donne chiesa mondo - n. 62 - novembre 2017

DONNE CHIESA MONDO 32 DONNE CHIESA MONDO 33 gliere ai figli di Dio la benedizione, il pane, per darli alla gente im- pura? E tanto meno alla gente di qui, che è nostra nemica da sem- pre. Per la mia mente passavano tutti questi pensieri. È normale per un ebreo pensarla così. E io sono ebreo. Così ci è stato insegnato, di generazione in generazione. Ma… la sua risposta al mio insulto mi ha stupito tanto da risuo- nare ancora nelle mie orecchie. Non avevo mai udito argomentazioni così convincenti come le sue. Di fatto, riprendendo il mio discorso, mi ha guardato negli occhi e ha risposto: «Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli». Poi si è alzata e ha abbassato di nuovo la testa. È rimasta in piedi. Ero poco più alto di lei. Eravamo tutti e due fermi nello stesso po- sto, allo stesso tempo e sotto lo stesso tetto, e stavamo utilizzando lo stesso linguaggio. Ma la casa non era né sua né mia, e neppure la lingua in cui stavamo comunicando. Eravamo diversi, lei era una donna di un’altra cultura, un’altra religione, un’altra classe sociale, un’altra visione del mondo. Io ero uomo, ebreo, povero, discendente diretto di Abramo, con la missione di proclamare il regno di Dio al mio popolo. Dietro le sue parole s’intravedeva la sua erudizione. Era indubbia- mente una donna molto colta. Le sue argomentazioni erano davvero convincenti. Sapeva come ottenere quello che voleva. Doveva amare molto sua figlia per abbassarsi in quel modo. Prima si è inginocchia- ta dinanzi a me, l’ebreo, il contadino, il galileo del quale aveva sapu- to che curava e scacciava demoni. Poi ha ribaltato il mio discorso, ri- prendendo la mia metafora negativa sui pagani. Ha rigirato le mie parole e le ha trasformate in un discorso a suo favore, pur accettando una posizione secondaria. «Sì Signore», mi ha detto rispettosamente, dando a intendere che era d’accordo sul fatto che noi ebrei avevamo una posizione privile- giata dinanzi a Dio, nel senso che eravamo i primi nella lista. Non in senso settario, ossia unici ed eletti, come ci fanno credere i nostri ca- pi sciovinisti. Ma nel senso che siamo i primi a essere chiamati a di- venire luce delle nazioni, a proclamare a tutti l’amore di Dio. Non mi ha chiamato «Signore» per indicare che aveva fede in me come Salvatore, come alcuni potrebbero pensare ( Matteo 15, 28). Non ave- va alcuna intenzione di seguirmi, come voleva fare il giovane di Ge- rasa dal quale avevo scacciato tanti demoni ( Marco 5, 8-29). Lei aveva la sua cultura e la sua religione. Aveva sì fede in me, ma nel senso che, avendo saputo dei miracoli che avevo compiuto a Gerasa e in Galilea, potevo ben guarire sua figlia. Questo l’ho capito dal primo momento in cui si è avvicinata a me. Elsa Tamez è messicano-costaricana, residente in Colombia. È professoressa emerita dell’Universidad Bíblica Latinoamericana. Ha conseguito il dottorato in teologia all’università di Losanna, in Svizzera, e la laurea in letteratura e linguistica all’Universidad Nacional di Costa Rica. Ha scritto diversi libri e innumerevoli articoli tradotti in più lingue. Tra le sue opere più note: La Biblia de los oprimidos , Contra toda condena . La justificación por la fe desde los excluidos , El mensaje escandaloso de Santiago , Luchas de poder en los orígenes del cristianismo . Ha ricevuto vari premi per il suo contributo alla lettura contestuale della Bibbia. pe). Proprio di questo stavo parlando con il mio amico ebreo di Ti- ro, lui mi stava raccontando delle tensioni tra gli ebrei e i gentili che vivono qui. Io ero in questo stato d’animo, e lei, in modo imprudente, arriva, entra e s’inginocchia ai miei piedi. All’inizio, lo ammetto, non ho provato compassione, volevo solo che se ne andasse. Pensandoci be- ne, non so neppure io il perché, di solito non sono così. Lei stava lì, una donna colta, si percepiva chiaramente il suo por- tamento ellenizzato. Parlava un greco di gran lunga migliore del mio. Era originaria della Fenicia, della provincia romana di Siria, avrebbe potuto rivolgersi a me in aramaico. Ma ha parlato in greco. Si pote- va intuire che era benestante. Io ero un contadino, con i sandali im- polverati, un galileo ebreo, straniero a Tiro. E lei stava lì, umiliata, inginocchiata ai miei piedi, non perché ero un uomo, ma perché il suo era un atteggiamento di supplica. Sul suo viso si notavano i se- gni della sofferenza. Poco a poco la mia stanchezza e il mio malu- more sono svaniti. «Che cosa vuoi che faccia per te?», le ho chiesto. Lei è rimasta in silenzio, stava piangendo, poi con voce dolcissima, fissandomi i pie- di, mi ha detto: «La mia figlioletta è malata, ha un demonio». Io non volevo ascoltarla. Perché è venuta, ho pensato. «Dove sta ora tua figlia?». «A casa — mi ha detto — con le convulsioni e correndo come una pazza da una parte all’altra». In quel momento ha sollevato il viso e mi ha guardato con occhi supplichevoli: «Il demonio non la lascia in pace. Per favore guarisci- la». Io sono rimasto in silenzio. Non pensavo proprio che anche i gen- tili accettassero le benedizioni dai figli di Abramo. Ora mi rendo conto che mi stavo comportando come uno qualun- que dei miei concittadini ebrei. Allora mi è venuto in mente un detto offensivo, comune tra noi, e le ho risposto metaforicamente: «Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». So che chiamare cani i pagani è un insulto grave. Ma culturalmen- te è così interiorizzato nella mente e nel vocabolario della nostra gen- te da non renderci più conto che stiamo insultando chi non professa la religione ebraica, la nostra visione del mondo culturale. Perché per noi i figli sono gli israeliti e i cani sono i pagani. Qualsiasi ebreo sa che il pane si dà ai figli, di discendenza eletta. Dobbiamo forse to- L’autrice

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