Diario - anno I - n. 1 - giugno 1985

Di e lrllO 1 .PiergiorgioBellocchio, Dalla parte del torto. Alfonso Berardinelli, Lessico. Soren Kierkegaard, L'Istante.

Rivista di Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli Anno I, n. 1, giugno 1985 Sommario PiergiorgioBellocchio, Dalla parte del torto 3 Alfonso Berardinelli, Lessico. Accademico, Complessità, Genio (e Genius), Semiologia 41 « Siamo tutti scrittori» (p.g.b.) 53 Novità librarie (p.g.b.) 56 Soren Kierkegaard, « L'Istante » 61 Redazione: c/o P. G. Bellocchio, via Poggiali 41, 29100 Piacenza. Tel. 0523 /23849. Amministrazione: Editrice Vicolo del Pavone Soc. Coop. a r. 1., via Romagnosi 80, 29100 Piacenza. Tel. 0523 /22777. Questo numero: lire 4.500. Abbonamento a 4 numeri: ordinario lire 16.000; sostenitore lire 30.000; benemerito, da 50.000 a 100.000 lire. Per l'estero, lire 30.000. Somme in denaro, assegni o vaglia postali vanno inviati alla redazione o all'amministrazione. Si può anche utilizzare il c.c.p. n. 188292 intestato a « Quaderni piacentini», via Poggiali 41, Piacenza. Trimestrale. Autorizzazione del Tribunale di Piacenza n. 352 del 6/6/1985. Direttore responsabile: Piergiorgio Bellocchio. Stampa: Editr. Vicolo del Pavone. Non contiene pubblicità. BibliotecaGino Bianco

Biblioteca Gino Bianco

DALLA PARTE DEL TORTO Chi è quell'imbecille? Sono io. Limitare il disonore. Un obiettivo che vent'anni fa avrei trovato ripugnante e assurdo, in quanto onore e disonore non sono graduabili. E in effetti si tratta di un proposito ben misero, una guitteria morale, una trovata da servo di commedia. Ma quand'ero giovane non potevo ipotizzare un fallimento di queste proporzioni. Se allora immaginavo il peggio, era la sconfitta politica per opera della controrivoluzione, e si manifestava nella repressione che, per quanto spietata (o proprio per questo), garantiva ai vinti l'onore dell'esilio, dèlla prigione e, al meglio, la gloria del patibolo. Il destino è stato derisorio. Nessuno vuole ucciderti. La razione quotidiana di offese che patisci proviene da istituzioni e persone animate dalle migliori intenzioni, e il trattamento a te riservato è più o meno lo stesso che tocca aUa stragran4e maggioranza della razza occidentale, che pare trovarsene bene. Per cui corri sempre il rischio di apparire (anche a te stesso) ·paranoico, snob, o semplicemente ridicolo. Così, per un po' subisci facendo finta di nulla, ev1ti le occasiòni, giri al largo, e ogni tanto reagisci. In altre parole, dopo aver incassato trenta o quaranta colpi, ti rintani in qualche angolo o buco dandoti per morto, in modo da evitarne altrettanti. Poi rimetti foori la testa. Giusto il tempo di buscarne sette o ouo. Allora ti 5':uoti: pari un cclpo o due e replichi a tua volta con due o tre colpi, €he nèl miBiblioteca Gino Bianco 3

gliore dei casi suscitano qualche curiosità (mai simpatia o solidarietà), nel peggiore deplorazione, ma per lo più non vengono neppure avvertiti. Serve comunque a restituirti per un momento un po' di rispetto per te stesso, sì che neppure senti i colpi che continuano a pioverti addosso. Guadagni, come dire, un po' di tempo. E si ricomincia. Questo intendo per: limitare il disonore. Totò, umile comparsa vestito da soldato napoleonico, irrompe per sbaglio nello studio dove si sta girando un film ambientato nella Roma imperiale, proprio nel bel mezzo di una scena, rovinando completamente la ripresa. Il regista, imbestialito: « Chi è quell'imbecille? » Totò: « Sono io. » Nello stesso giorno in cui la DC commemorava il quarto anniversario del rapimento di Moro, subito dopo il telegiornale largamente dedicato alle recite rituali (commosso omaggio di Fanfani, presidente del Senato, in via Pani ... Flaminio Piccoli, segretario della DC, ha sostato davanti alla lapide in commosso raccoglimento ... l'on. Rognoni, ministro dell'interno ... ), veniva rispolverato un vecchio film di Ford, Cavalcarono insieme, che richiamava curiosamente l'« affaire ». Tema e nucleo emotivo del film è il riscatto di alcune ragazze e ragazzi bianchi rapiti dagli indiani molti anni prima. La comunità bianca è violentemente divisa tra il desiderio di certi genitori che rivogliono il figlio perduto a tutti i costi, decisi a riconoscerlo in qualsiasi persona gli venga restituita, e l'orrore e lo schifo dei più verso chi è stato contaminato dal nemico, e pertanto non può appartenere più alla società d'origine. Anche nei confronti di Moro agl l'orrore di avere indietro qualcuno che, attraverso le lettere, aveva disonorato la famiglia (la DC), era passato al nemico; qualcuno che, restituito vivo, avrebbe rappresentato sempre un mo4 Biblioteca Gino Bianco

tivo di vergogna e rimorso. Meglio morto che disonorato (meglio morto lui che disonorati noi). Succede che esigenze giuste siano espresse dalle persone sbagliate, verità evidenti vengano pregiudicate da argomenti o esempi equivoci, buoni provvedimenti vadano a beneficio di immeritevoli. Di tali incongruenze e beffe è piena la storia del mondo e la vita di tutti i giorni. Che sulle tv private la visione dei film sia continuamente interrotta da inserti pubblicitari, è certo cosa barbara e sommamente fastidiosa. Occorreva che qualcuno protestasse. Ma chi l'ha fatto? Bufiuel? Bresson? Huston? Kubrick? Fellini? Bergman? No, a insorgere, minacciando azioni legali, è stato Franco Zeffirelli. Vale a dire, uno dei registi più mercificati esistenti sulla piazza. Non so quale esito avrà la sua iniziativa. Il colmo del grottesco sarebbe che Zeffirelli la spuntasse, per i suoi soli film. Cosl la pubblicità di elettrodomestici, caramelle, bevande gassate, carne in scatola, assorbenti, detersivi, digestivi ecc. continuerebbe a ledere la fruizione di tanti film eccellenti, buoni e dignitosi, mentre ne sarebbero esenti proprio dei film ai quali la pubblicità non può nuocere, dato che quelli e questa sono fatti della stessa sostanza. P.S. Un esito c'è poi stato. L'autore delle roventi proteste contro l'invadenza della pubblicità sulle reti private ha deciso di firmare la pubblicità, per una catena di reti private, di un'industria di pellicce. La cosa è stata ampiamente pubblicizzata. Forse si porrà presto il problema di difendere la pubblicità « d'autore » dalle interruzioni dei film. P.P.S. Dalla tribuna del popolarissimo programma di Raffaella Carrà, Zeffirelli ha lanciato un appello alla nazione e al mondo per la difesa e la protezione degli animali. Larga eco nelle scuole elementari. Mobilitazione d'insegnanti a favore dell'iniziativa. Mia figlia, eccitatissima, sollecita la mia adesione al testo dell'appello. Mi sono limitato a farle notare l'elementare contraddizione tra la pretesa di proteggere gli animali e la pubblicità alle pellicce. M'è quasi 5 BibliotecaGino Bianco

spiaciuto guastarle la festa. Però ha capito subito. Mi chiedo quanti insegnanti si siano astenuti per decenza dall'appoggiare una simile cialtronata. Al cinema zittisco un giovanotto che non la smette di sgranocchiare biscotti. « Ho fame! » è l'irosa risposta. Quando si accendono le luci, mi giro verso di lui e m'arriva un'occhiata carica di risentimento, come se dovessi vergognarmi e provar rimorso di aver mangiato a casa. A tavola il bambino ha pronunciato la parola « cacca ». Irritazione dei genitori: « Quando si mangia non si deve parlare di cose disgustose. » E riprendono il pasto seguendo il telegiornale, vale a dire: massacri in Salvador, esecuzioni nelle nostre carceri, delitti della mafia e della camorra, fame nel mondo, Libano, sequestri, e per finire un servizio sui cuccioli di foca uccisi a bastonate dai cacciatori di pellicce sulla banchisa del Labrador. Ma anche senza questi eccessi, senza la morte e il sangue in primo piano, già solo le parole e i volti dei personaggi pubblici e degli annunciatori non dovrebbero risultare più « disgustosi », più nocivi all'appetito e alla digestione della parola pronunciata dal bambino? Oppure i genitori sono stati disturbati perché in quella parola hanno sentito un riferimento, tanto involontario quanto pertinente, alla qualità dei cibi che formano il loro pasto e più in generale alla qualità della loro esistenza? Lo sappiamo che ciò che mangiamo e facciamo, diciamo e pensiamo - insomma, ciò che siamo - è « cacca ». Però non è cortese ricordarcelo. Léautaud si reca con Valéry alla « Libre parole» di Drumont, che ha aperto una sottoscrizione per un monumento al colonnello 6 Biblioteca Gino Bianco

Henry, suicida dopo la scoperta delle false prove da lui fabbricate contro Dreyfus. Valéry accompagna l'offerta di tre franchi con la formula: « Non senza riflessione». Léautaud versa due franchi motivando: « Per l'ordine, contro la giustizia e la verità». Ma il giornale pubblicherà: « Per la giustizia, l'ordine e la verità», e non darà corso ai reclami di Léautaud. Che suono falso rendono la sostenutezza, l'involuta genericità di Valéry, di fronte alla lucida franchezza di Léautaud! Ma quanto meglio conoscono il mondo e le sue regole i grandi poeti, i sacerdoti dello spirito. Mentre Léautaud, povero diavolo per amore d'indipendenza, s'illude di poter dire la verità. La verità si può dire. Quanto a farla sentire, è tutto un altro affare. « ... ci mettiamo dalla parte del torto, in mancanza di un altro posto in cui metterci. » (Brecht, Diario di lavoro, 13-8-42) Gravi discussioni tra intellettuali (laici) circa il trasferimento dei resti di Manzoni dal Famedio comunale in Duomo. Un monsignore propone di fare santa la principessa di Monaco, l'ex attrice Grace Kelly: imbarazzo e scandalo tra gli intellettuali (non i cattolici, come sembrerebbe doveroso, ma i laici). Si torna a parlare di santificazione di Pio XII: riserve degli intellettuali (laici). Pare che Wojtyla voglia beatificare alcune migliaia di religiosi uccisi durante la guerra di Spagna: molto allarmati, gli intellettuali (laici) ammoniscono la Chiesa a non far opera di divisione, a non riaprire antiche, dolorose ferite ... Credo d'essermi purgato abbondantemente del giovanile anticattolicesimo e d'aver maturato un atteggiamento abbastanza obiettivo. M'interessano i cattolici, m;interessa quel che fa la Chiesa. Ma fino a un certo punto. I problemi della Chiesa dovrebbero premere prima di tutto ai cattolici, non agli agnostici. Se gli va bene 7 Biblioteca Gino Bianco

Wojtyla, peggio per loro; se non gli va bene, si diano da fare per condizionarlo efficacemente. Siccome però il wojtylismo rappresenta un danno non per i soli cattolici ma per tutti, e dovendosi escludere che sia capace di autocorreggersi, posso solo augurarmi che vada in malora. La formula del « tanto peggio, tanto meglio» non mi ha mai sedotto, ma un suo uso tattico, limitato, e senza spargimento di sangue, mi sembra in certi casi molto opportuno. Gli errori del nemico vanno incoraggiati. Non resistete al male. Perché non nutrire qualche speranza in un collasso da indigestione, da troppo successo? Non nella prospettiva che la Chiesa ne resti granché danneggiata (ci vorrebbe ben altro!), ma che la spettacolare, fragorosa parabola del wojtylismo si compia nel più breve tempo possibile. Pagherei qualcosa perché Grace Kelly fosse fatta santa. E anche Spencer Tracy. E Wanda Osiris. L'istituto della santificazione è intollerabile? Se ne incoraggi il funzionamento a tutto vapore. Che siano santificati senza indugio i mille e mille preti, frati, monache spagnoli uccisi dai rossi. E naturalmente Poi XII. E Pio XI. E Pio IX, Gregorio XVI. .. Leone X, Alessandro VI... Bonifacio VIII, eccetera eccetera. Che Manzoni finisca in Duomo mi dispiace, ma se cosl dev'essere, l'unica cosa da fare mi sembra la proposta di riservare un buon posto in Duomo anche a Testori. E a Zeffirelli in Santa Croce. P. S. Gli intellettuali laici dovrebbero soprattutto rinunciare alla comoda opinione che il wojtylismo sia un fenomeno « antimoderno ». Al contrario, è la versione cattolica di una molto «moderna» malattia che infetta tutta la società occidentale. L'atteggiamento che si suggerisce di tenere verso il wojtylismo deve quindi valere - e a ben maggior ragione per gli intellettuali laici - verso la vertiginosa macchina di laiche imposture e idiozie da cui siamo schiacciati. Dal tabaccaio. Dice l'uomo di mezz'età, con un sorriso desolato: « 'M tuca fumà, e po' 'm tuca tuss. » Mi tocca fumare e poi mi tocca tossire. 8 Biblioteca Gino Bianco

La rabbia con cui certi pubblicisti (naturalmente « di sinistra », come tutti: « Siamo tutti cristiani » diceva Kierkegaard) si avventano contro ogni intervento sospettabile di rimpiangere i tempi in cui era ancora in uso la critica ideologico-politica. Essi accusano gli anni Sessanta (per non parlare dei Cinquanta) di rozzezza e intolleranza, ciò che è verissimo, ma usano a loro volta una rozzezza e intolleranza molto peggiori perché del tutto stonate con i nuovi abiti che sfoggiano: laicismo, aperturismo, pluralismo, liberismo ... E' curioso che si proclami la superiorità di questa epoca rispetto alla precedente per il fatto che gli intellettuali, che allora erano tenuti al cipiglio, ora possono (anzi debbono) fare i buffoncelli. La trasformazione da preti-poliziotti a pagliacci, da cani da guardia a cani da salotto, non parrebbe un progresso. Tanto più che, se qualcuno dimostra di non divertirsi ai loro numeri, questi cani da salotto ringhiano e mordono peggio dei cani da guardia. Ma il lato più strano (o buffo) della faccenda è che il rimpianto del passato non proviene da qualche vecchio cane da guardia che non s'è rassegnato a diventare cane da salotto, ma da persone che, come oggi sono il bersaglio dei cani da salotto, cosl allora lo erano dei cani da guardia. Sogno. Sono davanti a un registro che raccoglie denunce (anonime) contro parlamentari colpevoli di assenteismo. Ci scrivo il mio nome. Il commesso, che sta dietro il tavolo su cui è aperto il registro, mi chiede di mostrargli il mio documento d'identità. Sbalordito, protesto farfugliando qualcosa sul mio diritto all'anonimato. Ma il commesso mi fa notare che ho scritto nello spazio riservato all'autorità inquirente. Per il commesso io sono qualcosa come un commissario di polizia o un magistrato che ha firmato per ricevuta e scarico e lui, prima di consegnarmi il registro, deve controllare se lo sono davvero. Situazione insostenibile. Dopo essermi arbitrariamente spac9 Biblioteca Gino Bianco

dato per parlamentare (sia pure autodenunciandomi masochisticamente come assenteista), mi sono involontariamente attribuito il ruolo di giudice... Per uscirne, devo svegliarmi. Fratello maggiore: « Preferiresti essere zoppo o cieco? » Fratello minore: « Né zoppo né cieco. » « Non vale. Sei obbligato a rispondere. » « Né l'uno né l'altro. » « Ma è un gioco, non capisci? » Il fratellino tace, non si fida per niente. « E' soltanto un gioco. Bisogna stare alle regole. Zoppo o cieco: non è mica difficile. Soltanto uno stupido non saprebbe rispondere. Allora: preferiresti essere zoppo o cieco? » Sapendo di cadere in un tranello, ma troppo debole per tener duro, « Zoppo» mormora il piccolo. « Che scemo: gli piacerebbe essere zoppo. » « Non ho capito. » « Capirà, capirà ... » Per strada cercavo di distrarla. Un po' seguiva le mie chiacchiere divagatorie, ma poi tornava all'argomento, al suo terrore dell'iniezione, frignava, si piantava rifiutandosi di proseguire. Le promisi che subito dopo l'iniezione saremmo andati a comperare un certo costoso giocattolo che da tempo desiderava e che mi ero sempre rifiutato di regalarle. Sembrò accettare il patto di malavoglia, con l'aria offesa di chi ha subito un ricatto, mentre in definitiva il ricattato ero io. Ma quando si arrivò al dunque, nella stanza che puzzava di disinfettante, 10 Biblioteca Gino Bianco

davanti ai sorrisi sospetti del personale vestito di bianco, fu presa dal panico. Si dovette immobilizzarla, ciò che aumentò ancora il suo terrore. Pure, mentre tenuta a forza bocconi sul lettino da due infermiere, la testa girata verso la siringa sospesa come se potesse ancora fermarla con la forza degli occhi e della voce, precipitava nell'abisso d'orrore, distinsi bene tra le urla disperate le parole: « Papà, il regalo! L'hai promesso! Ricòrdati! Il regalo! » L'insegnante di matematica in ginnasio era un uomo poco più che quarantenne devastato da una malattia contratta, mi sembra, in Africa. Una malattia incurabile, progressiva, che se lo mangiava vivo e avrebbe finito l'opera entro un paio d'anni. Si trascinava con l'aiuto di un bastone, ma ogni movimento, perfino il respiro, pareva costargli fatica e dolore. L'effetto era ancor più penoso perché quelle gambe che procedevano a sussulti, quel tronco rattrappito dentro abiti troppo grandi, quel viso stravolto da una smorfia di disgusto lasciavano intravedere, se anche non ci fosse stato detto da chi l'aveva conosciuto prima della malattia, di essere appartenuti a un bell'uomo, vigoroso, atletico addirittura. Durante le sue lezioni ci sforzavamo di tenere a freno la normale turbolenza dei nostri quattordici-quindici anni, con un riguardo che non avremmo riservato a nessun altro insegnante. Se la sua tragedia ci incuteva pietà, timore, rispetto, egli godeva anche del prestigio di aver giocato alla fine degli anni Venti per un paio di stagioni in una squadra di calcio di serie A. Talvolta, quando appariva meno sofferente del solito, ci azzardavamo a sollecitargli il racconto di qualche episodio di quella sua giovanile esperienza o lo chiamavamo a giudice delle nostre dispute sportive (il calcio era allora per molti di noi forse il massimo valore, quasi lo scopo dell'esistenza): lui, come rianimato e un po' commosso, non si sottraeva alle nostre affettuose pressioni. Senza però concedere nulla, neanche in quei momenti, al cameratismo. Ci trattava col «lei», come fossimo già liceali. Probabilmente la sua rigo,rosa imparzialità dipendeva dal fatto che realmente non ci distingueva l'uno dall'altro. Eravamo nomi, non persone: non gli 11 Bibliote.ca Gino Bianco

restava abbastanza forza per essere incuriosito, attratto o respinto dalle nostre peculiarità e differenze, per coltivare simpatie e antipatie. Quando il male mordeva con particolare crudeltà, bastava una minima infrazione disciplinare, una parola sbagliata a fargli perdere il controllo. Esplodeva in urli quasi ferini, battendo furiosamente il bastone sulla cattedra, e in un paio d'occasioni fece anche il gesto di usarlo contro qualcuno di noi. Apparteneva alla razza di coloro che vogliono fare il proprio dovere a tutti i costi, ma per quanto s'impegnasse allo spasimo contro le difficoltà di articolazione delle parole, e nonostante la speciale attenzione che gli prestavamo, le sue lezioni non potevano essere un modello di perspicuità. Sicché, se quasi sempre sapevamo reprimere la richiesta di un supplemento di spiegazione, accadeva pure ogni tanto che uno studente dimentico pronunciasse il rituale « Professore, non ho capito ». « Capirà, capirà ... » era la risposta. La battuta produceva sempre un effetto d'ilarità nella classe, liberata dall'imbarazzo prodotto dall'inopportuna richiesta del compagno. Ma a pochi poteva sfuggire il senso allusivo di quell'esausto e ironico « capirà ». Capirà questo problema di algebra, lo capirà da sé, per poco che s'impegni, senza che io debba torturarmi a rispiegarglielo... di tempo ce n'ha ... E capirà altre cose, da sé, senza bisogno di spiegazioni... Capirà che scherzo feroce è la vita ... Ma non c'è fretta ... Perché dovrebbe capirlo subito? « ... E poi, chissà... se ha un po' di fortuna, potrebbe anche non capirlo mai... » Tra le cose che mi piacciono meno di Brecht, anzi che non mi piacciono affatto, c'è la retorica della dialettica piacere-dovere, homo naturalis-homo politicus. Mi dà assai più noia dello stalinismo, indigesto fin che si vuole ma strettamente connesso a un'esperienza di 12 Biblioteca Gino Bianco

lotta ben reale (e comunque mai adulatorio o esornativo): la parte di errore inevitabile nelle scelte radicali, pratiche; coerente al principio del « come si agisce », che è un elemento di robustezza e non di debolezza della sua opera. Invece come suonano falsi, senza rimedio, assai più falsi di una lode a Stalin o di un inno al « grande metodo», i famosissimi versi: « Che tempi sono mai questi, quando un dialogo sugli alberi è quasi un delitto, perché comporta il silenzio su troppe stragi! » O quelli, pure arcinoti, in cui confessa l'intima lacerazione tra « l'entusiasmo per il melo in fiore e l'orrore per i discorsi dell'imbianchino». A parte che così prende due piccioni con una fava perché, pur concludendo virtuosamente che prevale il dovere ( « solo il secondo mi spinge a lavorare »), ha trovato il modo di non tacere l'altra natura, i suoi sentimenti per il melo in fiore, - ciò che non convince è l'alta qualità di entrambe le alternative. Mica confessa che è diviso tra le incompatibili necessità di far soldi e di combattere il capitalismo, tra fedeltà e tradimento, ambizione e fratellanza, sbornia e lavoro, viltà e coraggio. Macché, il conflitto è tra due specie diverse di virtù, tra due nature una più nobile e onorevole dell'altra: bontà o lucidità? gentilezza o azione? saggezza o giustizia? Alla faccia del destino crudele! I nostri anni sono meno drammatici, meno direttamente tragici, anche se più disperanti, di quelli di Brecht. Terrore e miseria ora si possono anche chiamare consenso e benessere. Perdere casa, famiglia, amici, lavoro, giocarsi la pelle sono fatti più traumatici, problemi più angosciosi dei dilemmi se andare o no in pensione, cambiare lavoro o moglie, votare Pci, Dp, Verdi o scheda bianca, farsi aggiustare l'automobile o i denti. I brividi nella schiena che dovevano dare i discorsi di Hitler appartengono a un ordine diverso rispetto al pigro schifo, alla nausea da sazietà che procurano il telegiornale o la lettura di « Repubblica». Ma anche nell'epoca di Brecht gli uomini erano dominati e divisi da problemi molto volgari e comuni, e Brecht lo sapeva tanto bene che il meglio della sua opera proprio questo testimonia e argomenta: il valore di ciò che sta in basso, la diffidenza e l'odio per tutto ciò che sta in alto. Ma ahimé quanta più fortuna ha conosciuto quell'altra maschera di cui Brecht s'è pure compiaciuto. Fossero stati « brutti tempi » soltanto per la 13 Biblioteca Gino Bianco

lirica! Ora i tempi si sono fatti brutti, bruttissimi, perfino per la più umile e appena onesta prosa giornalistica. Non c'è pericolo di concepire entusiasmi per il melo in fiore: non abbiamo il giardino. Meglio cosl, d'altronde. Ci mancherebbe pure il melo in fiore, per colmare la misura. Dopo due decenni di fortuna abbondantemente equivoca, Brecht sta attraversando una fase di eclissi. Ciò è male, perché quella di Brecht è una delle poche grandi opere del secolo. Ma se, come mi auguro, avremo un ritorno d'interesse per lui, non sarà più attraverso certi clichés retorici. E, per fare un altro esempio, l'autoritratto nel quale, interrotta la strofa che denuncia i guerrafondai e profetizza gli imminenti stermini, egli in tutta serietà provvede a coprire con una tela di sacco l'albicocco per proteggerlo dalla gelata (dopo di che, è implicito, tornerà ai suoi doveri di scrittore impegnato), apparirà per quello che è: ridicolo. Gli chiedo come sta, se il dottore l'ha visto, se lo trattano bene, cos'ha mangiato, se gli occorre qualcosa... Risponde a monosillabi, distratto, annoiato. Poi, improvvisamente, deciso: « Scusa se cambio discorso », e attacca uno dei suoi monologhi minuziosi e ossessivi come una tappezzeria che ripete sempre lo stesso disegno. Ho notato che quella formula - « Scusa se cambio discorso » - spesso la usa prima ancora che io abbia detto alcunché. Ma egli sa bene di interrompere, se non un discorso, un ordine di idee e di valori, il mio ordine, l'ordine « normale ». E' una premessa metodologica. Durante una trasmissione di « Portobello », Enzo Tortora porta alla ribalta il prof. Tal dei Tali dell'Istituto Eccetera, perché spieghi « in due parole » come saranno impiegati i cinque o sei miliardi raccolti su appello dello stesso Tortora e destinati alla ricerca sul cancro. Tre o quattro battute, applausi, commozione, entusiasmo, e poi Tortora congeda il professore « per non sottrargli tempo pre14 Biblioteca Gino Bianco

zioso », quasi che quello sia impegnato ventiquattr'ore su ventiquattro nella lotta contro il cancro. Secondo la comica suggestione di Tortora, non appena uscito dagli studi televisivi, il professore si precipiterà al laboratorio per proseguire la ricerca interrotta ... Pizzeria all'aperto. A ridosso dei tavoli, un gruppo di ragazzotti sulle moto ferme col motore acceso. Ogni dieci, venti secondi, delle brave sgassate. Il rumore copre le parole, non si riesce a parlare. L'aria sta diventando irrespirabile. Dopo un buon quarto d'ora che dura la faccenda, urlo: « Si parte? » Due o tre di loro si girano, mi guardano con l'espressione stupefatta di chi non ha capito. « O vi decidete a partire » spiego « o spegnete il motore. » Un paio di minuti per superare lo choch, poi i giovanotti decidono di allontanarsi. « Che razza di gente! » li sento borbottare. « Che modi! Che nevrastenico! » Ma anche ai tavoli la reazione è di sorpresa e curiosità: nessuno s'era accorto di nulla, nessuno si riteneva disturbato. Tennis Club. Due signori in tenuta di gioco hanno catturato un grosso ratto. Uno dei due lo tiene bloccato contro la rete metallica puntandogli alla gola la testa della racchetta. S'è formato un gruppetto di spettatori, che seguono la scena molto eccitati. Il ratto si dibatte disperatamente emettendo strilli acutissimi. Una bambina piange: « Perché? Perché ucciderlo? Perché? » Mentre il ratto è sempre tenuto bloccato dal primo tennista, l'altro, usando la racchetta di taglio come una mazza, vibra sulla testa dell'animale tre o quattro colpi estremamente precisi e efficaci. Il corpo del ratto, i denti scoperti e gli occhi strabuzzati, dopo aver soddisfatto per qualche minuto la curiosità degli spettatori, viene preso per la punta della coda da un ilare ragazzo che si allontana seguito da un paio di compagni. Lungo il percorso che lo separa dalla definitiva sepoltura nell'immondezzaio, servirà ancora presumibilmente a procurare qualche umana emozione: soddisfazione, spavento, pietà ... I due tennisti, dopo la fortu15 Biblioteca Gino Bianco

nata parentesi venatoria, avevano intanto raggiunto il loro campo, dove, impeccabili nelle divise bianche, scambiavano eccellenti colpi con le racchette insanguinate. Fine agosto. I turisti sono partiti. Nel silenzio subentrato al rumore di fondo di auto, moto, radioline, si può tornare a sentire a intervalli il canto disarticolato, i mugolii del demente che va su e giù per il viale senza destinazione né scopo. E' un sollievo. Clov. Credi nella vita futura? Hamm. La mia lo è sempre stata. E' morto Loris. Faceva il cameriere, Piccolo, minuto, sempre tirato a lucido. Tanto tempo fa, si accompagnava al nostro gruppo di amici per andare a puttane. Avrà avuto allora poco più di trent'anni, noi tra i venti e i venticinque. Avevano chiuso i casini e il commercio avveniva in modo semiclandestino tra bar, albergucci e case private di Cremona, Lodi, Pavia (per i piacentini; Piacenza era battuta da cremonesi, pavesi, lodigiani). Una di queste signore, per la quale Loris aveva una vera predilezione, mi disse una volta che Loris a letto non faceva niente: guardava, toccava un po', più che altro chiacchierava. Povero Loris, che l'avrà pagata anche più della tariffa perché fosse discreta. Forse Loris era impotente solo con lei, proprio perché gli piaceva tanto. O forse aveva una ragazza a cui voleva restar fedele. O forse era più o meno omosessuale. O forse ... Quel che soprattutto gli piaceva era di accompagnarsi a noi, più giovani e di buona famiglia, farci da guida, intrattenerci, parlare. Il viaggio, gli approcci, le trattative, il bicchiere, le chiacchiere, gli imprevisti, il ritorno, ancora un bicchiere, ancora chiacchiere, fare notte ... Aveva un inesauribile repertorio di barzellette oscene, e anche un bel po' di pettego16 Biblioteca Gino Bianco

lezzi su persone in vista della nostra città, storie di corna, perversioni, malversazioni, truffe, eredità litigiose, che deliziavano l'odio antiborghese di noi rampolli della borghesia. Sulla gazzetta locale l'annuncio della morte era corredato di fotografia, come fanno i poveri diavoli cui non basta nome e cognome per essere individuati (una volta il soprannome faceva le veci della foto). La foto è di trent'anni fa, tal quale l'avevo conosciuto. Scapolo. L'annunciano la madre vecchissima e una sorella. Sogno in varie fasi. 1. Telefono per prendere appuntamento con l'avv. M. Professionista quotato, M. è una persona sgradevole e a me ostile: non ha mai digerito, da conservatore coerente, che un borghese qual io sono professasse idee di sinistra, e siccome non può negarmi una certa stima intellettuale, tanto più mi detesta. Ho potuto verificare che ha cercato di nuocermi più d'una volta, deliberatamente L'incontro è premurosamente fissato di li a due ore. La questione per la quale mi occorre un parere legale è squisitamente patrimoniale. Con tutti gli avvocati che conosco, ottimi professionisti e per di più amici, ho scelto M., offrendogli io stesso un argomento per confermarlo nel suo giudizio che sono un ipocrita. 2. Mi trovo in un vasto locale, opaco, polveroso e male illuminato, tavoli e sedie, affollato. Potrebbe essere la sala interna di un bar, la sede di un circolo, ma ha soprattutto dell'aula giudiziaria. Atmosfera amministrativa, burocratica, ma senza alcuna solennità. Sto parlando animatamente a un crocchio di persone: « Ma non capite che quanto più la città si espande, tanto maggiore diventa la spesa pubblica per le strade, le scuole, i servizi, insomma le infrastrutture? » E ancora: « L'unica soluzione è non fare più figli. » Pronuncio queste banalità con enfasi crescente, via via che mi rendo conto con angoscia e rancore che, appunto, di banalità si tratta. 3. Stesso ambiente. Vengo avvicinato da una donna, piccola, sui quarant'anni, che mi tratta con esagerata confidenza, mentre la riconosco a stento in un'amica di mia sorella con la quale non ho 17 Biblioteca Gino Bianco

mai avuto altri rapporti oltre il « buongiorno » e la « buonasera ». Mi butta le braccia al collo e mi bacia con trasporto sulla bocca. Subisco, interdetto, la sua lingua vivace e bene irrorata. Dietro di lei il marito, a me completamente sconosciuto, che ha visto tutto, s'inchina e mi stringe la mano con una specie di golosità. Potrebbe dire: « E' un onore, un privilegio insperato. » Questo, l'atteggiamento. Umile e euforico, m'informa che deve regolare con me un vecchio debito. Come non ho mai visto prima l'uomo, cosi non so nulla del debito. Estrae dalla borsa una lettera di quattro anni prima inviatagli dalla mia assicurazione dalla quale risulta che, avendomi arrecato un danno ammontante a circa 500.000 lire e avendone pagata la metà, mi resta debitore di una somma intorno alle 250.000 lire. A parte la stranezza procedurale, continuo a non ricordare nulla di questa faccenda. L'uomo estrae dalla tasca alcune monete e un biglietto da mille lire. « Tutto qui? » domando. Lui, sempre ilare, fa un ampio gesto come a dire « Ma no, naturalmente», però non aggiunge parola e non fa nulla. Mi indigno. Gli dico che quella miseria può tenersela, che non mi faccio prendere in giro. Lui si scusa umilmente, protesta le sue migliori intenzioni, continua a trattarmi come se fossi un suo superiore per grado sociale, intellettuale, « morale » (« Non mi permetterei mai...»), ma all'ossequio di parole e sorrisi non segue nulla di positivo. Gli urlo che il valore d'acquisto di 250.000 lire in quattro anni s'è ridotto della metà, sicché dovrebbe darmi almeno il doppio della somma. Per un attimo la sua faccia ha un moto di sorpresa, di perplessità, ma torna subito all'espressione umile e benevola. Gli urlo che è « un cretino». Subito me ne pento, soggiungo che non questo intendevo ma che «· si sta comportando come un cretino». Benché un po' scosso, lui continua a mantenere la sua aria devota e ilare ... Mi sveglio esasperato, rabbioso. Sono le quattro del mattino, ormai la notte è perduta, non ce la farò più a riprendere sonno. Circa dodici ore prima avevo avuto un alterco con tre giovani e avevo gridato a uno di loro che era « uno stronzo», ma questi s'erano dimostrati tutt'altro che remissivi e m'avrebbero coperto di botte se non fossero intervenuti a mia difesa alcuni passanti (caso del tutto insolito); non avevo peraltro evitato una buona dose d'insulti, pa18 Biblioteca Gino Bianco

rolacce e espressioni di compatimento per il cattivo stato del mio sistema nervoso. Ma il sogno va molto al di là di questo episodio. Tutto è tremendamente mediocre, meschino: l'eros (quella donna), la promessa di lucro (250.000 lire, che poi si riducono a nulla) ... La mia immagine che esce dal sogno è deprimente: sono un impostore, un retore, uno che finge superiorità morale, un disonesto che casca subito nella trappola di pretendere denaro che non gli spetta ... Il bambino non è disposto a rinunciare al suo gelato, ghiacciolo, sacchetto di patatine quotidiano, per un regalo settimanale o mensile di valore equivalente alla somma delle piccole somme risparmiate. Né il povero diavolo qmbierebbe mai la sua pessima bottiglia con un bicchiere di vino buono. Nessuno accetterebbe di guardare la televisione un'ora di meno al giorno, in cambio di spettacoli e servizi migliori. Nessuno vorrebbe i giornali e le riviste ridotti a un quarto, a un decimo del loro volume cartaceo, in cambio di notizie più precise, opinioni sintetiche, risparmiandosi ripetizioni, confusioni, refusi ... Un Nader che facesse sul serio verrebbe linciato: la « difesa del consumatore » è una contraddizione in termini. Il consumatore non sa che farsene della qualità: vuole quantità e varietà. Aborre le pause, ogni vuoto va riempito, ogni spazio stipato. Ogni cosa deve avere un prezzo. Il mondo che sogna è un immenso supermercato del quale non si stancherebbe mai di percorrere e ripercorrere le corsie. Sempre più merce. Benvenuto quindi anche l'articolo « difesa del consumatore ». Guardo dalla finestra i movimenti di un gruppo di ragazzi davanti al bar sottostante. Arriva un'auto. Si ferma col motore acceso. Due ragazzi, prima appoggiati al muro del bar, si accostano e chiacchierano attraverso i vetri abbassati con i due dentro l'auto. Uno esce 19 Biblioteca Gino Bianco

dall'auto e entra nel bar, lasciando la portiera spalancata. Un paio d'auto che sopraggiungono devono fermarsi, manca lo spazio per passare. Con molta calma l'auto dei ragazzi si sposta di quel tanto che consenta la circolazione. Spegne il motore. Ora sono in quattro dentro l'auto a chiacchierare (o a tacere). Arriva un'altra auto e si affianca alla prima. Chiacchierano attraverso i finestrini aperti. Due scendono e entrano nel bar. Arriva un ragazzo su motocicletta e si ferma a ridosso degli altri. Chiacchierano. Dal bar escono due ragazzi e rientrano in auto. Una delle auto riaccende il motore, ma non parte. Dopo un po' spegne. Due ragazzi scendono da un'auto e si siedono sulla moto. Un ragazzo entra nel bar. Che vada a telefonare? Sembrerebbe la preparazione di una spedizione. Ma non partono. Entrano e escono dalle auto, dal bar. Parlano. Aspettano. Una delle auto riparte ma, al richiamo di un ragazzo di fuori, si blocca dopo pochi metri al centro della strada. Conciliaboli attraverso i finestrini. Auto che sopraggiungono sono costrette a fermarsi. L'auto dei ragazzi, non prima di un vivace scambio d'insulti, si accosta al marciapiede. Dopo un'ora sono ancora lì, apparentemente al punto di prima. Dopo un po' non ci sono più. Forse ognuno è tornato a casa sua. A quell'età non eravamo molto diversi. Con la differenza che non avevamo auto né grosse moto. Al più, la vespa. Ciondolavamo più o meno allo stesso modo. Si chiacchierava, si motteggiava, si fumava, senza sapere che cosa fare. Chi proponeva una cosa, chi un'altra, ma senza alcun sentimento del tempo, senza alcun bisogno di decidere, di concludere qualcosa. « Senatore Valiani, secondo lei Pietro Secchia pensava seriamente alla rivoluzione? » « Secchia predisponeva l'occorrente per· una lotta armata, ma, buono comè il pane quale in cuor suo era, non l'avrebbe scatenata se non in caso di necessità. » 20 Biblioteca Gino Bianco

Due fidanzati sono morti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro. Le famiglie si scrivono. Da una parte si propone, secondo le consuetudini, la restituzione delle ·lettere che i due si sono scambiate alle famiglie di rispettiva appartenenza. Gli altri rispondono suggerendo la distruzione delle lettere: il loro amore apparteneva solo a loro, non abbiamo il diritto di violare la loro intimità eccetera. Pronta, piena, commossa adesione della prima famiglia a una soluzione tanto delicata. Le lettere verranno distrutte. Sono nauseato. Più che il diritto, mi sembra si abbia il dovere di conservare le loro parole, conoscere i loro sentimenti e pensieri (siano pure le banalità di cui in genere abbondano i carteggi amorosi). I morti devono appartenerci. Se rifiutiamo di continuare a conoscerli, di farli vivere per quanto è possibile con noi, li uccidiamo definitivamente. La discrezione che si astiene dal frugare nei loro segreti è solo la comoda scusa per non doversi soffermare sul pensiero della morte. La delicatezza maschera l'abbandono. Ma mentre crediamo di liberarci da un debito fastidioso, ci impoveriamo. E' un autoabbandono. Diventiamo ancora più soli, più effimeri, più casuali, più morti di quanto già siamo. Dimenticare. i morti è un lusso che non possiamo permetterci. E' convinto che non ci si ammala (pensa soprattutto alla malattia imprevedibile per eccellenza, il cancro, che colpisce a tradimento) se si tiene costantemente sotto controllo il corpo, se non si lascia passare un solo sintomo, anche il più insignificante, senza chiederne ragione. Bisogna che il corpo sappia sempre che nulla passa inosservato. Guai a distrarsi, mai sottovalutare. Alto là, cos'è quel foruncolo? Cosa credi di fare? Dove credi di andare? E questo doloretto? Me ne sono accorto, sai... A chi credi di darla a bere? Vorresti farti passare per una sciocchezza, ma io non ci casco... In questo modo, la malignità del corpo si scoraggia e rinuncia di volta in volta alle sue insidie, alle sue trappole. Per tornare alla carica con nuove trappole, nuovi tranelli mortali. Occorre una vigilanza indefessa, spietata. Come nell'apologo di Menenio Agrippa i vari organi s'erano ri21 Biblioteca Gino Bianco

bellati allo sfruttamento esercitato dallo stomaco, secondo lui i milioni di particelle di cui il corpo è composto mal sopporterebbero la dittatura del sistema nervoso centrale (o ragione, spirito, anima, o comunque si voglia chiamare l'unità centralizzatrice), e desidererebbero solo spezzare le loro catene, guadagnare l'autonomia locale. Per questo, metterebbero in atto ogni sorta di scioperi e sabotaggi. Ma ciò non significa la loro stessa morte? E' un problema che non si pongono, privi come sono di ambizioni progettuali, felici di abbandonarsi alla pigrizia, alla passività biologica, dovunque questa conduca. La morte è un concetto che ha senso se riferito a un insieme, a un'organizzazione complessa, che quando si rompe cessa di funzionare come tale. Mentre per i singoli minimi componenti si tratta semplicemente di ulteriori trasformazioni, forse nient'affatto spiacevoli ... Ancora un sogno avvilente. Che cos'ho fatto di male per meritare questi scherni? La vita è già così mediocre, meschina, perché devono toccarmi dei sogni ancora peggiori? La voce: Evidentemente lei vive molto al di sopra dei suoi mezzi ... Io: Non è possibile! Peggio di così... Credo di avere di me una opinione fin troppo modesta, laica, sobria, le assicuro ... La voce: Sobrio! Non mi racconti storie ... Lei è ancora un idealista bello e buono, trascende continuamente ... La sua vita è dominata dall'orgoglio ... Lei sublima ... Lei beve troppo Super-Io, abusa di Dover-Essere ... Lei si illude, mio caro, si fa ancora troppe illusioni sul suo conto ... Non è proprio il caso, mi creda. Ohimé. Dalla testimonianza di Vittorio Ciart compresa in una raccolta in memoriam di Alessandro D'Ancona (Firenze 1915): « ... nel '53, vagando un giorno pei colli nei dintorni di Firenze, il D'Ancona fu 22 Biblioteca Gino Bianco

preso in disparte dalla vecchia madre del Guerri, il guerrazziano di Vallombrosa, che nelle congiure aveva rischiato la vita e sciupato il patrimonio. La povera donna, con una mossa ingenua, ma profonda, di curiosità materna, gli chiese: " Lei che sa tante cose, mi dica, chi è questa Italia? " e subito aggiunse, accorata: " Ai miei tempi non c'era! " » Vittorio, il falegname pugliese emigrato a Milano. Il laboratorio è un angusto locale col banco, gli arnesi e quel paio di macchine indispensabili. In un angolo, suo fìglio, una decina d'anni, è immerso nella lettura di giornalini a fumetti. « Mio fìglio » dice Vittorio in tono deciso « sta qui con me o a casa con sua madre. Fuori, da solo, non ci va. Degli altri ragazzini non mi fìdo. A casa ha la televisione e può vedersi tutti i programmi che vuole. » Neppure si pone il problema dei danni fìsici e psichici indotti dall'abuso televisivo, dall'isolamento, dall'assenza di socializzazione. Parole e immagini non possono far male. Il male, per lui, è qualcosa di assolutamente concreto, materiale: omicidio, stupro, rapimento, droga. Ciò che viene dagli uomini. Dalla socializzazione. Vittorio vive per un unico scopo: ristabilirsi nel suo paese pugliese, dove per ora torna solo per le ferie estive. A Milano, dopo più di dieci anni che ci lavora, continua a sentirsi - vuole sentirsi - del tutto provvisorio. Fa tutto da solo, non ha apprendisti né garzoni. Qualche volta lo aiuta un cognato. Non possiede la minima scorta di legname, che non troverebbe posto nel pochissimo spazio del laboratorio. Non assume mai più d'un lavoro per volta, e ogni volta si procura il legname strettamente necessario per quel lavoro. Veste in modo miserabile, ha la barba d'una settimana. Lavoro e televisione. Sono sicuro che al suo paese si rade tutti i giorni. Com'è noto, durante il processo contro Zola, dove furono messi in atto tutti i trucchi legali e le trappole procedurali per coprire le 23 Biblioteca Gino Bianco

malefatte degli alti comandi militari e bloccare ogni tentativo di scoprire la verità sul caso Dreyfus, al giudice che opponendosi all'audizione di un certo teste aveva contestato a Zola: « Conosce lei l'articolo 52 della legge 1881? », Zola esasperato rispose: « Non conosco la legge e non voglio conoscerla! » Questa battuta, che fu 'rimproverata a Zola anche dai suoi amici e della quale dovette subito scusarsi (Lanoux, biografo apologetico, parla di « errore balordo, malamente rimediato »), questa battuta non solo è più che giustificata nell'occasione particolare, come reazione al comportamento scandaloso del magistrato, ma esprime una verità assoluta. Che la legge sia diventata una tecnica, è un fatto che non ha vera giustificazione. La costruzione di ponti, la chirurgia cranica, la navigazione aerea, gli scavi archeologici, la traduzione da lingue straniere, la riparazione di automobili e televisori ecc. sono compiti che richiedono specifiche competenze. Che esistano degli « specialisti in giustizia» è semplicemente un orrore. La legge dovrebbe essere la mera formalizzazione del comune sentimento dei diritti e dei doveri. Ma se cosl fosse, non ci sarebbe mai stata la necessità di coniare la massima: « lgnorantia legis non excusat ». Un principio giuridico, un articolo di legge, una procedura non dovrebbero mai costituire motivo di sorpresa e frustrazione per il comune cittadino, che dovrebbe invece sempre riconoscervi l'espressione formalmente corretta di ciò che sente e pensa. Poiché accade il contrario, non è in causa l'ignoranza della legge da parte del cittadino ma l'ignoranza del cittadino da parte della legge. « Ignorantia non excusat legem. » So bene che la mostruosa macchina giudiziaria fa tutt'uno col generale sistema della produzione di m~rci. Con una differenza significativa. Mentre le nuove merci rendono automaticamente obsolete le merci precedenti, la produzione a getto continuo di leggi, norme, regolamenti, e ancora leggi norme regolamenti per l'interpretazione e l'applicazione di leggi norme regolamenti ecc. ecc. si accumula su se stessa formando immani stratificazioni e intrecci sempre più inestricabili. La legge, che di fatto ubbidisce all'economia, pretende ancor sempre con proterva impudenza a una sua autonomia e sacralità, ciò che le impedisce di essere almeno schiettamente funzionale agli interessi che serve. Quanto a esprimere la giustizia, vale a dire 24 Biblioteca Gino Bianco

quel senso originario dei_diritti e dei doveri che ancora non è spento neppure nel più alienato degli uomini, ciò è da molto tempo e definitivamente diventata una barzelletta oscena anche per il più innocente, il più sprovveduto degli uomini. Un certo spmto amabile, allegro, leggero è proprio solo degli imbroglioni. Non parlo dei grossi imbroglioni, che tendono semmai ad ammantarsi di gravità, ma dei piccoli, di chi vive d'espedienti. E' il loro strumento di lavoro, e questo abito viene mantenuto anche nei rapporti, come dire, disinteressati. Sono spesso persone dotate di una buona autocoscienza, oneste con se stesse: troppo serie, insomma, per non vietarsi la serietà. Il forte, che può esercitare il potere senza dover ricorrere a sotterfugi, non è mai amabile. Colui che è onesto per paura, perché la disonestà è troppo rischiosa, è l'uomo più tetro che ci sia: il moralismo è la sua vendetta. Ci sarebbe poi la superiore amabilità e allegria che promana dalla bontà, se ci fossero i buoni. Quando, tanti anni fa, accettai l'offerta del PCI di presentarmi come indipendente nelle sue liste per le elezioni comunali, in famiglia ci fu non poca irritazione e preoccupazione. Ti metti contro la tua classe! contro i tuoi interessi! Cosa direbbe tuo padre, se fosse vivo! Ma la reazione che più mi colpi fu quella della portinaia. Il giorno in cui le liste furono rese ufficiali, incontrandomi sulla porta di casa, mi guardò in faccia e mi disse: « Me l'ha fatta! » Nient'altro. Oggi, tornando dall'aver sepolto lo zio, lungo i viali del cimitero, per uno strano caso mi sono imbattuto nel suo sguardo. Sapevo che era morta, ma l'avevo persa completamente di vista da più di dieci anni, quando s'era sposata e era andata a stare altrove. La foto della lapide la riproduce fedelmente, l'occhio nero vivo, ardente, e quella piega della bocca che esprime un'offesa profonda. Era fasci25 Biblioteca Gino Bianco

sta, senza precise convinzioni o particolare entusiasmo (i fratelli di lei erano socialisti e comunisti), ma per fedeltà al fidanzato, un ragazzo che s'era intruppato con le Brigate Nere, per fame, per avventura, per ignoranza, e era finito ammazzato dai partigiani, da altri poveri diavoli come lui. (Si sposò vent'anni dopo, già finita come donna, con un questurino). Era abbastanza disillusa per sapere che la mia scelta non metteva in pericolo il mio status borghese, come invece fingevano di temere familiari, amici, conoscenti. La politica, la vedeva come un mezzo, per chi stentava, di migliorare la propria condizione e, per i ricchi, di soddisfare vanità e gusto del comando. I ricchi poi restavano ricchi e i poveri, poveri. La mia scelta era un tradimento personale. Lei era sempre stata orgogliosa di considerarmi « il padrone »: un « signore » cosl giovane, corretto e ancora immune dalle grettezze tipiche dei proprietari. Mettendomi coi comunisti, le toglievo il piacere di ubbidirmi, rispettarmi, sentirsi protetta, come un soldato di fronte al suo ufficiale che ha disertato. Sogno. « Capisco che ti diverta » dice mio padre con l'aria di chi non ha il minimo sospetto d'esser morto da tanti anni. « Distrarsi è una buona cosa. Ci vuole, di tanto in tanto. (Anche se forse potresti divertirti meglio: prendersela con Scalfari non è un po' troppo a buon mercato?) Però bisogna pensare anche alle cose serie. Lavorare ... » Ha lo stesso tono, anche se meno brusco, di quando interrompeva i nostri giochi di ragazzi, se gli pareva durassero da troppo tempo, invitandoci a finire i compiti, studiare, leggere un libro, fare qualcosa di utile. Dovrei dirgli che questi « giochi » sono il mio lavoro. E che non è mica tanto divertente. Ma non trovo il coraggio: ne sarebbe troppo sbalordito. « Perché la vita è breve» prosegue. « C'è poco tempo ... » Dovrei dirgli che il tempo è molto meno di quel che pensa lui, con la sua maschera da cinquantenne, in ansia per il figlio indietro con gli esami. Di tempo, dovrei dirgli, ne è rimasto talmente poco che non è neanche più il caso di preoccuparsene. « Bisogna fare la rivoluzione » dice. Mio padre, la rivoluzione! Cosl come avrebbe potuto dire: devi prendere la laurea, farti una posi26 Biblioteca Gino Bianco

zione, risparmiare, investire bene i guadagni, sposare la donna giusta, educare i figli, riparare il tetto della casa... « Questa rivoluzione che vi siete impegnati a fare ... » E' mai possibile che faccia sempre dei sogni cosi derisori? Io che non sognavo niente del genere quando la rivoluzione sembrava, a parole, all'ordine del giorno ... E il rimprovero m'arriva adesso che la rivoluzione è tramontata, e per bocca di mio padre, uno degli esemplari di borghese meglio riusciti; nel bene e nel male, che abbia mai conosciuto ... Tuttavia m'ha fatto piacere rivedere mio padre. Per spiegare la fortuna millenaria della Chiesa non occorre scomodare il soprannaturale. Nonostante errori, cecità e delitti, nonostante l'opportunismo che caratterizza tutta la sua storia, la dottrina e la politica della Chiesa hanno quasi sempre rappresentato qualcosa di più e di meglio (meno peggio) rispetto a ogni altra alternativa filosofica e politica. Almeno fino al secolo scorso (Delescluze: « In poche settimane la Comune di Parigi ha fatto per la dignità umana più di otto secoli di altri governi. »). Questa superiorià è consistita per l'appunto nella cattolicità, l'universalismo, l'egualitarismo, l'interrazzismo. La prassi delle chiese cristiane è sempre stata una caricatura, una presa in giro dei principi sui quali pretendevano di fondarsi, ma ne restava pur sempre abbastanza per assicurare loro la sopravvivenza. Il pensiero e l'azione che si contrappongono alla Chiesa - l'Impero, il Rinascimento, la Rivoluzione scientifica, l'Illuminismo ... il Risorgimento - portano sempre il peccato originale dell'elitarismo. Prescindono dal popolo, ignorano « l'amore, la tensione degli uomini all'unione e l'attività che ne deriva » (Tolstoj), quando non lo escludono di proposito, come i vari pensieri gnostici, culti iniziatici, massonerie. Valori come Stato, Scienza, Unità nazionale, Potenza economica e politica, Libertà, Gloria ... che interesse potevano mai suscitare al di fuori di una ristretta cerchia di colti, ambiziosi, avventurosi che volevano distinguersi, arricchire, comandare? Gli umanisti arrivarono a concepire l'idea, mutuandola da Cicerone, di una vita ultraterrena riservata ai dotti e ai valo27 Biblioteca Gino Bianco

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==