donne chiesa mondo - n. 61 - ottobre 2017
DONNE CHIESA MONDO 10 DONNE CHIESA MONDO 11 Un gruppo di uomini libici, trafficanti, ha scelto cinque tra le donne per portarle in una stanza adiacente al capannone. Fatima era una di queste donne. Quando suo marito ha capito co- sa stava per accadere ha cominciato a gridare, si è gettato sui traffi- canti con le poche forze che aveva ancora in corpo, gridava che non toccassero sua moglie, che l’avrebbe salvata, gridava il suo nome. Fa- tima. Ma un trafficante ha estratto una pistola dalla tasca e l’ha ucciso, a sangue freddo. Di fronte a sua moglie e agli altri eritrei. Fatima è una giovane donna in un corpo esile, le labbra vorrebbe- ro accennare un sorriso, ma il dolore è troppo. È troppa la fatica del- la memoria. «Quando mi hanno trascinata via io non avevo la forza nemmeno di gridare, pensavo al corpo di mio marito, coperto di sangue a terra come un animale. Mi hanno violentata in cinque, per una notte inte- ra. E non solo me, anche altre due donne almeno, che sentivo grida- re nelle stanze vicine. Ricordo solo il corpo a terra di mio marito e il risveglio il mattino dopo. Nel mezzo c’è la fine della mia vita». Il mattino dopo i trafficanti che l’hanno violentata non erano più nel capannone, sostituiti da altri uomini, sconosciuti, che avrebbero portato il gruppo a Sabratha. Fatima era sotto choc, non camminava, non parlava. Ripeteva solo il nome di suo marito, il suo corpo non c’era già più, gettato chissà dove, chissà quando, chissà da chi. Le altre donne, sopravvissute come lei a quella notte d’inferno, le tenevano ferme le mani tremanti, le sussurravano parole di conforto alle orecchie, per convincerla a partire. Perché Fatima non voleva più partire. Voleva cercare il corpo del marito. Piangere almeno la sua morte. «Mi hanno caricato sul camion diretto a Sabratha con la forza, io mi disperavo, ricordo solo le urla. Poi mi sono addormentata e mi sono risvegliata in un’altra casa, vicino al mare, un altro capannone, nella città da cui avremmo poi preso un gommone». Nel secondo capannone Fatima ha trascorso un mese, quattro set- timane di stenti. Non c’era cibo per tutti, al punto che le donne si picchiavano per dividersi il poco pane raffermo a disposizione da da- re ai propri figli. Ogni giorno le persone aumentavano, ammassate. Dopo una settimana Fatima ha capito che avrebbero atteso in quella stanza sporca e infetta fino a che i trafficanti non avessero rag- giunto un numero di uomini e donne che ritenevano sufficientemente redditizio. Così dopo un mese, quando nello stanzone c’erano ormai più di 400 persone, sono stati svegliati una notte, diretti verso la spiaggia. «Non dimenticherò mai l’odore di quel luogo, non dimenticherò che bestie ci hanno fatto diventare. Quando compariva la mano di uno dei trafficanti, con del cibo o dell’acqua dalle grate delle finestre non eravamo più uomini. Eravamo meno delle bestie. Eravamo carne umana che non serviva a niente, se non a pagare il prezzo del viag- gio in Italia. Ognuno faceva la guerra alla persona che aveva accanto per avere un tozzo di pane, un sorso d’acqua. Gli uomini picchiati. Le donne violentate». Una notte dello scorso settembre Fatima è stata salvata a poche miglia dalle coste libiche, ricorda il sorriso di chi l’ha accolta a bordo. Il primo dopo mesi di abusi. Il primo dopo aver perso suo marito. Oggi Fatima ha iniziato la sua lenta battaglia per ottenere asilo. Per avere suo figlio accanto a sé, che ancora non sa che ha perso suo padre. Ma ci vorranno anni, e chissà se allora Fatima avrà ancora la forza di accennare un sorriso. Eravamo meno delle bestie Eravamo carne umana che serviva solo a pagare il prezzo del viaggio in Italia Ognuno faceva la guerra alla persona che aveva accanto per avere un tozzo di pane un sorso d’acqua “
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