Diario - anno VI - n. 8 - giugno 1990

Di • !rll 8 P. G. Bellocchio, Ci sarà posto? G. Orwell, Down and Out. A. Berardinelli, Chi ci libererà dalla politica?

Rivista di Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli Anno VI, n. 8, giugno 1990 Sommario PiergiorgioBellocchio, Ci sarà posto? 3 Alfonso Berardinelli, Chi ci libererà dalla politica? 35 George Orwell, Down aind Out 49 Redazione: c/o Piergiorgio Bellocchio, via Poggiali 41, 29100 Piacenza. Tel. 0523/23849. Alfonso Berardinelli, via Dall'Ongaro 83, 00152 Roma. Amministrazione: Editrice Vicolo del Pavone Soc. Coop. a r. l., via Romagnosi 80, 29100 Piacenza. Tel. 0523/22777. Questo numero: lire 5.000. Abbonamento a 4 numeri: ordinario lire 20.000; sostenitore lire 30.000; benemerito, da 50.000 a 100.000 lire. Per l'estero, lire 30.000. Versamenti sul c.c.p. n. 10697290 intestato a «Diario», via Poggiali 41. 29100 Piacenza. Chi si abbona precisi sempre da quale numero intende far decorrere l'abbonamento: se dall'ultimo o da quello di prossima uscita. Trimestrale. Autorizzazione del Tribunale di Piacenza n. 352 del 6/6/1985. Direttore responsabile: Piergiorgio Bellocchio. Stampa: Editr. Vicolo del Pavone. Non contiene pubblicità. Spedizione in abbonamento postale, gruppo IV - 70% - 1/1990. Biblioteca Gino Bianco

Non annoieremo i lettori spiegando i motivi del grave ritardo con cui esce questo fascicolo. E vero che « Diario » non ha mai voluto darsi scadenze fisse, ma è anche vero che fino al n. 7 avevamo tenuto naturalmente, senza sforzo, una media di due fascicoli l'anno. I lettori ci scusino e sappiano che: 1) non abbiamo nessuna intenzione di smettere; 2) a partire da questo numero ci proponiamo di tornare alla « normalità» (il n. 9 entro la fine dell'anno, e così via). Anche se in tempi più lunghi del previsto, gli abbonati riceveranno i quattro numeri cui hanno diritto. I lettori ci mantengano la fiducia e ci aiutino a diffondere la rivista, che conta unicamente su di loro. Biblioteca Gino Bianco

CI SARÀ POSTO? R i t o r n o a 11a v i t a . È sulle parole più comuni, semplici, schiette, dal senso meno equivocabile, che lo spirito borghese ha esercitato con maggiore acribia il suo talento denigratocio, la sua vocazione punitiva. Uomo, anzitutto. Dal momento che i borghesi erano « signori » (o magari « cittadini »), rimanevano « uomini » i so1i ,poveri. Da una parte « signore » e « signorine », dall'altra le «donne» (del popolo). 11 termine che per Shakespeare compendiava Je più nobili virtù - l'elogio di Antonio a Bruto: « Un uomo! » - ha definito gli esecutori dei lavori più pesanti e peggio pagati (manovali, facchini...; ancora nella mia infall2lia: « l'uomo del carbone», « l'uomo del ghiaccio» ecc.). Infine, sostituito anche nelle più basse occupazioni dall'« addetto», dall'« operatore» e simili, «uomo» resta a significare nient'altro che l'astratta unità lavorativa che compone l'organico di un'a2iienda, di una squadra, nonché l'unità combattente di una formazione militare. L'attuale colf era stata a lungo la « donna di servizio », anzi « donna » tout court (promozione eufemistica della « serva »): « fisse » o « a ore », per molte generazioni le uniche « donne » di cui si avesse conoscenza. Analogo vdlipendio colpiva vita, degradata a sinonimo di prostituzione: « far la vita », « darsii alla vita », « donna di vita », « ragazzo di vita» ... Forse all'inizio la vita cosi intesa era accompagnata dalla qualifica « cattiva » o « mala » o « brutta », che ben presto dovette sembrare del tutto superflua. {Mi pare che il gergo americano abbia li/e nello stesso signifilcato,mentre l'inglese usa game e il tedesco Szene, che più elegantemente evocano il gioco e la recita). Anche strada e allegria fanno le spese del puritanesimo borghese: « donnina allegra», « donna di strada» (la signora sta in casa). Più ideoloBiblioteca Gino Bianco .3

gica la vendetta su libertà, scaduta a licenza («donna libera », « prendersi delle libertà») o comodità (« mettersi in libertà»). Tristissimo il destino di godere, che nelle nostre famiglie veniva praticato nell'unica acce21ionedi ri-usare, dallo smaltimento di cibi avanzati all'eredità coatta di indumenti « s·cappati» al fratello maggiore. L'estremo godimento di abiti ormai ,cenciosi e di dbi stantii era concesso ai mendicanti e agli animali di casa (non viiziati come oggi). Inoltre: ritagli di stoffa, spaghi, mozziconi di matite e candele, flaconi vuoti, occhiali monchi d'una stanghetta o orbi d'una ,lente, bomboniere, medicinali lasciatii.a mezzo per sopraggiunto decesso del malato, carte da gioco, spille, interruttori e ·rubinetti ,guasti, pile esaurite, chiavi orfane di serratura, conchiglie, bottoni, chiodi e pennini assortiti ecc. ecc. venivano conservati in ,previsione di godimenti futuri. Tornando alla vita, sarebbe strano che nel teatro di Wilde o qualcun a-ltro non si trovasse una scena in cui una mog1ie insoddisfatta (o un ragazzo represso) sbotta: « Questa non è vita! » E il manito (o il genitore): « Lo credo bene: non vorrai che si abbia quakosa a che fare con quella porcheria! » (Altro possibile scambio di battute: « Voglio vivere!» « Vai pure a far la vita ... »). Dalla prostituzione alla sventura: « Questa è la vita», « Così va la vita» sono sentenze che non vengono mai pronunciate per nascite, guarigioni, vincite al totocalcio o altri lieti eventi, ma esclusivamente per commentare disgrazie, colpi bassi, infortuni, ,separazioni, tradimenti, malattie e ognii sorta di fregature, cui bisogna rassegnarsi. La « legge della vita » è chiamata in causa solo per giustificare la morte. Con questi precedenti, si capirà il mio stupore davanti allo slogan d'uno •spot pubblicitario per una grappa: « Ha il sapore della vita». Reazione automattlca: che schifo! Non avrebbero dovuto puntare sul messaggio opposto: « Vi fa dimentkare la vita», « È un sogno» ... ? Una spiegazione ragionevole è che il rkhiamo alla vita (come buona salute, sano vigore) serva .a esorcizzare l'idea di droga, cirrosi epatiicae morte associate all'alcol. Ma, a parte il caso specifico, i tempi ,sono arcimaturi per un'inversione di tendenza. Quella borghesia repressiva e taccagna che calunniava la vita ha concluso H suo ciclo. L'economia del benessere impone lo spreco - altro che risparmio e smaltimento degLi avanzi! - e pertanto il godere può tornare al suo miglior ·significato. L'allegria, già sospetta, ora è un dovere 4 BibliotecaGino Bianco

sociale. Né c'è più motivo di vergognarsi della ,prostituzione, divenuta regola genera-le: l'unico problema è semmai di vender·s:ib. ene, farsi pagare a caro prezzo. L'uomo è sl definidvamente archiviato: d'altra parte, mentre ai tempi di Diogene e di Shakespeare la rarità era un pregio, oggi è un difetto, il peggiore. Nella democrazia dei consumi, raro diventa dò che non serve e non piace. Più una cosa è rara, meno vale: quindi l'uomo e la donna, in quanto individui. In compenso, la vita, dal momento che è passata sotto il pieno controllo della produziione,può essere promossa dalla pubblicità come valore positivo. La v-itaè finalmente di moda. I don i di Ari man e . Il destino bellico dell'aereo forse non era stato previsto né desiderato daii suoi inventori e dai pionieri che speriimentarono :i primi apparecchi. Ma di fatto l'aereo trova il suo primo impiego - l'unico per decenni - in guerra. Non ha ancora finito di nascere che v:i.enerichiamato. È sùbito un'arma. Al banco di prova del conHi:tto '14-18, il suo contr.ibuto non può che essere minimo rispetto ad armi con secoli d'esperienza quali l'artiglieria, la fanteria, la marina. Gli aerei erano pochi, lenti, vulnerabili, ,più pericolosi a sé che agli altri. Vittime della nuova arma erano in primo luogo gli stessii aviatori, che si affrontavano tra loro in duelli strategicamente gratuiti, illudendosi di combattere una guerra « diversa», infinitamente più nobile e pulita rispetto agli orrori delle trincee, credendosi un po' g1i ultimi cavalieri, mentre erano invece i collaudatori di quella che sarebbe diventata prestissimo la più feroce, la meno cavalleresca delle armi. FJnita la guerra, per altri vent'anni, l'aereo ha forse assolto qualche utile, non indegno compito (trasporto di passeggeri e merci, soccorsi)? Non conosco :i dat:i relativi agli Stati Uniti ma, quanto all'Europa, l'impiego ddl'aereo riguarda quasi esclusivamente imprese sportive e propagandistiche: record di velocità, trasvolate ... Insomma, collaudi. E infatti il peso dell'aeronautica, trascurabile nel '14-18, diventa notevole nelle guerre d'Etiopia e di Spagna: la sua capacità distruttiva è grandemente aumentata. A fronte di questi « successi », c'è qualcosa di cui l'umanità possa esserle grata? Niente. Biblioteca Gino Bianco 5

Come dice in tutta serietà l'EnciclopediaEuropea Garzanti alla voce « aeronautica» (per tre quarti dedicata, com'è giusto, all'impiego militare): « Gli anni della seconda guerra mondiale segnano un nettissimo progresso dell'aeroplano, che si afferma come mezzo bellico di determinante importanza. Prodotto in nutritissiime serie (le varie potenze belligeranti realizzeranno complessivamente quasi 700 mifa velivoli), l'aeroplano giunge alla maturità ... » Un'esposi~ione così oggettiva, che tratta l'evolu~ione dell'aereo non diversamente da quella del tornio, de1la pollicultura, dell'odontoiatria, del salto con l'asta, dimentica stranamente di quantificare i 11isultatidi tanto « progresso», di un esame di « maturità» così brrllantemente superato. Quanti, insomma, dei cinquanta milioni di morti della seconda guerra mondiale sono da attriibuire ai meriti dell'aviazione? Dieci? Venti milioni? Quanti feriti e mutilati? Quanti ·mHioni di case, fabbriche, ettari di terra coltivata, chilometri di strade distrutti? Per mezzo ·secolo H bilancio di questa bella iinvenzione si può esprimere quasi solo in termini di morte, devastazione, miseria. Il numero delle persone trasportate è stato molto inferiore al numero delle persone uccise. Il sogno di Icaro e di Leonardo -s'è dimostrato ben più micidiale di cannoni e mitragliatrici, ,sottomarini e carri armati, che almeno sono stati concepiti a quel preciso scopo. Bisogna attendere cinquant'anni prima che il numero degli uccisi dall'aeronautica decresca rispetto al numero dei viaggiatori. Ma, considerata la nessuna utilità sociale del 99% di questi viaggi, il bilancio continua ad essere sinistramente negativo. L'uccisione di un solo bambino vietnamita, iraniano, iracheno, afgano, libanese, e anche la distruzione di un'abitazione, del .raccolto di un campo su cui viveva una famiglia povera, nonché la morte di animali, sono delitti che non possono venir compensati da benefici quali il risparmio di tempo per qualche migliaio di uomini d'affari o Ja fruizione di vacanze esotiche per qualche mi1ione di turisti. Ho conosciuto persone che non potevano sentir parlare tedesco senza un sussulto di paura. Ancora recentemente, un più che maturo docente universitariio con vasta pratica internazionale, che combatté nelle formazioni partigiane perdendo quasi tutti i compagni durante l'inverno '44-45, mi confessava il suo disagio (che giudicava irrazionale - « ma è più forte di me! ») per il matrimonio d'un figlio con Bi ioteca Gino Bianco

una ragazza tedesca. E 1a sua esperienza dei tedeschi non era stata neanche delle peggiori, molto lontana da1l'inferno che fu .per milioni d'altri uomini. Nel profondo tessuto emotivo di tanti sopravvissuti, Ja lingua di Goethe e Marx, di Brecht e Bonhoef.fer, si era impressa una volta per sempre con l'accento di Hitler, di un ufficiale delle SS, Ja viva voce di chi aveva comandato 1a strage, ucciso l'amico o H familiare, bruciato paesi e seminato il terrore, la voce dell'aguzzino con potere di vita e di morte dal quale solo il caso li aveva ,scampati. Non basta una vita per superare certi traumi. Non dovremmo ben più a ragione provare tutti un orrore, una nausea invincibili alla sola vista d'un aereo, al solo sentirne il rombo? Invece ci siamo abituati a convivere tranquillamente con questii.mostri e a servircene, fiduciosi e compiaciuti. Ma com'è possibile non avvertire già nella forma stessa del più apparentemente innocuo aereo da trasporto, nel rumore assordante che produce, nella folle sproporzione tra il prodigioso quoziente di tecnologia che vi è incorporato e la superfluità del servizio che assolve, per non parlare dell'enorme quantità di car,burante che divora, com'è possibile non riconosce.re l'immagine della disumanità, della brutalità, dello spreco criminale, il volto minaccioso del nemico totale? Se Lewis Mumford poteva affermare che « fa produzione di ferro procedette di pari passo con 1o s,parg~mentodi sangue», che cosa si dovrebbe dire de1l'aereo? Il ferro ha apportato an<::henormi benefici all'umanità. Ma l'aereo, a fronte degli ucoisi, quante vite ha salvato? a fronte della miseria, quanta -ricchezzaha ,prodotto? Nel caso dell'aereo, lo spargimento di sangue non è il prezzo ma l'obiettivo, non va scritto nella colonna dei costi ma degli utiH... Se in questi ultimi quarant'anni l'aereo ha fatto meno vittime che nei cinquant'anni precedenti, ciò dipende unicamente dalla circostanza che i cosiddetti Primo e Secondo Mondo hanno finora evitato lo scontro diretto, riservando morte e distruzione, terrore e miseria («tuoi doni, che a:ltronon sai donare ») alle periferie del Terzo e Quarto Mondo. Se quantitat!i.vamente ha prevalso l'uso« pacifico», qualitativamente l'aereo resta più che mai un'atma, anzi l'arma par excellence. La ricerca e la sperimentazione continuano a privilegiarne l'impiego bellico. Le risorse umane, tecnologiche, economiche investite allo scopo di perfezionare la sua capacità di offesa non hanno mai smesso di essere incommensuBiblioteca Gino Bianco 7

rabilmente superiiori a quelle destinate ad aumentare la sicurezza dei passeggeri. Mezzo secolo di uso quasi esclusivamente criminale è troppo per non fasciare un marchio indelebile, per non fissare definitivamente una vocazione e un destino. Né alludo a sortilegi o ad alcunché di arcano. L'aereo è sl una maledizione, ma ·rigorosamente voluta e governata dall'uomo. È un trionfo della ragione e della civiltà, il frutto meraviglioso del denaro e della scienza. Rappresenta il. sogno realizzato della volontà di potenza, lo strumento ideale per il suo obiettivo più ambizioso: l'autodistruzione totale. Il tiglio prediletto non tradirà le speranze. Fedele e infalHbile, attende l'ordine. Nota. L'Arimane del titoletto è la mitica personificazione del male nell'antica religione iranica cui Leopardi intendeva dedica,re un inno. Ne resta l'abbozzo, che comprende pochi ver.si e una fitta pagina di appunti. Da questo frammento ho tratto la citazione che figura nel penultimo capoverso. Contro 1 a no i a . La nostra simpatica amica sosteneva che le persone capaci di apprezzare la buona cultura non sono scomparse, anzi sono più numerose che non venti e ,più anni fa. Carlo Cecchi ed io eravamo invece dell'opinione che gusto e facoltà critiche non avevano fatto che abbassarsi e che questo processo era inarrestabile. Ma allora, insisteva l'amica, a chi ci rivolgevamo? che senso aveva che Cecchi nel lavoro teatrale e io in quello pubblicistico cercassimo di fare del nostro meglio? Il problema non era da poco, ma la situazione •inadatta a un serio svolgimento: il fervore dell'amica un po' petulante, faceva caldo ... Per cui, senza negare del tutto una qualche fede o speranza nell'efficacia deHe nostre attività, Cecchi ed io ci limitammo a replicare che si continua a fare il proprio lavoro perché non si saprebbe fare altro, e che lavorare è meno noioso di non far.e nulla, e lavorare bene meno noioso di lavorare male. Cecchi citò in proposito un bell'aneddoto su Eduardo De Filippo. Qualche anno prima, trovandosi a Milano e saputo che Eduardo vi rappresentava una commedia, Cecchi volle 1incontrareper un saluto il vecchio maeBiblisiteca Gino Bianco

stro. Al telefono il figlio Luca gli disse che dalle cinque pomeridiane in poi il padre era sempre in teatro. Quattro ore prima della recita! Non riuscendo a darsene una ragione, convinto d'aver capito male, Cocchi aspettò le sei prima di andarci, ancora dubitando di trovarcelo. Ma l'ottantenne Eduardo c'era già, nel teatro buio e deserto, solo, come Geppetto dentro la balena, era 1l che aspettava nel camerino tamburellando nervosamente con le dita sul piano del tavolo. Cecchi non ebbe neanche bisogno di formulare l'ovvia domanda, dalla sua espressione stupita e interrogativa il vecchio capl subito: « Mi scoccio tanto, - disse, - che non vedo l'ora che cominci lo spettacolo! » C h e c o s a s 1 v u o 1e c a m b i a t e . Chiacchiere di stagione con un vecchio compagno: il congresso del Pd, le imminenti elezioni amministrative ... Cerco di portarlo a convenire con me che ormai l'omologazione dei valori è totale e che non c'è. nel Pci, né in akuna altra forza politica d'opposizione, la minima idea e la minima volontà di cambiamento. Il vecchio compagno è rimasto - caso raro - il ,ragazzodi trent'anni fa. Non ha mai perso la fede né il gusto della militanza: nel Pci, con cui ha spesso avuto aspri scontri senza mai abbandonarlo, e in qualunque nuova causa o istanza purché di sinistra, dal movimento studentesco ai radica1i, dai palestinesi ai sandinisti, dalla teologia della liberazione ai verdi; da sempre all'opposizione senza averci mai guadagnato niente (neanche il prestigio di piccolo leader locale); invulnerabile a tentazioni di carriera e soldi, povero ,senza invidie o risentimenti. Non controbatte i miei argomenti, sembra condividere le mie constatazioni. Alla fine, prima di sa1utarci, mi dice: « Lo so che non c'è da aspettarsi niente da questi qui, anche se continuo a votar,li. È da una vita che ci litigo, a molti gli ho tolto la stima... » Una pausa, e poi con un sorriso che non .1,1iescaed essere amaro: « Ormai desidero solo questo, che le stesse cose che fa la nostra giunta comunale di pentapartito le facesse una -giunta rossa, e le stesse cose che fa il governo di Andreotti e Craxi 1 le facesse un governo con Occhetto e Ingrao ... Di più non posso sperare, ma mi basterebbe ... » Credo che le sue ingenue, disarmate parole esprimano sinceraBiblioteca Gino Bianco

mente il sentimento e la convinzione di moltissimi uomini e donne di sinistra, dall'operaio al ,padroncino, dalla casalinga all'intellettuale. Ma quanti di costoro (di noi) ne sono consapevoli e disposti ad ammetterlo? Per quanti di noi, e in che misura, il. fatto che non si voglia il cambiamento -rappresenta una sconfitta, una delusione, un rimorso, o non coincide invece con i nostri interessi? Da quanto ,tempo le cose stanno in questi termini? U n p a r e n t e i n s o s p e t t a t o . Il bicentenario della Rivoluzione francese, a parte le celebrazioni e gli studi, le mostre e le pubblicazioni, ha acceso anche qualche scaramuccia giornalistica, sortite strumentali, interventi a effetto, soprattutto nel giro politico. S'è rispolverato il vecchio gioco delle ascendenze, affinità e !i.dentificazioni, giustificato dal fatto che l'arsenale di concetti, simboli e termini con cui ci si trastulla non è quasi cambiato nei due secoli che ci separano dal grande evento: Libertà, Eguaglianza, Fraternità, Volontà generale, Diritti, Cittadino, Nazione, Rivoluzione, Reazione, Controrivoluzione, Terrore, Vandea, Termidoro, Bonaiparnismo eoc. ecc. Per limitarci a un esempio, il Pci che sempre aveva preso le distanze da Robespierre e Saint-Just, ancor troppo «borghesi», scavalcando d'un colpo i giacobini, preferisce ora apparentarsi ai gkondini, come già il craxi~socialismo. L'abbandono di Marx e Lenin è nulla, se siamo arrivati a sentir deplorare da intellettuali comunisti la condanna di Luigi XVI ... Ma il gioco, solo che lo si porti un po' a fondo, rischia di farsi imbarazzante davvero. Anni fa, leggendo le Memorie d'oltretomba, ero irimasto colpito da certe coincidenze e parallelismi. Nelle velleità e impuntature politiche di Chateaubriand, nel suo servire con riserva e controvoglia una causa (Napoleone, i Borbone) mentre ambiva tutt'altro, nei suoi orgogli e moralismi, nella sua perenne frustrazione, ritrovavo alcunché di familiare. Un certo intellettuale di sinistra continua a vivere un sogno (la Rivoluzione, i suoi Profeti, i suoi Martiri) che assomigliianon poco alla mitologia di Chateaubriand. Non c'è dubbio che in questo secolo la Tradizione culturale più ricca, più nobile, più legittima è rappresentata dal marxismo. C'è stata anche 10 Biblioteca Gino Bianco

una Rivoluzione: la radicale trasformazione dell'ultimo trentennio operata dal capitale e dalla Dc, cont,ro la sinistra, che fedele alla Tradizione non ha mai capito la portata e le conseguenze di quanto succedeva e ne è stata progressivamente svuotata e marginalizzata. Robespierre e Marat furono sconfitti, ma la Rivolu~ione l'avevano fatta. I bolscevichi, anche. Noi, come Chateaubriand, l'abbiamo sublta. Se alcuni di noi cercassero nel gran guardaroba di quell'epoca un costume da indossare, credo che non gli andrebbero bene né quello giacobino, né il girondino, né il termidoriano ... Ho paura che il meno inadatto alla nostra taglia sarebbe quello legittimista. Penso agli émigrés, la nobiltà travolta dai nuovi ricchi; fingevano che la Rivoluzione non fosse ma,i avvenuta, erano orripilati dalla volgarità dell'Impero e fantasticavano la Restaurazione degli antichi valori: come qualcuno, oggi, l'eguaglianza, la giustizia, il socialismo... Il conservatorismo liberale e il romanticismo cristiano di Chateaubriand, che non ebbero effetto alcuno sugli ,sviluppi politici della Francia, non differiscono troppo dalla fedeltà di una certa sinistra a una cultura tramontata. D i u n s e p o 1c r o . Costruita a ridosso della chiesa di San Nazzaro, nella piazzetta omonima che interrompe il corso di Porta Romana, la cappella Trivulzio ne eclissa totalmente la facciata. Il prepotente edificio rinascimentale imposto dal prestigio e dal denaro di Gian Giacomo Trivulzio è diventato l'atrio e l'accesso obbligato dell'antica basilica (bisogna fare un lungo giro intorno all'isolato per ritrovare nell'abside le originarie forme romaniche). All'interno della cappella, a pianta ottagonale, dentro grandi nicchie a una decina di metri da ter.ra, sono collocati otto sarcofaghi. Al posto d'onore, di fronte alla porta d'ingresso della cappella e sopra quella che immette nella chiesa, sta lui: Jo. JAconus MAGNUSTRIULTIUS- ANTONII FILIUS - QUI NUNQUAMQUIEVITQUIESCIT- TACE.L'iscrizione non ha bisogno di ricordare il governatore di Milano, il maresciallo di Francia, il vincitore di Agnadello e Marignano, titoli e imprese assorbiti e trascesi nell'appellativo « Magnus ». È anche l'unico degli· otto sepolcri a fregiarsi di un'epigrafe. Le altre lapidi si limitano a mBiblioteca Gino Bianco 11

dicare il rapporto di parentela dei morti con Gian Giacomo, il cui nome echeggia r,iipetuto in ognuno dei sette sepolcri che gli fanno corona: dovendo bastare a questi la gloria d'esser stati « Magni Triultii uxor prima », « uxor secunda », « pater », « filius », « uxor filii » ecc. Da cinque secoli il condottiero riposa, come oe Jo mostra Ja statua giacente che completa il sarcofago: dimessi elmo e corazza, l'uno al fianco òrcondato dal braccio, l'altra sotto la testa, le gambe accavallate. Ha gli occhi aperti e non rivolti al cielo ma girati verso il centro della cappella. A dispetto della secca, imperativa clausola dell'epigrafe («tace»), il Magno Trivulzio sembra gradire i rumori della vita che gli giungono attutiti dalla piazzetta e nello stesso tempo il suono dell'organo, i canti e le preghiere dalla chiesa, e ancora l'omaggio incessante dei fedeli che non possono non passare sotto di lui. Da cinque secoli ascolta, inaccessibile e partedpe: quale maggior privilegio? Non invidio nulla ai grandi della mia epoca, né H potere né la r,icchezza,né i palazzi né i jet né gli spassi, né il timore che incutono né la popolarità. Sono invece sensibile, talvolta, ai segni della grandezza antica. Dove sarò buttato da morto? Farsi cremare, solo per sottrarsi allo squallore delle nostre cappelle funerarie, le fosse, i col0il11bari...Disponendo di un tal sepolcro... Mi scuoto: che cosa te ne importa di dove starai da morto? Dato che sarai nulla, perché mai dovtest,i fingerti, farti passare per qualcosa? Che sciocchezza... Ma intanto le tombe Trivulzio m'hanno affascinato, suscitando stupore e ammirazione. Reagan o i1 Papa, Agnelli o Getty non m'hanno mai dato la minima emozione, neanche per un secondo. P a d r i e n o n n i . Vedo la prima ,puntata di una riduzione televiisiva (inglese) di Com'era verde la mia vallata. Non conosco il romanzo di Llewellyn, da cui è tratta, e il lontanissimo ricordo del film di Ford mi si confonde con altre storie cinematografiche (anche La cittadella, da Croni,n). La sensazione comunque è di muover,mi dentro un qua:dro familiare: il distretto minerario gallese tra la fine dell'Otto e gli ·1nizidel Novecento, il capofamiglia rappresentante la prima generazione operaia che non intende aderire allo sciopero, sconBibli~teca Gino Bianco

trandosi duramente con i figli sindacalizzati. .. Ma l'ostilità del padre ai nuovi valori non è riducibile alla mera difesa della posizione raggiunta e al dispetto per la perduta autorità (i figli emanci,pati non Jo rispettano come lui vorrebbe, come lui ,ris•pettava-temeva suo padre). C'è anche questo, ma non è tutto. Un'·accusa t1pica del genitore ai figli è di ripetere pappagallescamente formule di altri (e anche di parlare troppo: la sua generazione pesava le parole, come ogni cosa). Che è vera, alla lettera. Il suo rifiuto di associarsi, la sua diffidenza per l'istituto della delega non esprimono solo il timore di declassarsi (regredendo nella massa, da cui lo distingue il grado di caposquadra, guadagnato in anni di fatica, applicazione, sacrifici) e di non essere tutelato convenientemente. Dietro le preoccupazioni economiche e di status, alla base della sua resistenza c'è una concezione « religiosa » della persona. C'è la ripugnanza di principio a spossessarsi di sé. La caparbia difesa della propria individualità e autonomia non è capace di vedere, dello associazionismo, i valori solidaristici né i vantaggi pratici (rafforzamento della capacità contrattuale), ma intuisce fin troppo bene la deresponsabil.izzazione che pure ne consegue. Non c'è dubbio che il vecchio è il risultato di un'esperienza più forte e profonda di quella dei figli. Egli s'è fatto da sé, nel senso che ogni sua conoscenza, abilità tecnica, ogni suo pensiero sono il frutto di uno sforzo personale, di una sperimentazione diretta. È paragonabile a un manufatto che abbia conservato la coscienza di tutto il lavoro materiale e intellettuale impiegato ,per arrivare al prodotto finale a partire dalle materie prime (il ferro, il legno). È un prototipo, mentre i suoi figli nascono già come dei semilavorati. In attesa dei trionfi dell'istruzione obbligatoria, della stampa popolare, del cinema, della televisione, della pubblicità, già le prime scuole pubbliche, i manualetti di fo11mazione professionale, il servizio militare e la stessa cultura sindacale cominciavano a sfomare, se non ancora prodotti in serie, uomini a personalità e responsabilità limitata. Sabotando fo sciopero, oggettivamente il vecchio tradisce la sua classe. Ma sarebbe scorretto liquidarlo come « servo del padrone». Interessa invece capire il suo particolare rapporto col lavoro. Il lavoro che svolge è cosa sua, egli lo conosce, lo possiede pienamente per averlo appreso attraverso un lungo tirocinio, perché « ci ha mesBiblioteca Gino Bianco 13

so l'anima», cioè cuore e cerveHo. E sua egli sente fa miniera, in cui ha speso il suo lavoro, che è lui stesso, la sua v;ita. Per i Hgli, un lavoro vale l'altro, una fabbrica vale l'altra, e quel che importa è il salario. E-proprio in ragione cli questo rapporto organico che lo lega alla miniera, è probabile che il vecchio ,sia, nella sostanza, molto più ostile a.I padrone (pur rispettandolo) che non i figli, per i quali, ancora, un padrone vale l'altro. Altrettanto è ostHe al socia,lismo,che i figli identificano in un partito, in una dottrina, in una tessera. Ma se per socialismo intendiamo, molto semplicemente, autogestione dei produttori, non c'è dubbio che, senza saperlo, il vecchio ne incarni lo spirito e il progetto molto meglio dei figli. Il vecchio avverte in modo rozzo e confuso che i,l sist·ema industriale corre iirresistibilmente verso la divisione e la spersonalizzazione del lavoro, e in modo rozzo e confuso vi si oppone. I figli hanno chiara coscienza del p_rocessoin corso e gli sta bene; ma solo perché sono già il prodotto di questo processo. La loro migliore istruzione, anziché emanciparli, gli serve per credere a ciò che il dominio vuole che si creda, il dominio camuffato da oggettività scientifica. Lo sviluppo tecnologico consendrà l'aumento dei salari, la ,riduzione dell'orario, le ferie pagate {ma quante lotte e sacrifici, quanto dolore e sconfitte, per ottenere queste briciole!), ma ridimensionerà drasticamente il ruolo della classe operaia: che da un secolo ha visto progressivamente diminuite 1a :sua capacità di partecipare e intervenire nel sistema produttivo: Fino a ridursi, oggi, a zero. Anche a furia cli delegare, dividere, spersonalizzare, l'espropria~ione che il vecchio temeva s'è compiuta. Né ciò riguarda i soli operai, siamo tutti privati del diritto di sapere, controllare, decidere. Siamo degli zeri, degli zeri programmati e, per colmo d'konia, soddisfatti. Il vecchio, sorpassato e vinto, era ancora un uomo. Il tipo di rapporto vecchi-giovani sopra esemplato, e il conseguente giudizio, non ha valore generale. Anzi, rappresenta un'eccezione. Nella storia infatti prevalgono temporalmente i periodi di stabilità sociale, nei quali i vecchi s.ilimitano a trasmettere conoscenze e comportamenti (sempre gli stessi), sicché non si dà quasi differenza tra una generazione e l'altra, e H conflitto generazionale si riduce alJa !Semplice(anche se spesso terribile) questione di chi comanda e di Bibh teca Gino Bianco

chi ubbidisce. Conflitto nel quale il giovane che si batte per uscire dalla soggezione (salvo poi assoggettare a sua volta i figli) impersona un'istanza « progressista » Dispetto al vecchio che difende il suo privilegio. Ben altrii:menticomplesso è il conflitto generazionale quando si svolge dentro un conflitto sociale, in un periodo di grande trasformazione delle forme produtti,ve. L'esempio sul quale mi sono soffermato si -riferisce a una di queste particolari fasi storkhe. Quanto alle ultime generazioni, non credo avrebbe senso ipotizzare una esperienza diversa e più ricca dei padri rispetto ai figli. Benché le cose non abbiano fatto che peggiorare, la formazione di chi oggi ha quaranta-cinquant'anni è avvenuta già ben dentro il processo di modernizzazione, e quindi è dubbio se abbiano più da insegnare o da imparare dai loro figli (e comunque ciò che può passare dagli uni agli albrl, in un senso o nell'altro, è sempre poca, povera cosa). Piuttosto, chi oggi ha cinquant'anni dovrebbe fare fo sforzo di ricordarsi dei propri genitori e nonni per avere coscienza di un modello umano e sociale diverso (,se migliore o peggiore, è opinabile). E capite cosi qualcosa di ciò che è avvenuto, e come e perché. Paga '1'e 1 e tasse . Mi pare che nell'Esegesi dei luoghi comuni Léon Bloy abbia dimenticato « Io pago le tasse! », ,locuzione ancora abituale ai tempi della mia giovinezza, oggi meno usata ma sempre radicattlssima neHa mentalità delle classi alta e media. Era il grido di protesta che prorompeva spontaneo dal petto del borghese quando si sentiva truffato dal disservizio, maltrattato o anche solo sottovalutato dal d1pendente statale: ho pagato per questo servizio e pretendo che funzioni; contribuendo al suo stipendio, esigo solerzia e -rispetto... Poteva essere anche un modo per dispensarsa. da offerte, elemosine, collette: ho già dato, ho assolto a tutti i miei doveri sociali... Ma quell'espressione implicava anche il vanto di aprpa'1'tenereal ceto superiore. Pagare le tasse, nel secolo scorso, era privilegio della alasse padronale, e solo i contribuenti godevano dei pieni divitti politici. Ora rtutti possono votare e tutti dovrebbero pagare le tass·e. NesBiblioteca Gino Bianco 1.5

suno lo fa volentieri, ma gli unici a pagarle nella m1surastabilita sono i salariati. Eppure non ho mai sentito dire su quel certo tono da un operaio: « Io pago le tasse! » Mentre gli unici che, seppur meno frequentemente, continuano a sbandierare quella vecchfa frase fatta, sono sempre i proprietari, gli imprenditori, i profession1sti, i commercianti, cioè proprio coloro che le tasse non le pagano o comunque le pagano in misura molto inferiore al dovuto. Più correttamente e opportunamente, oggi H grido di protesta, il motto orgoglioso, il marchio di garanzia del ricco dovrebbe essere: « Io evado le tasse!» D a 1 f a c e t o a 1 s e r i o . Vecchio amico di mio padre, ricco scapolo soddisfatto, il notaio P. mi aveva in simpatia e mi trattava un po' come un figlioccio. Capace, incontrandomi ii.npiazza, di prendermi sottobraccio e portarmi al Caffè I ta1ia dove a tutti i costi dovevo accettare un vermouth, un bicchierino, una bibita. Mi chiedeva amabilmente dei miei studi di legge: « Che cos'è l'enfiteusi? ... la domanda niconvenzionale?» Non aspettava ,le risposte. « Bene, bene, » ridacchiava. Passava alla politica, lanciava blande frecciate a un ministro, a un giornalista. « La riforma agraria, che sciocchezza! » Sempre scettico e divertito, commentava qualche caso di cronaca locale. « Avrebbe potuto vivere da signore senza far niente. Invece aveva la smania di lavorare. Così, a ,furia di rindustriarsi, è fallito, povero imbecille! » Ridacchiava sbuffando il forno del sigaro e spruzzando saLiva. « Che commedia, la vita! » Scuoteva i'l capo ridacchiando. « Che commedia! » Poi, di colpo, i suoi occhietti dietro gli occhiali d'oro perdevano l'abituale brillìo malizioso, mi fissavano serì con intensità, la voce passava dall'&larefalsetto a un tono grave: « Mio giovane amico, ascolta chi ha vissuto un bel po' d'anni: se risparmi una lira, la ritrovi. Ma se risparmi una chia-va-ta, non la ritrovi più ... Ogni lasciata è per-du~ta! » Biblib1eca Gino Bianco

Innocenza. Mi dice che è morto R., e per tutto commento: « Non ha mai fatto niente», ma con indulgenza, senza alcun disprezzo. R. era un uomo assolutamente privo d'aimbizioni, salvo per la cura del suo aspetto: sempre in ordine, perfettamente rasato, mai ooa piega o un capello fuori posto. Ben fotto, quo21ienteintellettuale minimo, immaginazione zero, ottimo carattere, salute di ferro. Sempre gioviale, comp1imentoso. Scapolo. La sua vita si svolgeva prevalentemente al caffè. Campava un po' alle spaHe della famigliia (per la verità si offriva di dare una mano nel negoMo del fratello, ma questi preferiva allunga11gliogni tanto quakosa purché si togliesse dai piedi) e integrando una piccola rendita con modestissime mediazioni: pur non capendo nulla d'affar,i, qualche compravendita di auto, di mobili e quadri, qualche affitto di locali li concludeva. Innocuo e ottimista, non concepiva che gli altri potessero nutrire cattivi sentimenti o commettere cattive azioni. Di lui si raccontava un grazioso aneddoto. Tanti anni prima aveva fatto da padrino della Cresima a un nipotino. F1 inita fa cerimonia in chiesa, tocca a lui, secondo l'uso, occuparsi del figlioccio f.ino a sera. Lo porta in una pasticceria, a spasso ai giardini pubblici, a un pa~o di divertimenti ... Poi - com'è sua abitudine dei giorni di festa - v,a al caStino,sempre tirandosi dietro il ragazzo vestito alla marinara con la bianca nave di cattone a tracolla. E lì, col suo beato, perenne sorriso: « Siora piitana, la g'ariss mla 'na rpiitanéina p',r ,al ragazzéin? » Non capivo perché li facesse tanto ridere, come una qualunque barzelletta oscena, 1a storiella del vecchio finocchio che, .sorpresa una prostituta ment·re in un buio vfale periferico sta pompinando un bel ragazzone, la implora: « Famm tirà un golòn! » Il « golòn » nel nostro dialetto è la sorsata di vino. Un po' anche a me, per favore ... Come hl. ragaz21inoche non tesiste alla vista d'un compagno che sta leccando un gelato o fumando una cicca. Fammi assaggiare, soltanto una boccata, ti prego ... I -ragazz,ie i vecchi non nascondono i foro gusti. I loro desideri sono sempre urgenti, improrogabili. Non si vergognano di mendicare il piacere. 17 Biblioteca Gino Bianco

C h i s i a m o ? Da dove veniamo? Dove andiamo? Ci sarà posto? B t e m a n o n è ,in d i ff e re n t e . Un cr1t11Co,un biografo, un filologo sono giudicati amitutto dall'oggetto del loro studio. Il quale potrà esser svolto con maggiore o minore impegno e intelliigenza, ma prima del come .1nteressa la cosa. Che, rper esempio, qualcuno dedichi H meglio del suo sapere nonché una parte cospicua della sua esistenza alla rJcostrumone biogradiicae/o all'esame dell'opera, che so, di Marinetti, questo per me è peggio d'un indizio negativo, è una ,prova definitiva a suo carico. (Va da sé che rH compilatore di opere generali dovrà occupars,i anche, ,per restare all'esempio, di Marmetvi e assegnargli il posto che gli spetta neHa storia delle 1dee, delle forme, del costume: e qui varrà il come. E un ,recensore di professione dovrà trattare autori buoni, meno buoni e pessimi, ché propri.o in quesito - nel diverso giudizio che ne dà - consiste il. senso del suo lavoro. Parilo di chi dedichi a un'opera, a un personaggio, un interesse e uno spazio pdviilegiati, i cosiddetti special,isti). Ma come, - sento già le proteste, - il « rivoluzionario » Maru:nett,i!l' « avanguardista » ! l'unico grandiss,imo « avanguardista » della nostra cultura! E poi, - altra obiezione, - a parte il caso Marinetbi, la questione è di prindpio: in un'ipotetica situazione degli studi in cui oi fosse pieno accordo sui valori, tutti vorrebbero occuparsi solo del meglio. Cosl come, nel comunismo perfetto, chi farebbe più i lavori umili, le basse opere? Tutti vogliono fare il poeta e nessuno ,il cailzolaio, 1 si Jagnava già Goethe. E Burckhardt, angosciato dal benessere crescente: « Chi carkherà hlletame? » Fosse vero, maledizione! Maga11inon si trovasse ,più nessuno disposto a occuparsi del letame, salvo il proprio! La verità è che l'oroine etico-culturale e l'assetto sociale in cui questo tipo di problema sarebbe d'attualità, anziché avvJcinar,si,si allontanano sempre di ,più. Mentre si storce iil naso dal letame fisiologico, ai si dedica appassionatamente a produrre ,le18 Biblioteca Gino Bianco

tame superfluo in quantità sempre maggiore, esaltandolo e propagandandolo. In un mondo ,sempre più simile a un'immane pattumiera, i cukori di Marinetti sono solo destinati a crescere. Nota. Per dare un'idea dell'opinione corrente su Marinetti da parte della critica più « avanzata », « moderna », « autorevole », ritengo utile riportare alcuni stralci da un articolo di Renato Barilli ( « Corriere della Sera», 26 novembre '87). Non è la prima volta che prendo a bersaglio Renato BariUi. In verità egli è l'esponente meno odioso della scuola o tendenza cui appartiene. Più rozzo, se vogliamo, ma anche più onesto, egli dice esplicitamente ciò che i suoi confratelli dicono in modo fumoso e furbesco, pur credendo negli stessi valori e praticando gli stessi metodi. Barilli ci risparmia la fatica di interpretarlo o, come s'usa dire, smascherarlo. Basta citarlo: « Ma qui sta il grande merito storico di Marinetti: l'aver inventato la formula dell'operatore totale, capace di apprestare un sistema d'idee a 360 gradi, pronto a rispondere su ogni problema culturale. Un erede del " Gesamtkunstwerk "lanciato ai suoi giorni da Wagner, ma emendato dagli aspetti ottocenteschi, riveduto e corretto alla luce delle nostre esigenze, e soprattutto della imrpane rivoluzione tecnologica del '900. Noi italiani dobbiamo rivendicare con la massima fermezza il vanto di aver partorito questo specialista della non specializzazione, che per esempio non ha eguali in Francia. Gli Apollinaire e Jarry non possono reggere al confronto, e si stenta pure a trovarli in Inghilterra o in Germania [ ... ] Forse un certo ritardo nostrano ha consentito che un individuo di grande talento facesse il balzo in un colpo solo. [ ... ] « Fatto sta che Marinetti inventa la figura del predicatore di una rivoluzione totale .i:n cui gli aspetti estetici si fondono inestricabilmente con quelli socio-politici. [ ... ] « Per il suo interventismo non c'è neppure l'alibi " etico ", che invece fun:dona a meraviglia nel caso di Jahier, di Gadda e di Comisso: questi vanno in trincea volentieri per solidarizzare con l'umile soldato d'Italia, per narrarne l'epica sommessa di sacrifici a non finire. Il capofila del futurismo, invece, ci va con ferrea coerenza per assistere alla prova generale della nuova guerra tecnologica. « E troviamo cosi l'inevitabile collusione 'Col fascismo, nei cui confronti Marinetti può vantare sicuramente molti titoli di anticipatore e di " suggeritore ". Ma si tratta a sua volta di un fascismo considerato nel suo aspetto rivoluzionario, " movimentista ", volto a costituire una Repubblica fondata sull'adstocrazia dei meriti da lavoro, da attività artistiche, da BibliotecaGino Bianco 19

opere di ingegno. Repubblica rigorosamente laica, dinamica, proiettata ad ass,imilare le nuove frontiere tecnologiche. Non si contano invece i tradimenti che poi il regime mussoliniano recherà a una simile utopia [ ... ] « Marinetti dunque come eroe sconfitto, perfino nell'azione? Ma la nostra età elettronica è ancora intenta a rimuginare sui medesimi problemi politici: come conciliare il grande numero con l'individualità, la democrazia con l' " inegualismo ", col diritto di ciascuno di esprimere il meglio di sé e di arrivare all'arte, o meglio all'esercizio integro e intenso delle proprie capacità estetiche, sessual~, sensoriali. Per questo verso la rivoluzione marinettiana è ancora attuale. » « Z o n a s a c r a » . Il Sacrario di Pocol, sopra Cortiina d' Ampezzo, è uno dei tanti dmiteri e ossari militari esistenti nel Veneto e nel Friuli (,Hpiù famoso è quehlo di Redipuglia). Costruiti negli anni Venti e Trenta, raccolgono una parte di quei seicentomila morti che furono il prezzo pagato dall'Italia per la guer,ra '15-18. « Zona sacra » si autodefinisce i:l ,luogo per appoSiitocartello. « Visitatore, - ammonisce altro cartello, - rispetta questo luogo. Ricordati che coloro che qui riposano si sono sacrificati anche per te. » E ancora, un elenco di norme: « È dovere dei visitatori osservare reverente contegno ( ...) Non è consentito: l'accesso alle persone non decentemente vestite; apporre firme, scritte (...) fumare, cantare; (...) consumare pasti e bevande (...) ; introdurre animali anche se condotti a guinzaglio; introdurre nel Sacrario bandiere e simboli di partiti o di associazioni a carattere politico-sindacale. » Attraverso un viale scavato nella roccia si arriva a una terrazza naturale che s,i affaccia sulla valle, dove sorge il monumento: una grande torre quadrata alta una cinquantina di metri posta su un basamento a due ripiani pure quadrati, tutto in blocchi di bella pietra, la stessa che forma le soprastanti Dolomiti. L'opera, informa il libretto acquistato dal custode, è stata eseguiitanel 1935 su progetto dell'ing. Giovanni Raimondi. All'interno, le pareti perimetrali sono completamente occupate da migliaia di loculi recanti :ii! nome e ,i.l grado dei caduti, alternati a lapidi molto più grandi di~tro le quali sono tumulaiti a gruppi di centinaia gli ,ignoti. Comples,sivamente i mil.ita:l'iqui sepolti ,sono poco meno di dkcimila, dei qua1i circa la metà <ignoti B 'bl' io G' s· 1 1 teca ,no 1anco

(proporzione impressionante, che dice abbastanza sul come di tante morti, nonché s,uJlungo abbandono dei cadaveri). I1 Sacrario, pur pagando il tl'libuto ai valo11ie allo stile dell'epoca, ha una sua dignità. Imponente ma severo, senza sovraccarichi né architettonici né verbali (niente a che vedere con le sfrenatezze di Redipuglia). Per cui colpisce come una stonatura la lapide per un caduto che mi accoglie appena oltre il portone: MARIO FESTA A.NsIO (sic) DI AVVENIRE MA EBRO DI SACRIFIZIO SCAGLIO' LA SVA FORZA VENTENNE DI LA' DA TVTTI I CVLMINI EROICI CHE ALL'ANIMA SVA NOVELLA DATO AVEANO IL COMANDO DI SVPERARLI SANTAMENTE OBBEDITO IN QVESTA TERRA DI FVRORE DOVE EGLI RICADDE RAGGIANTE DI SANGVE PER RIMANERVI IMAGINE DI LVCE GABRIELE D'ANNVNZIO COL DI LANA 21 OTTOBRE 1915 Può anche darsi che Mario Festa fosse « ebro di sacrifizio » (ma aveva vent'anni; il Vate nel '15 ne aveva cinquantadue), certo non lo erano la quaSii.totalità dei diecimila morti qui raccolti, per ii quali quelle parole suonano bestemmia e irrisione, come l'epitaffio dettato dall'assassino sulla tomba delle sue vittime. Questo vale, beninteso, per qualunque forma di onoranza che ,iil potere tributa ai caduti. Ma, come proprio questo Sacrario testimonia, c'è modo e modo. L'ipocrisia è sempre preferibile all'indecenza. Tutt'altro che dannunziana è infatti l'inconsueta nudità dell'insieme. Nello spazio circostante sono collocaci.alcuni cannoni, obici e mortai, arimi vere usate in quella guerra. Le uniche aggiunte ornamentali sono, all'esterno, due grandi bl.15timarmorei di a1 lpini, che fanno pensare a sentinelle irrigidite per sempre dal gelo aJ loro posto di guardia, e nella cripta fa statua di un soldato in posizione orizzontale: fredde, grevi, rinequivocheimmagini di morte, che è il primo se non l'unico Sii.gnif.icatoche questi luoghi dovrebbero esprimere. Biblioteca Gino Bianco 21

Inoltre, sulle pareti rocciose che deHmitano il viale d'accesso sono inserite quattordici tavolette in bronzo rappresentanti la Vfa Crucis (opera di Giannino Castiglioni). Che dovrebbe ·suggerire l'analogia sub1imatoria e edificante: come Cristo è morto volontariamente per la salvezza del'l'umanità, cosl questi soldati si sono ,sacrificati per la salvezza deH'I talia ( « ·Ti.scatto » e « 1.'edenzione » sono tenmini cari alla retorica patriottico-militarista; « guerra di redenzione » era definito hl. conflitto '15-18). Ma, al di là de1le intenzlioni, il s,ignificato analogico che s'impone è tutit'afovo: come quella dJ Cristo, anche la morte di questi uomini è massima ingiustizia, delitto inespiabile. La prima stazione della Via Crucis rappresenta La Condanna: nolil è forse l'equivalente della chiamata aUe armi? La seconda stazione, La Croce: Cristo cavicato dello s·trnmento sul quale dov.rà morire richiama ti.rresistibilmente il sO'ldatocui è sitata imposta ia divisa e sotto il peso dello zaino e dell'anmamento viene avviato al Ca1 lvario deHa t1"rincea. E così, passando per le rvarie Cadute, il destino di questii uomini è stata un'autentica Via Crucis di fatiche, privazioni, angosce e sofferenze di cci fa morte sarà la stazione finale. Mi p'are improbabile che l'autore fosse del tutto inconsapevole di una lettura cosl ovvia. Se l'atteggiamento d.i generazioni come fa mia rispetto al patriottismo era di diffidenza e ostiHtà, quello dei giovani d'oggi è, credo, di totale estraneità. Un altro mito definitivamente tramontato con l'uldma guerra, è l'Esercito: una catena di sconfitte umiHanti, conseguenza dell'ineHitudine, i•rresponsabHità e vigliaccheria degli ahi comandi, culminate nel supremo disonore del1'8 settembre. La tradizione militarista italiana è breve e modesta {salvo Garibaldi, che d'altra parte non era uscito da nessuna accademia): Laimarmora, Cialdini, Cadorna, Diaz, Caviglia... Gli ufoimi capi mHitari dotati di carisma sono stati Badoglio e Graziani (è tutto dire!), che erano già genemli nel '15-18 e del tutto inadeguati a runa guerra come l'ultima. La quale non ha espresso un solo comandante di qualche prestJigio. Nel dopoguerra gli italiani hanno amato e si sono ·riconosciuti in molte figure di politici, da Togliatti a De Gas,peri, da Nenni a Saragat, da Patri a La Malia, da Fanfani a Almirante, da Pettini a Benlinguer, e altri ancora; ma in nessun mHitare. Quel che resta di un certo amor pat·rio o orgoglio nazionale può ancora accendersi per imprese di calciatori o ciclisti, non cerito per ciò che oggi sono le nostre forze avmate, né Bi 1otecaGino Bianco

per simboli o memorie del passato. H giovane che oggi leggesse lo epitaffio dannunziano, che ha ancora i,lpotere di ri•vo'ltarmi, resterebbe più che altro a:1lihito, incapace di venirne a capo, come di fronte a un idioma sconosciuto. Non c'è pericolo che queste « zone ,sacre » vengano profanate da folle non decentemente vestite, schiamazzanti, dedite a merende e bevute, con cani sciolti o al guilllzaglio, come teme il severo cartello posto all'ingresso. Solo uno come me, che ·si trova eccezionalmente da queste partii e non a1::1asciare, detesta l'a1bergo, i bar, i negozi (la vita!), può avere di questi bisogni, di stare un po' coi .:morti per riprendere an1mo, consolandosi del presente con il passato, qualunque esso sfa. Ci sono venuto due volte e non ho mai trovato nessuno. Tra l'altro, ho potuto constatare che questo monumento, pur eretto con la volontà d'imporne prepotentemente la vista ('l'altezza della torre e la collocazione panoramica), in pochi decenni s'è amalgamato all'ambiente naturale, fino quasi a scomparire, mentre il paesaggio appare sconvolto da ciò che è stato costruito nel mezzo secolo successivo. Un tempo il mio senso etico e es.tetico auspicava la -sparizione di consimili monumenti: es.pressioni retoriche, glorificazioni del massacro. Oggi sarei disposto a battermi per conservarlo. Approvo che si spenda pubblico denaro ,per tenerlo in ordine e che si dia alloggio e stipendio a un custode. L'anacronistico Sacrario ha finito per diventare davvero « zona sacra », sottratta agli orrori del progresso. Se non ci fosse, lo spazio sarebbe occupato da alberghi, impianti sportivi, villette, discoteche ... Meglio, molto meglio lo stile onestamente accademico dello ing. Raimondi e dello scultore Castiglioni. Perfino un orrore come l'Altare della Patria, che ancora ,pochi anni fa avrei volentieri fatto saltare con la dinamite, se dovesse per qualche motivo scomparire, da che cosa sarebbe sostituito? Uno stadio? un ministero? un supermarket? un mega-parking? Con questa clas·se politica, questi capitalisti, intelJettuaH, artisti, architetti che ci ritroviamo, è possibile solo il peggio. Preferisco non rischiare. Mi tengo anche l'Altare della Patria. C a c c i a a 1 1e t t o r e . Non c'è quasi giorno in cui « la Repubblica » non sia costretta a qualche smentita o rettifica, che riBiblioteca Gino Bianco 23

guardano poi una minima parte degli errori che costellano fo sue pagine e i meno gravi. La scorrettezza e la sbadataggine, per non dire la crassa ignoranza, sono caratteristiche di tutta la nostra stampa, ma « la Repubblica» s'impone per abbondanza e «qualità». Chi avesse Jo stomaco di leggersi per una settimana un qualunque giornale (ma insisto: « la Repubblica» è meglio) dalla prima all'ultima pagina, a caccia di errori, resterebbe strabiliato dall'enormità del bottino. Invece non ci si fa neanche più caso. Solo qualche volta la corsa affannosa in cui consiste Ja lettura dei giornali, per consumare nel più breve tempo possibile questo radicato vizio, si blocca davanti a provocazioni particolarmente offensive, e per alcuni momenti consideri perfino se non sia doveroso dare una piccola correzione: un semplice segno di vita da parte di ohi non s'è ancora rassegnato alla tracotante asineria che spaccia informazione e cultura. Un esempio di incidente abituale, quotidiano, dalla « Repubblica » del1'8 agosto '89, rubrica « Lettere »: UNA FOTO SBAGLIATA Su « Repubblica » di domenica 6 agosto a corredo del servizio « Il ping-pong della morte », è stata pubblicata la foto del dottor Francesco Macrl, ex presidente dell'USL 27 di Taurianova, al posto di quella del dottor Enzo Macrl, giudice istruttore a Reggio Calabria. Ce ne scusiamo con gli interessati e con i letto11i. I1 giorno dopo, altra rettifica corrente, di ,routine, fisiologica: l'area metropolitana di Roma dal 1960 ad oggi non è passata, come si affermava in un articolo del giorno prima, da duecentomila a quattrocentomila ettari ma da ventimila a quarantamila ... Bagattelle! Anche i milioni che diventano miliardi, e viceversa, le confusioni fra Hre e dollari ecc. non preoccupano più di tanto chi non ha nulla da -investire. Più sgradevole che ne1lo stesso numero del 9 agosto, nel paginone centrale, un articolo riguardante Edmondo De Amicis fosse .illustrato con l'immagine di Francesco De Sanctis, sotto la quale la didascalia ribadiva, a scanso d'equivoci: « Edmondo De Amicis ». Anche se il ritratto è piuttosto noto, usato in storie letterarie, manuali e enciclopedie tascabili, non si pretende daLla ,redazione culturale di « Repubblica» che sappia qualcosa di De Sanctis, tanto meno le sue fattezze; quelle dell'autore di Cuore però sl. Chissà se lo scambio è Bib teca Gino Bianco

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