu– ra, .ho almeno la consolazio.ne di tentare avventura· su avventura,. e dunque non abbandonerò nella realtà la mia fami– glia e la mia casa.

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