donne chiesa mondo - n. 74 - dicembre 2018
DONNE CHIESA MONDO 30 DONNE CHIESA MONDO 31 di miele. Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti be- vono di me avranno ancora sete» ( Siracide 24, 19-21). Lo stesso Gesù usa la metafora del cibo per parlare del suo rap- porto col Padre: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» ( Giovanni 4, 34). E sempre Gesù definisce il credente come colui che vive non di solo pane, ma «di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» ( Matteo 4, 4). Così anche nella storia della spiritualità il vocabolario del gusto è servito a designare l’esperienza intima e profonda, la conoscenza spe- rimentale di Dio e pure la fame e sete di lui, la nostalgia del suo vol- to e il desiderio della dulcedo Dei . Questa è la vera sapienza, nel sen- so latino del sapor e del sapere. Gusto, dunque so: gustare, hoc est in- telligere (Guglielmo di Saint-Thierry). Fra i tantissimi testi sul tema citiamo il celebre inno di Bernardo di Clairvaux Jesu, dulcis memoria : «Gesù, dolce memoria, fonte di vera gioia del cuore; più del miele e di ogni altra cosa è dolce la tua presenza (…) Chi ti gusta non è an- cora sazio, chi ti beve ha ancora sete (…) Gesù, tu sei all’orecchio dolce cantico, in bocca favo mirabile, al cuore bevanda eccelsa». C’è un punto preciso in cui il gusto delle realtà spirituali si supera in qualche modo, va oltre il fenomeno della sensazione gradevole, per quanto sincera e intensa, e diventa qualcosa di ancor più vero e pro- fondo, molto più che una sensazione, poiché cambia e trasforma la persona. È quel che accade quando il Signore Gesù non è solo dulcis memoria , ma diventa lui stesso cibo, dato a noi nell’eucaristia, cibo di cui nutrirci. Lì avviene una cosa grande e straordinaria, impensabile- incomprensibile sul piano umano e solo concepibile su quello della grazia: «L’anima si trasforma in ciò che essa mangia» (Guglielmo di di Saint-Thierry). È il punto più alto per questo nostro senso del gu- sto, o la nostra vocazione più alta, a convertire i nostri gusti, per ave- re quelli del Signore. Come dire: l’eucaristia provoca la trasformazio- ne del credente in Cristo, delle sue stesse attrazioni e tendenze gusta- tive a immagine di quelle di Cristo. È tutto l’uomo, così, a esser pre- so, e trovarsi inserito in una realtà che lo sconvolge e trasforma nei sensi esterni e interni di Gesù, nella sua sensibilità e affettività, nel suo modo di vivere e di morire. Colui che è elevato da terra attira a sé ogni vivente (cfr. Giovanni 12, 32) per rivivere in ogni vivente. E cos’è quell’essere attratti dal Crocifisso se non una trasformazione del gusto interiore? Vediamo solo un paio di indicazioni circa la formazione del gusto (di fatto ignorato nelle nostre rationes formationis ). Anzitutto per evangelizzare il gusto occorre educare ed educarci alla bellezza, ovve- ro imparare a riconoscerla in noi e attorno a noi, particolarmente in colui di cui siamo chiamati a rivivere i sentimenti, nella sua parola e stile di vita, in ciò che ci dona e ci chiede. Poiché Dio è bello e dol- ce è lodarlo, e dunque bello devono essere il tempio, la liturgia, il vi- vere insieme nel suo nome, il servire il prossimo e il povero. Che sen- so ha la preghiera se non è esperienza di bellezza, se colui che prega non coglie che è semplicemente bello stare davanti a Dio, ascoltare la sua parola, “perder tempo” nell’adorazione? Che senso ha la vita cri- stiana se non è esperienza che l’essere miti, pazienti, misericordiosi, costruttori di pace, poveri e puri di cuore è bello e dà felicità, e non va vissuto come un dovere? Come può attrarre la vita consacrata se non è testimonianza di bellezza? Quale Dio annunciamo se non riu- sciamo a dire che il Padre di Gesù e nostro non cerca soldatini obbe- dienti, ma figli felici, col palato da Beatitudini e il gusto evangelizza- to? L’altra indicazione pedagogica per convertire il gusto, e non ri- fiutarlo o rimuoverlo, è il digiuno, ovvero «la forma con cui il cre- dente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo» (Bianchi) o con cui il corpo, privato volontariamente di cibo, diventa segno della fame d’ogni parola che esce dalla bocca del Padre, il vero cibo (cfr. Matteo 4, 4). Un corpo in digiuno diventa preghiera, e preghiera particolarmente vera, perché fatta dall’uomo con tutto se stesso, per- sino con lo stomaco (vuoto). Per questo, privarsi del cibo materiale che nutre il corpo facilita un’interiore disposizione ad ascoltare Cri- sto e a nutrirsi della sua parola di salvezza. Ci fa capire come do- vremmo sentire il bisogno di Dio. E come Dio possa diventare cibo che sazia e sfama. «Con il digiuno e la preghiera permettiamo a lui di venire a saziare la fame più profonda che sperimentiamo nel no- stro intimo: la fame e sete di Dio» (Benedetto XVI ). In tal senso il di- giuno è antidoto alla riduzione intellettualistica della vita spirituale o alla sua confusione con la dimensione psicologica o con la sensazione solo gradevole, e non anche sofferta, del divino. Se da un lato, dunque, il digiuno ci fa discernere qual è la nostra fame normale, di cosa viviamo e ci nutriamo, dove vanno i nostri gu- sti e quali i sapori familiari, cos’ha il potere di farci sentire sazi o af- famati, dall’altro esso disciplina la nostra oralità, sempre tentata dalla tentazione dell’accaparramento e della voracità, nei confronti non so- lo del cibo, ma delle cose, degli altri, persino dell’esperienza spiritua- le. Fino a giungere a ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è ve- ramente l’unico necessario: Dio e la sua volontà, come cibo che sazia per la vita. Da gustare per tutta la beata eternità! Per questo il digiuno è segno d’amore e Gesù chiede che sia fatto senza suonare la tromba né intristire il volto, ma con animo lieto, nell’interiorità e nel segreto (cfr. Matteo 6, 16), come cosa bella in sé, davanti al Padre. L’amore è discreto, non cerca consenso e applauso, gli basta il gusto di far le cose per amore. Proprio tale gusto è la ri- compensa del Padre. Che dà una gioia che rende bella la vita.
Made with FlippingBook
RkJQdWJsaXNoZXIy