interrompe per cominciarne un'altra, e poi ancora un'altra. Vicende e personaggi si incontrano in qualche punto, quasi per caso. Si ha a volte l'impressione che l'intreccio si stia sviluppando, annunciando esiti significativi e drammatici. Ma tutto (realisticamente) resta incompiuto e sospeso. E il quadro che ne risulta è quello della presenza simultanea di diversi mondi, ognuno gremito di oggetti e .intessuto di regole invisibili e inviolabili. Ogni mondo è un punto di vista, e tuttri sono reciprocamente impenetrabili. Le connessioni esistono, le colpe esistono, sono colpe oggettive, abitudinarie, predeterminate, senza peccato e senza intenzione. Sicché l'iingiustizia può continuare, le responsabilità non riescono mai ad aprirsi un varco nella coscienza, e dunque, sebbene l'ingiustizia esista, « non ci sono colpevoli ». L'insopportabilità di questa disperata conclusione - che « non ci sono colpevoli» - è tale da spezzare il filo narrativo. Non si tratta delle tipiche digressioni a cui il lettore di Tolstòj è abituato, ma di brusche interruzioni, violente rotture di stile. Per due volte, a metà e alla fine, sopraffatto dall'esasperazione e dalla vergogna, Tolstòj deve abbandonare il racconto per prendere direttamente la parola. Si autoaccusa, cerca di definire ancora una volta la propria posizione, le responsabilità, i doveri che ne derivano. Esplode con le sue denunce, ma non si aspetta niente dall'evolvere della situazione rivoluzionaria. Non ha fiducia nell'attivismo dei militanti « rossi »: Njeustròjev, che li rappresenta, ha solo la sorda dirittura del piccolo borghese risentito. E niente può venire dall'attitudine tollerante, proba e gioviale dei conservatori illuminati: di fronte al giovane obiettore di coscienza, Porchunov si irrigidisce, diventa insensibile e muto, e liquida abilmente il caso rinviando valutazioni e responsabilità « in altra sede ». Perfino i giovani intellettuali che hanno rinunciato alla carriera per scendere al servizio del popolo (come il generoso e idealista Solovjòv) non riescono ad entrare davvero nella vita reale degli oppressi e a farsi accettare da essi senza riserve. Ciò che resta è un'immobilità soffocante, una ferita aperta. Al racconto si sostituisce la confessione, e la narrazione diventa ancora una volta esame di coscienza, diario, denuncia diretta. Per Tolstòj, per l'ultimo dei grandi classici europei, considerato il culmine della narrativa ottocentesca e la guida di tanti intellettuali dell'epoca, la crisi - morale, letteraria e politica - non è più sanabile. Con la rude semplicità di un vecchio in fuga verso una vita più vera (e verso la morte), questa crisi è dichiarata, è gridata con una forza di cui nessun altro « autore della crisi » sarebbe stato capace. 83 Biblioteca Gino Bianco
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