donne chiesa mondo - n. 50 - ottobre 2016

DONNE CHIESA MONDO 4 DONNE CHIESA MONDO 5 Regno Unito è in prima linea negli sforzi internazionali per promuo- vere i diritti umani, migliorare il mantenimento della pace, promuo- vere la partecipazione delle donne ai processi di pace e porre fine al- la violenza sessuale nei conflitti. Ma questa è una responsabilità col- lettiva e non può essere realizzata da un solo paese. Come proteggere queste donne? Come ha riconosciuto la risoluzione delle Nazioni Unite, ben lon- tano dall’essere incidentale, un tal genere di violenza costituisce una vera e propria tattica di guerra. E possiamo dire che nel XX secolo, se da un lato si afferma lo status giuridico dello stupro come crimine contro la persona, dall’altro la violenza di massa contro la popolazio- ne femminile diviene parte della strategia politico-militare e strumen- to di pulizia etnica, usato per terrorizzare l’intera comunità di appar- tenenza. Ovviamente in questo contesto le norme internazionali sono fondamentali, ma da sole non bastano. Proprio per questo le comu- nità locali, in particolare le comunità religiose cattoliche e le donne di congregazioni religiose — spesso gli unici a rimanere durante e do- po la fine dei conflitti — sono fondamentali. La loro grande determi- settembre del 2015 solo nello Stato di Unity e più di 50 casi da set- tembre a ottobre. Ma non solo. In dieci missioni di caschi blu, sulle 16 operative nel 2014, sono stati denunciati 52 casi di stupro di bam- bini e altre violenze sessuali commessi da soldati, agenti di polizia e volontari. Nel 2015 il numero è salito a 69 (e si tratta solo dei casi ve- nuti alla luce). Una delle missioni dei caschi blu sotto inchiesta da mesi è la Minusca, quasi 12.000 unità tra militari, agenti di polizia e personale civile, incaricata di riportare l’ordine nella Repubblica Centrafricana, un paese in guerra dalla fine del 2012. Dopo lo stupro di una bambina di soli 12 anni, violentata lo scorso agosto durante una operazione affidata a peacekeeper inviati dal Rwanda e dal Ca- merun, si sono scoperti altri casi di violenza sessuale su bambini di strada». In molti conflitti contemporanei privi di linea del fronte, dove a combattersi sono si- gle paramilitari con alleanze ambigue e volatili, il corpo delle donne è diventato un campo di battaglia. Cosa si deve fare per contrastare queste tragedie? Fin dal XIX secolo anche i conflitti armati sono sottoposti a parti- colari norme di diritto internazionale, ma la natura delle guerre del passato era molto diversa da quella attuale, così le stesse norme giuri- diche che regolano i conflitti hanno subito negli ultimi cento anni una rapida evoluzione. Prima, infatti, il diritto tradizionale discipli- nava soltanto i conflitti armati tra Stati e considerava legittimi com- battenti esclusivamente i membri degli eserciti regolari. Oggi la situa- zione è cambiata. Prendiamo ad esempio la Repubblica Democratica del Congo, che dalla metà degli anni Novanta è al centro di una guerra senza precedenti nella storia africana per violenza e dimensio- ni. Più di venticinque fazioni ribelli e ben otto eserciti che si combat- tono senza tregua. Qui, gli stupri di massa su donne e bambini sono all’ordine del giorno (quasi una violenza al minuto) e sono compiuti tanto da ribelli quanto da membri delle forze di sicurezza statali. Nuovi problemi, nuovi scenari hanno aperto la strada verso nuove ri- sposte. Nel 2008, abbiamo raggiunto un accordo storico per porre fi- ne alla violenza sessuale nei conflitti: da quel momento in poi stupri e violenze sessuali nelle zone di conflitto costituiscono gravi violazio- ni della Convenzione di Ginevra, al pari dei crimini di guerra. Strada che è stata aperta dalle Nazioni Unite che hanno approvato alcuni anni fa la risoluzione 1820, una norma nella quale già allora si mi- nacciavano azioni repressive contro i responsabili delle violenze nei confronti del genere femminile di fronte alla Corte penale internazio- nale dell’Aja. Tra le altre cose, la risoluzione definisce l’abuso una strategia «per umiliare, dominare, spaventare, disperdere o ricollocare a forza, i civili membri di una comunità o di un gruppo etnico». Il Ayak, una donna del Sud Sudan, fotografata da Lynsey Addario (2015). Questa immagine, emblema dello stupro come arma di guerra, è stata pubblicata sulla prima pagina del «Time» nel marzo di quest’anno

RkJQdWJsaXNoZXIy