donne chiesa mondo - n. 74 - dicembre 2018
DONNE CHIESA MONDO 10 DONNE CHIESA MONDO 11 za umana, in generale. In quest’ottica come non ricordare la sapienza della tavola vissuta dall’uomo Gesù? A tavola egli conversava con facilità, stringeva amicizia, accettava le discussioni che potevano sor- gere. Stare a tavola per Gesù era un segno, una parabola del signifi- cato della sua stessa missione: portare la presenza di Dio nel mondo, avvicinare il Regno ai peccatori, a chi da esso si sentiva escluso e lontano. Ma in questo breve contributo vorrei soffermarmi su come tale questione viene sviluppata nella tradizione cristiana, che conosce una meditazione secolare sul tema dei sensi spirituali. Basti ricordare un testo di Origene: «“Per coloro che hanno i sensi esercitati a distin- guere il bene dal male” ( Ebrei 5, 14) Cristo viene colto da ogni senso dell’anima. Ecco perché lo si chiama “vera luce” ( Giovanni 1, 9) per illuminare gli occhi dell’anima, “parola” ( Giovanni 1, 1) per essere udito, “pane di vita” ( Giovanni 6, 35) per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato “olio” ( Cantico dei cantici 1, 2) e “nardo” ( Cantico dei cantici 1, 12; 4, 13-14) perché l’anima si rallegra del profumo della Pa- rola; egli è “la parola fatta carne” ( Giovanni 1, 14), palpabile e tangi- bile, perché la mano dell’uomo interiore possa toccare qualcosa della Parola di vita» ( Commento al Cantico dei cantici II , 9, 12-13). Per restare al gusto, nella Bibbia sono numerose le immagini che permettono di collegare il gusto con la Parola. A Ezechiele Dio consegna un libro da mangiare, dolcissimo alla bocca e al palato (cfr. Ezechiele 3, 3); Giovanni, il contemplativo dell’ Apocalisse , farà la stessa esperienza, ma per lui la Parola si rivelerà amara nello stomaco (cfr. Apocalisse 10, 9-10). E il salmista canta: «Quale dolcezza al mio palato le tue promesse, Signore, più che miele nella mia bocca» ( Salmi 119, 103). “Mangiare le parole” è più che ascoltarle e acco- glierle: è addirittura — secondo gli antichi monaci — “ruminarle”, riprendere la Parola mangiata e rimasticarla, fino a fare corpo con es- sa. Così, in un meraviglioso metabolismo, la Parola ci plasma, ci for- ma, fornendoci il cibo per sostenere la nostra ricerca di senso. Sta scritto infatti: «L’uomo non vive di solo pane, ma vive di ciò che esce dalla bocca del Signore» ( Deuteronomio 8, 3; cfr. Matteo 4, 4). E al credente è chiesto di imparare a «gustare la buona parola di Dio» (cfr. Ebrei 6, 5). Ma c’è un’esperienza centrale della fede cristiana che va assoluta- mente menzionata a proposito del “gusto spirituale”: l’esperienza eu- caristica. Al culmine della liturgia eucaristica si mangia pane e si be- ve vino. Questo è ciò che percepisce la nostra oralità, ma nella fede gustiamo il corpo di Cristo, ciò che ci inebria è il suo sangue. Con i sensi spirituali facciamo esperienza della vita divina che ci invade e Ricetta dei ravioli alle tre carni Il Monferrato è una zona del Piemonte del sud che confina con le Langhe e in parte si trova al loro interno. È la terra della vigna ma anche della buona cucina. È la terra mia ma anche del papa, i cui nonni abitavano in un paese distante una ventina di chilometri dal mio. Il pranzo di festa per eccellenza, dunque il pranzo di Natale, che preparava sua nonna, Rosa, prevedeva sempre, dopo i molti antipasti, il “piatto re”, cioè i ravioli o agnolotti, conosciuti nelle Langhe fin dal XVI secolo. Mi viene chiesta la ricetta e io la fornisco volentieri, con gli auguri di un Natale ricco di epifanie di affetti e incontri. Per il ripieno dei ravioli si usano tre carni. Innanzitutto il vitello: possibilmente una parte come l’arrosto della vena, per intenderci, che non sia grassa ma neanche troppo asciutta. Anche lo scamone va bene, ma non deve essere asciutto. Arrostite il vitello in una pentola, possibilmente con aglio, insieme all’olio, al rosmarino e a due foglie di alloro. In un’altra pentola preparate il coniglio in umido: fate un battuto di pancetta dolce con un po’ di cipolla, pochissima carota, un po’ più di sedano. Tritate il tutto e lasciate che cuocia, senza però che si indori, perché altrimenti è pesante da digerire. Quindi vi mettete dentro i pezzi di coniglio, li fate ben rosolare, poi aggiungete del buon Barbera, qualche cucchiaio di salsa di pomodoro e fate cuocere un’ora e un quarto se il coniglio è tenero, un’ora e quaranta se è più duro. Quando è pronto, spolpate il tutto e lo mettete in una terrina. Infine prendete dell’arista di maiale, la tagliate a pezzetti come per uno spezzatino, la fate cuocere con un po’ di olio, pochissimo vino bianco e dei sapori. Mescolate poi insieme le tre carni, le passate nel tritacarne, quindi aggiungete il 25 per cento di borragine, una pianta aromatica molto diffusa in Piemonte e in Liguria e molto usata in cucina; è una specie di spinacio con un gusto simile a quello della salvia. La fate bollire, poi tritate anche questa. Se non avete la borragine, usate la verza, sempre nelle stesse proporzioni, ma solo le foglie esterne, più verdi. Mettete tutto insieme, aggiungete uova quante bastano e del buon parmigiano reggiano. Dopo di che, il tocco finale è dato dalla maggiorana, che a mio avviso è la pianta aromatica per eccellenza. Poi preparate la pasta, senza mettere acqua ma solo uova; solo se volete la pasta un po’ più fine, dovete aggiungere un po’ d’acqua. Infine la tagliate dando forma ai ravioli, agli agnolotti, riempiendoli con il ripieno preparato. E i sughi di arrosto che risultano dalle cotture delle varie carni li radunate insieme, li passate con il colino — che tutte le erbe restino fuori — e condite i ravioli. Buon pranzo di Natale per voi che lo preparate e per quelli invitati a condividerlo nella fraternità e nella gioia!
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