donne chiesa mondo - n. 66 - marzo 2018

DONNE CHIESA MONDO 24 DONNE CHIESA MONDO 25 Gilead le donne come Serena Joy Waterford, mogli di alti funzionari, esistono solo per la loro capacità di mettere al mondo un figlio, con qualunque mezzo. Al pari delle serve, non hanno accesso ai libri. Le prime, se non incinte, vivono sotto la minaccia di essere inviate nelle Colonie, spazi post-apocalittici, per raccogliere scorie radioattive a mani nude. Se incinte, vengono trattate come animali da concorso. La loro alimentazione è rigidamente controllata, come del resto nelle cliniche delle madri surrogate che esistono già in diverse parti del mondo. Partoriscono sulle ginocchia delle loro padrone, che, in una parodia tragica, imitano i loro ansiti, le loro spinte in tempo reale, per recuperare il neonato alla fine del parto e poi prendere subito il posto della partoriente nel letto. La serva vede il suo bambino solo per qualche settimana, il tempo di svezzarlo dopo averlo allattato, poi viene consegnata a un’altra coppia in attesa di un figlio. In modo estremo, la serie affronta il legame tra maternità surroga- ta e tratta umana: la madre surrogata, in questa transazione, può for- se essere considerata qualcosa di diverso da un oggetto? E che ne è del bambino? Sintomaticamente, a Gilead, i bambini sono tanto si- lenziosi quanto sono stati desiderati. Li si esibisce, ma non li si guar- da veramente e li si ascolta ancor meno. I dirigenti assicurano che avranno una vita bella, comoda e piena di opportunità. Tutti parlano per loro ma nessuno pensa di dare loro la parola. Le madri surrogate non hanno il diritto di lasciarsi andare alla tristezza perché l’hanno fatto, per così dire, in nome del bene: le loro emozioni devo essere inibite. Eppure le emozioni montano in loro come la lava in un vulcano pronto a esplodere: strazio durante la gravidanza al pensiero che il bambino che portano in grembo sarà strappato loro alla nascita, an- goscia al pensiero della separazione. Immagine speculare di questa sofferenza è il malessere di quante ricorrono a una madre surrogata tra gratitudine e risentimento. Quest’ultima, poiché “portatrice”, ma- dre non lo è già più: la transazione infatti spezza il legame di forza. Ufficialmente le serve sono motivo di orgoglio nazionale per Gilead. Ma in realtà sono solo una risorsa economica che i dirigenti — con grande cinismo — commercializzano con altri paesi a loro volta colpi- ti dalla crisi della natalità. Sono un mercato. La loro vita è uno stru- mento di produzione. Tutto in questo totalitarismo è strumentalizza- to, al pari della religione ridotta al rango di cosmetico, usato per truccare piacevolmente l’orrendo volto dello sfruttamento umano. «Non si fa una frittata senza rompere delle uova. Una società ideale lo è solo per alcuni». basata sul romanzo e trasmessa nel 2017 su una piattaforma america- na ha riscosso un tale successo internazionale da far razzia di ben cinque riconoscimenti ai celebri Emmy Awards. Un entusiasmo incre- dibile per questo romanzo pubblicato nel 1985 da Margaret Atwood, la scrittrice specializzata nel genere distopico. E, fatte poche eccezio- ni, la serie è rimasta abbastanza fedele al romanzo. A pagina 23 una illustrazione di Rebekka Dunlap per il «New York Post» La storia, molto lugubre e violenta nel romanzo, ma ancor di più nelle immagini della serie televisiva, viene raccontata dal punto di vi- sta di June, una delle madri surrogate, che trova la forza di affrontare la sua condizione di serva richiamando alla mente i ricordi della sua vita precedente al rapimento e alla riduzione in schiavitù, quando era sposata con un uomo che amava e con il quale aveva avuto una fi- glia. June lavora presso i Waterford. Non si chiama più June ma Di- fred, proprietà di Fred Waterford. Ogni mese deve subire uno stupro nella camera matrimoniale, dopo un rituale segnato dalla lettura del racconto biblico della storia di Sara che, non potendo avere figli, of- fre la sua serva Agar allo sposo Abramo. E poiché il regime decima meticolosamente i preti e i pastori, le voci pronte a levarsi contro questa lettura delirante dei testi religiosi sono ormai poche. Alcune donne, ed è questo forse l’aspetto più agghiacciante, sono complici del sistema che asservisce le loro simili. È il caso di Serena Joy, la “padrona” di June. Brizzolata nel libro, bionda hitchcockiana nella serie, ma pur sempre machiavellica, ha scritto un saggio sulla fecon- dità come ricchezza economica reale di uno stato. Con quel saggio, Serena Joy ha concettualizzato l’utopia politico-economica di Gilead, fornendo una pseudo-giustificazione umanistica e spirituale alla tratta umana. Ma ha anche tessuto la tela in cui ora si dibatte. Perché a

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