donne chiesa mondo - n. 73 - novembre 2018

DONNE CHIESA MONDO 18 DONNE CHIESA MONDO 19 me voi» per cui «dammi il tuo voto», «compra i miei prodotti», «leggi i miei libri». Ma anche di denuncia e testimonianza. In Brasi- le, ad esempio, molti ragazzi lo usano per mostrare le violenze che si consumano nelle favelas in cui vivono. In alcuni paesi arabi i selfie sono stati all’origine di vincenti campagne di emancipazione delle donne. Per molti immigrati è poi un modo di far sapere alla propria famiglia che sono ancora vivi. E i giovani che all’apertura del sinodo a loro dedicato sono arrivati per incontrare il Papa li hanno usati per dire «non siamo una massa anonima, ci sono anch’io». Ma i selfie hanno un limite oggettivo. Per quanto si possa stendere il braccio, utilizzando anche l’apposita asta, l’angolo di ripresa resta limitato. Concentrato su chi fotografa e poco più. Un occhio punta- to sull’io, dove l’altro esiste solo nella misura in cui esprimerà ap- prezzamento o disapprovazione. Il selfie è l’espressione di una società alla quale si è ristretta la vi- sta. Rinchiusa in se stessa, nelle proprie paure e nei propri egoismi. Vivian Maier, la bambinaia fotografa scoperta per caso solo qual- che anno dopo la sua morte, ha lasciato una grande quantità di im- magini tra le quali molti selfie ante litteram , realizzati utilizzando il ri- flesso di uno specchio o di una vetrina. Oggi si fa la fila per vedere le opere di questa donna che aveva un grande talento: sapeva guar- dare le persone. E proprio per questo, forse, gran parte della sua pro- duzione è rimasta racchiusa in rullini che lei non portò mai a svilup- pare. In un mondo sovraffollato di immagini è necessario ridare dignità al volto. Riconoscerne, come avrebbe voluto Emmanuel Lévinas, il valore di luogo dell’incontro con l’altro e con la storia di cui è porta- tore, per costruire rapporti basati sull’accoglienza, la fiducia e la re- sponsabilità. Al di là degli stereotipi che gli adulti cercano di cucirgli addosso, i nativi digitali sembrano però saperlo. Almeno quando si lascia loro lo spazio per esprimersi e gli si riserva l’attenzione necessaria per ascoltarli, così come hanno cercato di fare, pensando proprio all’ap- puntamento di ottobre per l’assemblea sinodale, tante diocesi e par- rocchie. Tra le molte iniziative anche quella di un originale concorso fotografico organizzato in aprile dalla parrocchia di Sant’Antonio ad Alberobello che ha invitato gli studenti delle superiori a esprimersi sul tema delle dipendenze patologiche attraverso scatti e autoscatti. I risultati del concorso, sostenuto dai dipartimenti competenti in mate- ria delle aziende sanitarie locali di Bari e di Taranto, sono stati sor- prendenti. Nessuna retorica. Solo la voglia di fare uno scatto in avan- ti. Anche con un selfie. to) o per «raccontare un momento della propria vita» (21 per cento). La stessa indagine ha evidenziato che le donne hanno una maggiore propensione al selfie rispetto agli uomini, ma con una finalità più intimistica: «Mi faccio selfie per mostrare come sono e come mi sento». Se per constatare la dimensione planetaria del fenomeno potrebbe bastare anche solo guardarsi intorno, non è altrettanto semplice com- prendere i bisogni profondi che il selfie promette di soddisfare. Nella società liquida descritta da Zygmunt Bauman, la paura atavica di ri- manere soli e ignorati dagli altri si è amplificata. La connessione ven- tiquattr’ore su ventiquattro impone nuovi comportamenti per dire «io ci sono», ma aumenta insicurezze e frustrazioni. Il Narciso 2.0, incapace di distinguere tra pubblico e privato, non si accontenta di contemplare il riflesso di sé che appare sullo schermo del telefonino. Si nutre del riconoscimento e del consenso degli altri. Una fame in- saziabile che può diventare patologia — lo ha riconosciuto l’associa- zione degli psichiatri statunitensi — e mettere a rischio la vita: un’università della Pennsylvania ha registrato lo scorso anno 170 casi di morti per selfie “estremo”. Come ogni mezzo e forma di comunicazione il selfie non è neutro. La natura stessa delle immagini e la pervasività della rete ne fanno un potente strumento per la creazione di consenso: «Io sono uno co- queste donne e i loro figli potranno contribuire alla costruzione di una società diversa, qui nel territorio romano, dove sono inserite». Domestiche indonesiane in vendita su internet La notizia è di qualche settimana fa, ma in pochi l’hanno rilanciata: le autorità di Singapore, ha annunciato il locale ministero del lavoro, hanno incriminato un’agenzia di collocamento per la pubblicazione di annunci per la vendita di domestiche indonesiane su un sito commerciale. A Singapore si trovano circa duecentocinquantamila donne di servizio, per lo più provenienti da regioni povere d’Indonesia, Filippine e Myanmar. Regolamentate da una rigida normativa, nella città stato le condizioni per le cameriere indonesiane sono generalmente considerate migliori rispetto a quelle di altri paesi. Tuttavia, le pubblicità sul sito Carousell hanno scatenato un’ondata >> 21 >> 14 Un autoscatto allo specchio di Vivian Maier (1955)

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