donne chiesa mondo - n. 61 - ottobre 2017

DONNE CHIESA MONDO 14 DONNE CHIESA MONDO 15 Ecco allora che per queste donne scappare da tutto ciò diventa es- senziale, sopravvivere a tutto ciò diventa una sfida. Le donne mi- granti vittime di tortura sono donne in fuga dal loro paese, dai loro aguzzini, sono donne in fuga dal “male”. Vivono il dolore della sepa- razione e dello sradicamento, la nostalgia degli affetti, l’angoscia del passato, l’incertezza del futuro. Negli occhi, nel cuore e sul loro cor- po non hanno “solo” scene di miseria, di sofferenza, di guerra (che sarebbero già di per sé un “troppo di dolore”!) ma sono diventate es- se stesse sepolcro vivente delle torture subite e degli stupri patiti. Lentamente attraverso l’incontro con l’altro e la restituzione dell’integrità del loro corpo e del loro cuore, coltivano la speranza che anche per loro possa esistere un mondo migliore e ci interrogano quotidianamente per sapere se anche noi ne faremo parte, se saremo quel pezzetto di mondo migliore che cambierà la loro vita. Accanto a una donna torturata o stuprata ciascuno di noi, inevitabilmente, do- vrà decidere se “chinare i l capo e volgere lo sguardo altrove” oppure diventare protagonista di quel cambiamento che, partendo da noi stessi, restituirà alla vittima quel volto e quello sguardo che l’aguzzi- no ha deliberatamente annientato. Giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, mi sono accorta che, per le vittime di tortura, il vero processo curante non poteva conclu- dersi in un gesto medico di tipo diagnostico e/o terapeutico ma do- veva andare oltre assumendo su di sé l’impegno di una svolta auten- tica nella vita di queste donne. Ecco allora che la visita, la mia visita, non poteva essere solo un modo per accertare le lesioni o curare le malattie o le ferite ma, inevitabilmente, doveva diventare un gesto sa- nante capace di “umanizzare ciò che altri hanno brutalizzato e disu- manizzato”. Visita medica, quindi, come restituzione della bellezza di un cor- po, della tenerezza dei sentimenti, dell’unicità di un volto, della pos- sibilità di sognare. Questi pensieri sono diventati dirompenti quando, all’inizio della mia professione, ho colto drammaticamente che con i miei gesti di cura andavo a ripetere sui loro corpi gesti probabilmente già compiu- ti dall’aguzzino. Aver scoperto la drammaticità evocativa di ciò che per me era solo gesto curante ha reso essenziale dare un nuovo significato alla cura. Visitando una donna vittima di tortura, inevita- bilmente mi avvalgo di una gestualità che entra in relazione con le sue ferite più profonde e che viola una volta di più il suo corpo. Ep- pure i miei gesti possono diventare autenticamente terapeutici se, ol- tre a curare le ferite del corpo, sapranno restituire umanità alla don- na stessa. Accomunare la tortura e lo stupro facendosi carico delle donne che patiscono l’una o l’altro vuol dire, finalmente, fare proprio e met- tere in pratica ciò che l’Onu ha enunciato e riconosciuto da tempo: infatti il 23 settembre 1998 il Tribunale penale internazionale per il Rwanda (che fa capo all’Onu) ha equiparato la violenza sessuale ai crimini di guerra. Con la risoluzione 1820 del 19 giugno 2008 l’Onu ha inserito lo stupro tra le armi da guerra usate dai governi o dalle milizie durante i conflitti per torturare, umiliare, spaventare, degradare, deva- stare. Infine il protocollo di Istanbul, promosso dalle Nazioni Unite nel 2008, ha sancito che lo stupro è una forma di tortura e lascia le stesse tracce indelebili della tortura nella mente di una persona. Con questa consapevolezza osservo entrare nel mio ambulatorio donne migranti, vittime designate di un pensiero perverso che fonda le sue radici nell’azione disumanizzante della tortura (sia essa fisica, sia essa sessuale). Incontrare queste donne ha voluto dire, per me, fare i conti dram- maticamente con gli esiti fisici e psicologici di una vera e propria “or- ganizzazione del male”. Ha voluto dire accettare che non c’è un limi- te al dolore consapevolmente inflitto e al desiderio di sopraffare e dominare attraverso il terrore e la violenza. Nel torturatore mancano empatia, emozioni, sentimenti, tenerezza, percezione del dolore dell’altro, per lui la vittima è solo carne da usa- Accomunare la tortura e lo stupro facendosi carico delle donne che patiscono l’una o l’altro vuol dire finalmente fare proprio e mettere in pratica ciò che l’Onu ha enunciato e riconosciuto da tempo servizi sanitari non può essere un privilegio»), le suore hanno scritto che togliere l’assistenza medica non è una posizione pro life . Dopo interventi di esperti (e non) di ogni schieramento politico e religione che hanno dimostrato che senza l’ Obama Care nel prossimo decennio 22 milioni di statunitensi non avranno più i soldi per pagarsi un’assicurazione sanitaria, un’altra spinta per una (forse) definitiva bocciatura è venuta dalle religiose, testimoni viventi delle difficoltà che vive l’America di oggi. E di domani. Cuscini per il parto per le ugandesi Sono stati presentati a Washington i «cuscini per il parto» ideati dalla ong Medici con l’Africa (Cuamm) per convincere le donne della Karamoja, regione a nord dell’Uganda, a partorire in ospedale o nei centri sanitari, senza dover rinunciare alle proprie tradizioni. I birth cushions rappresentano un’innovazione low- re, da trasformare in un grumo di dolore. Il dolore e la sofferenza patiti, durante le torture, dalle vittime sono così acuti che, spesso, l’unico desiderio che esse hanno è quello di morire, perché solo la morte potrà porre fine a ciò che già vivono come una fine. Eppure nella strategia dell’aguzzino e dello stupratore la sopravvivenza della vittima diventa elemento fondamentale, condizione essenziale del proprio potere e monito per le genti: la vittima di tortura deve soffri- re ma non morire, deve essere terrorizzata, degradata e umiliata ma continuare a vivere. >> 21 >> 12

RkJQdWJsaXNoZXIy