Diario - anno I - n. 1 - giugno 1985

davanti ai sorrisi sospetti del personale vestito di bianco, fu presa dal panico. Si dovette immobilizzarla, ciò che aumentò ancora il suo terrore. Pure, mentre tenuta a forza bocconi sul lettino da due infermiere, la testa girata verso la siringa sospesa come se potesse ancora fermarla con la forza degli occhi e della voce, precipitava nell'abisso d'orrore, distinsi bene tra le urla disperate le parole: « Papà, il regalo! L'hai promesso! Ricòrdati! Il regalo! » L'insegnante di matematica in ginnasio era un uomo poco più che quarantenne devastato da una malattia contratta, mi sembra, in Africa. Una malattia incurabile, progressiva, che se lo mangiava vivo e avrebbe finito l'opera entro un paio d'anni. Si trascinava con l'aiuto di un bastone, ma ogni movimento, perfino il respiro, pareva costargli fatica e dolore. L'effetto era ancor più penoso perché quelle gambe che procedevano a sussulti, quel tronco rattrappito dentro abiti troppo grandi, quel viso stravolto da una smorfia di disgusto lasciavano intravedere, se anche non ci fosse stato detto da chi l'aveva conosciuto prima della malattia, di essere appartenuti a un bell'uomo, vigoroso, atletico addirittura. Durante le sue lezioni ci sforzavamo di tenere a freno la normale turbolenza dei nostri quattordici-quindici anni, con un riguardo che non avremmo riservato a nessun altro insegnante. Se la sua tragedia ci incuteva pietà, timore, rispetto, egli godeva anche del prestigio di aver giocato alla fine degli anni Venti per un paio di stagioni in una squadra di calcio di serie A. Talvolta, quando appariva meno sofferente del solito, ci azzardavamo a sollecitargli il racconto di qualche episodio di quella sua giovanile esperienza o lo chiamavamo a giudice delle nostre dispute sportive (il calcio era allora per molti di noi forse il massimo valore, quasi lo scopo dell'esistenza): lui, come rianimato e un po' commosso, non si sottraeva alle nostre affettuose pressioni. Senza però concedere nulla, neanche in quei momenti, al cameratismo. Ci trattava col «lei», come fossimo già liceali. Probabilmente la sua rigo,rosa imparzialità dipendeva dal fatto che realmente non ci distingueva l'uno dall'altro. Eravamo nomi, non persone: non gli 11 Bibliote.ca Gino Bianco

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