donne chiesa mondo - n. 64 - gennaio 2018
DONNE CHIESA MONDO 18 DONNE CHIESA MONDO 19 passaggio per i viaggiatori: deve chiamarsi assolutamente così» le disse la signora Galton. Che cosa rende la figura di questa donna talmente straordinaria da essere ancora oggi una guida per i professionisti delle cure palliative? Il “sentiero di Cecily” lo spiega chiaramente. «Una visione integrale della malattia e della cura, (...) la scoperta dell’efficacia di un tratta- mento regolare del dolore, il riconoscimento del “dolore totale” dei morenti, fino alla comprensione del potenziale potere curativo delle relazioni nelle cure di fine vita (...), Cecily Saunders ha segnato una svolta». Il manifesto si articola in cinque punti evidenziando l’attua- lità di un’esperienza vivissima. La dimensione spirituale della cura discende dal concetto di «dolore totale»: chi è alla fine della vita sof- fre non solo nel corpo ma anche nello spirito, nella psiche, a livello sociale e culturale. «La direzione indicata da Cecily — si legge — è senz’altro quella dell’incontro con ogni autentica espressione di spiri- tualità dell’uomo, considerata come bisogno e come risorsa (...)». In secondo luogo si affronta la tematica della sedazione palliativa, già descritta dalla Saunders: questa procedura è «coerente con la tutela della dignità della persona» ed è intervento «ben fondato a certe condizioni sul principio di totalità e terapeutico (...)», in perfetto ac- cordo “con l’ispirazione di Cecily” e in netta opposizione rispetto al- la logica eutanasica. «Quali caratteristiche devono avere le dichiara- zioni anticipate di trattamento e la pianificazione anticipata delle cu- re per corrispondere alla centralità della persona espressa nel pensie- ro della Saunders (...)?» si chiedono gli autori nel terzo punto. La ri- sposta sta nel riferirsi all’autonomia relazionale piuttosto che a un principio di autodeterminazione assoluta, nel rispetto per i pazienti che, scriveva Cecily, «affrontano l’avversità». «Il risultato della cura — aggiungeva — deve essere il loro, non il nostro». Fermissima, il documento lo evidenzia nel quarto punto, è sempre stata l’opposizione della fondatrice all’eutanasia: la Saunders insegna ancor oggi a mantenere le soluzioni che abbreviano la vita al di fuori dell’orizzonte delle cure palliative, fiduciosa nel fatto che un approc- cio umano e competente al paziente possa far trovare nella relazione terapeutica inattese soluzioni. Infine «sin dalla sua fondazione il mo- dern hospice è luogo di formazione e ricerca», non solo «esclusiva- mente di accoglienza e cura compassionevole»: un’intuizione, una “vera novità” che guida ancora oggi chi intende assistere i pazienti morenti e che stimola verso nuovi traguardi. «Ancora una volta si conferma — conclude il manifesto — come nelle intuizioni fondative di Cecily Saunders le cure palliative non trovino solamente radici e punti di riferimento da mantenere saldi ma anche notevoli elementi di modernità e spunti di crescita e novità ancora da realizzare com- piutamente». qua... non ci rimaneva nulla, non avevamo nulla da offrire se non noi stesse». La vita la forgiò sulla strada del sacrificio, della sobrietà e dell’azione. David Clark, profondo conoscitore di Cecily Saunders ci- tato in apertura del manifesto, sottolinea il profondo legame «tra la biografia personale, la vita spirituale e l’etica della cura» che la carat- terizza. Diplomatasi infermiera nel 1944 alla durissima scuola Ni- ghtingale, cristiana anglicana dal 1947, completò rapidamente gli stu- di universitari per divenire assistente sociale dopo alcuni problemi al- la schiena che le impedivano di esercitare la professione infermieristi- ca. Presso il Saint Thomas Hospital di Londra incontrò un paziente che le cambiò la vita: David Tasma, un ebreo scampato al ghetto di Varsavia e affetto da una neoplasia in fase terminale. Discusse a lun- go con lui, immaginò un luogo specifico per assistere i malati alla fi- ne della vita e ricevette un dono. David le affidò un lascito di 500 sterline: «Sarò una finestra della tua casa» le disse. «Mi ci vollero diciannove anni per costruire quella casa attorno al- la finestra» confidò un giorno Cecily Saunders. Quella casa è ancora oggi il Saint Christopher Hospice, nato nel 1967 e precursore di mol- tissime altre strutture simili nel mondo. Da infermiera in quegli anni avrebbe rischiato di non essere ascoltata da nessuno: un chirurgo to- racico per il quale lavorava le consigliò di iscriversi a medicina e a 39 anni la Saunders conseguì laurea e abilitazione. Fu ancora una volta una paziente a ispirarla per il nome Saint Christopher: «Un luogo di pasto agli ippopotami. Le più fortunate venivano “salvate” (dopo essere state obbligate a sbarazzarsi dei bambini) da persone in cerca di schiave a costo zero. Nel documentario questa storia agghiacciante è raccontata dall’isola, voce fuori campo che narra le vicende di Mauda, Jenerasi e Grace, tre sopravvissute rintracciate dalla regista italiana. E se l’arrivo dei missionari ha portato all’abbandono della pratica (oggi Akampene ha solo ampi ciuffi di canne), la mentalità non sembra cambiata. Le stesse ragazze, infatti, definiscono la gravidanza (anche frutto di stupro) una colpa, e i loro nuovi padroni dei benefattori. Le fotografe della Grande guerra Fotografie scattate da donne in prima linea durante la Grande guerra: è uno sguardo davvero nuovo sull’inutile strage quello offerto dalla mostra No Man’s Land , curata da Pippa Oldfield, in corso alla Impressions Gallery di Bradford. Le >> 21 >> 12
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