donne chiesa mondo - n. 57 - maggio 2017
DONNE CHIESA MONDO 20 DONNE CHIESA MONDO 21 improvvisamente spinta in una maternità inattesa. Sono poche le possibilità quindi d’ignorare questo dato intimo, brandito come uno stendardo da duemila anni di cristianesimo: la tua verginità. Ma c’è di peggio: dell’aggettivo “vergine” è stato fatto il tuo nome. Con la maiuscola. Nel IV secolo, il vescovo Epifanio trova spirituale meravigliarsi: «In quale epoca e in quali circostanze si è mai osato pronunciare il nome di Maria senza specificare che si tratta della “Vergine?”». Poi, nel VI e VII secolo, i concili di Costantinopoli (553) e del Laterano (649) chiusero definitivamente a chiave la tua cintura di castità: poi- ché sei «la Vergine», lo sarai in eterno! Se nessuno se ne è occupato a suo tempo, vorrei ora essere io a fruire del diritto di rispondere a monsignor Epifanio: sì, qualcuno ha osato pronunciare il nome di Maria senza specificare «la Vergine». E quel qualcuno è Paolo; san Paolo, addirittura, per i cattolici. Scrive ai galati un po’ prima della stesura definitiva di quelli che divente- ranno i quattro vangeli. E riguardo a te Paolo non dice «Vergine», dice sobriamente «donna». Con la minuscola, scrive semplicemente: «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» ( Galati 4, 4). Teologicamente, chiamarti con il nome comune di «donna» signi- fica dire qualcosa di essenziale: la normalità. La normalità dei propugnatori della Parola è un elemento determi- nante della rivelazione biblica. Da Mosè a Davide, passando per Ruth, Geremia, Giona, il tuo Giuseppe, piccolo falegname del picco- lo villaggio di Nazareth, Dio ama chiaramente rivolgersi all’uomo e alla donna qualunque. Lo straordinario di Dio s’incarna nell’ordina- rio, è proprio questo il bello del cristianesimo, mia buona signora. Bisogna però ammettere che l’ordinario non si vende bene in ter- mini di marketing religioso. E devo proprio confessarlo, Maria: se tu mi hai attratto quando ero bambina, è per lo sfarzo, le dorature, l’im- ponenza delle tue statue, la tua aristocrazia celeste. Ma quando sono diventata adulta per la stessa ragione ti ho odia- to. Perché dopo di te, come si poteva essere donna ? La storia dell’iconografia mariana, devo dirtelo, ha travestito la giovane donna comune che tu certamente eri per tenderci meglio la mano. Per tenderci meglio una trappola, la maggior parte dei pittori ti hanno raffigurata con l’aureola, con la corona, intoccabile. Colmo del cristianesimo: religione dell’incarnazione che ha però utilizzato tutta la sua energia per disincarnare la giovane donna che tu eri. Nella sua versione dell’ Annunciazione Duccio di Buoninsegna ( XIV secolo) non esita a porre un vaso di gigli bianchi tra te e Gabriele. «Sono gli emblemi della castità e della verginità perpetua di Maria» leggo. «Lei è il vaso intatto; “come un giglio tra i cardi” ( cantico dei cantici 2, 2)». Ahi, sono tentata di dire (ma sì, ho capito bene la me- tafora: le spine siamo noi, e suppongo che con questo noi si deve in- tendere tutto il mondo femminile, salvo te). Eppure... benché protestante, potrei amarti Maria. Se solo potessi- mo avere quelle conversazioni tra donne, dove si supera a volte il pu- dore per confrontarsi con l’altra. Il progetto biblico non consiste pro- prio nell’offrire all’umanità non un vecchio libro ma uno specchio? Offrirci una genealogia dove si è santi solo se formati di argilla, tan- to che Dio ha ancora del fango sulle mani. Benedetto sia Fra Angelico che, nella prima delle otto Annunciazio- ni che gli sono state attribuite (datata 1430 circa, esposta oggi al Mu- seo del Prado di Madrid), senza rinunciare a illuminarti, inserisce, sotto la volta che ti ripara, il dettaglio di una rondine. Non che la rondine sostituisca la colomba, che rappresenta lo Spirito santo inse- minatore. Essa l’assiste, per così dire, con la sua semplice presenza. E quella presenza mi è dolce perché la rondine è tanto comune, è un uccello a cui solo i contadini prestano ancora attenzione, un uccello di stalla a cui nulla piace di più del calore di un fienile dove rumina un gregge. Troppo sfarzo, Maria, te lo ripeto, per fare di te una sorella; la so- rella maggiore che avresti potuto essere se ci fossimo attenuti a quel poco che i vangeli dicono di te. E io, che mi aggiro per i musei, avida di un’immagine di te che possa riannodare il dialogo intimo, imparo a essere una donna, impa- ro a essere una madre. Trovo qualcosa di questo invito nella tua resistenza riprodotta da Matthias Grünewald. Abitando a pochi chilometri da Colmar, ho avuto l’inaudito privilegio di poter contemplare con tutta calma l’al- tare di Isenheim. Il tuo corpo restio, la torsione irrefrenabile del tuo busto davanti al dito dell’angelo puntato verso di te come una frec- cia, tutto ciò sì che può dirmi qualcosa della vertigine, dell’ebrezza, della contraddizione insite nell’essere designata così, che sia da Dio o da un uomo. Sento che siamo complici. Nelle pagine successive: Matthias Grünewald Altare di Isenheim (1512-1516)
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