donne chiesa mondo - n. 42 - gennaio 2016

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Mensile dell’Osservatore Romano gennaio 2016 numero 42 A cura di L UCETTA S CARAFFIA (coordinatrice) e G IULIA G ALEOTTI Redazione: C ATHERINE A UBIN , A NNA F OA , R ITA M BOSHU K ONGO , S ILVINA P ÉREZ (www.osservatoreromano.va , per abbonamenti: info@ossrom.va ) La differenza affermata dal vivere insieme L’esperienza del monastero di Bose raccontata da chi ci vive Il saggio Perché ci odiano È una doppia lotta quella delle donne islamiche raccontate da Mona Eltahawy, giornalista egiziano-statunitense (vive tra New York e Il Cairo) in Perché ci odiano (Einaudi, 2015). Una lotta accanto agli uomini sul piano pubblico contro regimi politici oppressivi, ma anche una lotta contro gli uomini sul versante privato per scardinare sistemi culturali e familiari misogini. Il libro — che alterna riflessioni, esperienze personali e cronaca — tratteggia un panorama drammatico e sconfortante, tra violenze pubbliche e domestiche, stupri, legislazioni assolutamente misogine in ambito privatistico, penalistico e costituzionale, tradizioni ataviche e interpretazioni religiose distorte. Eppure, la speranza di raggiungere qualche forma di collaborazione, o di alleanza forzata, traspare tra tanta rabbia e sofferenza, tenacia e coraggio. Perché Mona Eltahawy — lei stessa molestata, arrestata e picchiata persino dalla polizia — è convinta che nessun Paese arabo troverà mai equilibrio e pace finché non avrà risolto la questione femminile. ( @GiuliGaleotti ) O TTIMISMO PER LE RELIGIOSE AMERICANE Un nuovo studio sulle suore cattoliche statunitensi sfata alcuni luoghi comuni: in risposta alle tante Cassandre, il rapporto Understanding Us Sister Today redatto da Kathleen Sprows Cummings, direttrice del Centro Cushwa per lo Studio del cattolicesimo americano (università di Notre Dame) attesta che in realtà il numero delle religiose nel Paese è all’incirca lo stesso della prima metà del Novecento, poco meno di cinquantamila. Certo, non che manchino differenze significative rispetto ad allora, ma l’idea di affollatissimi conventi nel ventesimo secolo non è corretta, e il grande pessimismo di solito legato al futuro della vita religiosa è eccessivo. Se è vero infatti che il numero di suore negli Usa è diminuito del 72,5 per cento nell’ultimo mezzo secolo — siamo infatti passati dalle 181.421 del 1965 (cifra massima raggiunta) alle quasi cinquantamila di oggi (di cui solo il 9 per cento ha meno di 60 anni) — «molte donne cattoliche americane sono ancora attratte dalla vita religiosa. In questo momento, sono circa 1200 le donne che si stanno formando, numero che comprende 150 donne in monasteri contemplativi e circa 1050 che si preparano a essere sorelle». Non solo: un recente studio condotto dal Centro per la ricerca applicata all’apostolato (Cara) della Georgetown University attesta che circa l’8 per cento delle nubili nate dopo il 1981 ha considerato almeno un po’ l’opzione della vita religiosa, e di questo il 2 per cento «molto seriamente», il che si traduce in ben 250.ooo donne nubili interessate a questo percorso. Sicché, nonostante il calo subito, la vita religiosa ha ottime possibilità di sopravvivenza, anche se con un minor numero di sorelle e in forme diverse, ma senza bisogno di perdere la propria identità, come tanti vaticinano. «Alcuni già vedono segni di speranza, soprattutto nella generazione più giovane che sta portando nuova energia e nuovo ottimismo». Il primo passo per cercare di comprendere la realtà odierna è quello di rendersi conto che il percorso vocazionale è molto diverso rispetto alle generazioni passate. Se allora le donne erano orientate alla scelta in base alle insegnanti che avevano avuto nelle scuole cattoliche, oggi questa trasmissione non esiste più, soppiantata (per esempio) dal ricorso ai nuovi media e alla rete, dove è possibile trovare programmi di discernimento e altre simili opportunità per conoscere le congregazioni. Del resto, chi entra oggi nella vita religiosa è generalmente più adulto e più istruito rispetto alle generazioni precedenti. L E MADRI DI M ARE NOSTRUM «Sono le mamme dei desaparecidos di casa nostra o meglio di Mare nostrum», ha scritto su «Mosaico di Pace» Tonio Dell’Olio. «Sono le madri delle migliaia di migranti che, spinti dalla disperazione, sono partiti dal Nordafrica senza mai raggiungere l’altra riva, l’altro approdo. Persone che per noi rischiano di essere solo numeri: ventiquattromila dal 2000 al 2014, più di 2800 nell’anno ancora in corso. Per le madri non possono essere numeri e per questo hanno deciso di apprendere la lezione argentina delle Madres de Plaza de Mayo: ogni giovedì si incontreranno dalle 18 alle 19 in una piazza di Roma, Palermo, Torino e Messina per girare in tondo in silenzio lasciando parlare solo i volti delle foto dei loro figli desaparecidos. Una provocazione alle nostre coscienze e a quelle dell’Europa intera che non consente corridoi umanitari, che considera le merci più importanti delle persone, che non riesce ad adottare misure in grado autorità ecclesiastiche, religiosi e laicato. L’invito alle superiore delle congregazioni è di rispondere in modo sempre più collaborativo e creativo alle nuove sfide della vita consacrata femminile, poiché la missione cresce e si trasforma. I festeggiamenti sono continuati quattro giorni: il 12 dicembre, infatti, si è svolta a Roma una messa, celebrata dal cardinale João Braz de Aviz, nel corso della quale vi è stato l’invio missionario delle dieci suore del Progetto Migranti della Uisg che il 14 sono partite per la Sicilia per dar vita a due comunità intercongregazionali che dovranno essere ponte tra la popolazione locale e i migranti. Le celebrazioni del giubileo Uisg si chiuderanno durante l’Assemblea generale che si svolgerà a Roma dal 9 al 13 maggio 2016. P REMIO ALLA SINDACA DI L AMPEDUSA È andato alla sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini il Premio della pace 2015 promosso dal movimento civico Die Anstifter di Stoccarda e arrivato quest’anno alla tredicesima edizione. A ritirare il premio, al Theaterhaus della città tedesca, al posto della sindaca impegnata sull’isola, si è recato Costantino Baratta, uno dei soccorritori dell’alba del 3 ottobre 2013 quando persero la vita 366 persone, per lo più eritree. «Non bisogna mai smettere di lottare — ha detto Nicolini per tramite di Baratta — per spiegare che le migrazioni non sono la causa della crisi dell’occidente. Semmai sono le nostre politiche di rapina e di sfruttamento ad avere aggravato le condizioni di povertà e disagio che mettono in fuga le persone dall’Africa». Il premio comprende anche una somma, cinquemila euro, che la sindaca ha deciso di devolvere ai servizi sociali di Lampedusa e Linosa. E l’isola, ormai simbolo di un’umanità che continua ad accogliere, è stata celebrata da Papa Francesco proprio nello stesso giorno del premio, durante il collegamento con Assisi dove, ai piedi dell’albero di Natale, è stata adagiata una barca di sette metri: quella su cui hanno viaggiato nel marzo del 2014 nove tunisini approdati a Lampedusa. All’interno di questa imbarcazione è stata installata una Natività, per ricordare a tutti che se la Sacra Famiglia arrivasse oggi, probabilmente arriverebbe via mare. E Maria, forse, partorirebbe non in una capanna, ma tra le onde. Come effettivamente hanno fatto tante donne fino a oggi. La testimonianza Padre Pepe e le donne Non è possibile descrivere padre José María “Pepe” Di Paola solo attraverso le sue opere nelle villas miserias di Buenos Aires, gli agglomerati di baracche e case improvvisate, disseminate nel cuore opulento della metropoli argentina. Eppure il suo lavoro tra queste piccole case di lamiera ha fatto conoscere questo vero profeta dei nostri tempi. Di Paola continua a suo modo l’esperienza di quei sacerdoti che negli anni del concilio sceglievano di andare a vivere nelle favelas argentine anche per sostenere le lotte popolari che in quel mondo marginale chiedevano diritti fondamentali, quali fogne, elettricità e scuole. «Favorire nel cuore delle villas una trama di vita cristiana che sottragga le esistenze dei bambini e dei giovani dall’assedio della droga e della marginalità è il mio compito», afferma padre Pepe. Oggi, tra i vicoli malmessi di Villa La Cárcova — sorta su una discarica nell’area municipale di San Martín — hanno affidato a lui anche la cura pastorale di altre tre villas disseminate lungo il Río Reconquista, secondo fiume più inquinato del Paese. «Sono molto grato a Francesco per i suoi messaggi e, su tutti, per il richiamo alla Chiesa povera per i poveri. Anche nel Nord del mondo ci sono dei Sud e molte occasioni per testimoniare una “Chiesa in uscita”». Gli chiediamo cosa ha imparato negli anni dalle donne e dagli uomini che vivono nelle villas miserias : «La prima risposta che viene dalla vita in favela è la gratuità, che è l’esatto contrario di sfruttamento. Solo la gratuità consente di lottare per un domani diverso senza che il triste rituale dell’odio travolga il gusto della vita, i rapporti umani e con essi ogni speranza. Gratuità è il fondamento del costruire insieme e del cercare soluzioni oggi. Un altro importante aspetto è che il riscatto dal dolore e dalla povertà comincia già, nelle villas miserias , col vincere l’alienazione e lo scoraggiamento, l’individualismo e l’indifferenza. Tutti abbiamo da imparare dai villeros la religiosità e la solidarietà. Nelle villas il sentimento religioso è l’alimento quotidiano: non c’è l’agnosticismo ma tutti, pur nelle diverse confessioni, hanno il sentimento religioso». Com’è la vita delle donne? «Sono fondamentali e, paradossalmente, la povertà ne accelera i percorsi di inserimento sociali. Devono lavorare e questo diventa un primo elemento importante per capire il rapporto paritario tra uomo e donna che predomina in questi quartieri. Ci sono donne che lavorano giù in città negli ospedali o negli hotel, lavori umili per poco più di mille pesos al mese. Qui gli uomini curano i figli e preparano da mangiare. Sappiamo benissimo che la crisi colpisce maggiormente le donne perché, tra i poveri, sono le più povere. Troppo spesso, infatti, si è data della complementarità tra uomini e donne una descrizione androcentrica e gerarchica basata su stereotipi. Lo sviluppo che accentua la diversità fra i sessi, creando discriminazioni nelle attività sociali fra maschi e femmine, è sinonimo di sottosviluppo, e paradossalmente qui c’è, nel sottosviluppo, uno sviluppo. Questo sistema di vita complesso che è la villa miseria ha una povertà concreta che è quella di soddisfare i bisogni quotidiani di tipo materiale, ma che non va di pari passo con un altro tipo di povertà. Una povertà culturale e che riguarda la sfera uomo-donna». ( @PerezSilvina ) Le due comunità hanno potuto credere e crescere insieme perché ci sono una sola regola una sola liturgia e pasti per la maggior parte consumati insieme Dunque uno stile di vita uguale per tutti Durante i capitoli quando dobbiamo prendere delle decisioni ci accorgiamo di avere due psicologie differenti con riflessi molto diversi Bisogna allora armonizzarle senza cancellarle o negarle Amare la vita degli altri è l’unica salvezza per tutte le nostre fragilità Quando li guardiamo con interesse allora la paura per noi stessi diminuisce E ci sentiamo immediatamente liberi Una delle cose più difficili è la comunicazione Vuol dire imparare continuamente ad ascoltarsi senza credere che sia un fatto acquisito una volta per tutte Tutto ciò esige una crescita umana profonda di C ATHERINE A UBIN «C he il Signore ti benedi- ca al tuo arrivo e al tuo ritorno». Uomini e donne, donne e uomini in una stessa Chiesa e in una stessa comunità: è questa la realtà quotidiana della comunità monastica di Bo- se. Qui, monaci e monache insieme pregano, lavorano e praticano l’ospitalità. Qual è dun- que l’origine di questa comunità? Com’è na- ta? Quali sono le ricchezze e anche le diffi- coltà di questo “vivere insieme”? Due fratelli e due sorelle hanno risposto alle nostre do- mande e ci hanno aperto le porte di questa esperienza profetica. Per primo parla Enzo Bianchi, fondatore della comunità. «In origine non c’era un vero progetto di vita uomini-donne; io ero venuto qui solo per avviare un progetto di vita monastica, ma non pensavo assolutamente a un’organizza- zione uomini-donne. La seconda persona che si è presentata dopo un fratello è stata però una donna, molto convinta di questa scelta sto che poteva funzionare. Molto presto abbiamo percepi- to e accolto le grazie del “vive- re insieme” fratelli e sorelle. Una prima grazia è stata che i fratelli erano chiamati a com- portarsi non più come “orsi”, ma a essere più delicati, il che non vuol dire più femminili, ma più premurosi, e soprattut- to erano chiamati a vivere la dimensione del “prendersi cura L’ecumenismo aiuta anche a esse- re più fratelli e sorelle: è il dialo- go nella diversità. Noi non chie- diamo agli ortodossi di diventare cattolici né il contrario; le diffe- renze sono necessarie e fanno la comunione. Perché, se le differen- ze fossero negate, sarebbe una co- munione mortificante». Qual è oggi il suo desiderio più grande? «Sarebbe di vedere la Chiesa imparare di più sul te- ma dell’autorità dalla vita mona- stica», risponde Bianchi. «Vorrei di salvare vite umane. Preferisce lasciarle in balia delle mafie che ringraziano e lucrano sulla pelle dei più poveri tra i poveri. Non ci pare che finora ci sia stato alcun tg a parlarne e per questo vogliamo contribuire a dare voce al loro silenzio dignitoso che chiede semplicemente pietà e giustizia, memoria e solidarietà, oppure soltanto una lacrima». I L GIUBILEO DELL ’U ISG L’8 dicembre scorso l’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) ha celebrato i suoi primi cinquant’anni di vita al servizio delle religiose di tutto il mondo e della Chiesa: l’8 dicembre 1965, giorno di chiusura del Vaticano II , infatti, ne fu approvata l’istituzione. Nel 1967 si svolse la prima assemblea generale, alla quale parteciparono circa duecento superiore generali. Per mancanza di altri mezzi, furono le stesse superiore, nel corso dei loro viaggi, a far conoscere l’Unione appena nata. La risposta fu subito entusiasta, specie da parte delle congregazioni minori e più isolate geograficamente, segno che l’Uisg rispondeva a una vera necessità. Oggi, dopo mezzo secolo di vita, l’Uisg — formata da 1857 superiore generali, responsabili sia di Istituti di diritto pontificio che di diritto diocesano, presenti in oltre cento Paesi e rappresentanti oltre 350.000 religiose — rinnova il suo impegno come spazio intercongregazionale e internazionale di dialogo, confronto e azione per le religiose, in collaborazione con bi, come per esempio il la- voro nel giardino o anche la foresteria. Cerchiamo di vi- vere questa disponibilità ai bisogni e di non decidere in modo assoluto chi si occupa dell’una o dell’altra cosa. C’è indubbiamente una ric- chezza in questo modo di vivere il lavoro insieme gra- zie agli scambi; una diversi- tà anche nel modo di af- da noi una delle loro sorelle. Ed è stato un vero miracolo perché sono arrivato la sera e sorella Minke mi ha detto che avrebbero pre- gato e ci avrebbero pensato. L’indomani han- no mandato suor Christiane che è stata con noi un anno, “prestata” in un certo senso dalle sorelle affinché ci fosse fin dall’inizio un nucleo di uomini e di donne e non solo del fratello”, ovvero a non vivere più come dei solitari che si ritrovano insieme. Quanto alle sorelle, abbiamo constatato che avevano acquisito una “disciplina”, una forma di pa- dronanza della parola diversa da quella delle comunità classiche di religiose: vale a dire che parlavano meno ed erano meno tentate di chiacchierare o bisbigliare tra loro. Queste due cose ci hanno fatto vedere che ci stava- mo aiutando a vicenda. Poco a poco ci sia- mo però resi conto che era necessario di tan- to in tanto che i fratelli e le sorelle consu- massero i pasti separatamente, ma solo di tanto in tanto, affinché le sorelle avessero uno spazio e un pasto in cui potevano stare e parlare tra loro nella propria lingua femmini- le e lo stesso valeva per noi fratelli (senza farne però una consuetudine, perché di nor- ma i pasti si consumano insieme, i fratelli da una parte del refettorio e le sorelle dall’altra). Tutto ciò ci è servito molto perché ha cam- biato il linguaggio usato al momento del pa- sto; per esempio le sorelle hanno un linguag- gio molto più “ecclesiale”, mentre noi fratelli tendiamo a parlare di cose che riguardano maggiormente la vita concreta, sia monastica sia ecclesiale. Dunque il refettorio, luogo di scambio, è pure un luogo di formazione, an- che se si può parlare solo durante un pasto, perché l’altro va consumato in silenzio». «Per quel che riguarda l’affettività — ag- giunge Bianchi — abbiamo constatato con il dovuto discernimento e da persone mature, che i fratelli e le sorelle non s’innamorano (come tutti pensano); non è questo il proble- ma, in quarant’anni non è mai successo. Il vero problema è la ferita esistente tra uomini e donne. In effetti abbiamo due psicologie diverse. Per esempio, durante i capitoli, quando dobbiamo prendere delle decisioni, ci accorgiamo di avere due psicologie diffe- renti con riflessi molto diversi. Bisogna allora armonizzarle, senza cancellarle o negarle. È un lavoro che si fa giorno dopo giorno; a volte è difficile, a causa di questa ferita tra uomo e donna che tutta l’umanità conosce e che anche noi portiamo e viviamo, e che de- ve essere costantemente riconciliata e supera- ta, non attraverso una forma di compromes- so, ma per un bene più grande. Su questo punto non abbiamo avuto grossi problemi. L’importante è che, quando una persona vie- ne qui per una vocazione monacale, sappia vivere con gli uomini se è una donna e sap- pia vivere con le donne se è un uomo. Il di- scernimento si esercita sul fatto che se un uo- mo sminuisce una donna e non tiene conto della sua presenza, vuol dire che Bose non è il posto giusto per lui». «Un altro punto importante è che, per quanto riguarda lo studio, tutti ricevano la stessa formazione e tutti abbiano gli stessi mezzi e strumenti, senza fare differenze. Ma ci devono essere una maestra delle novizie e un maestro dei novizi, perché nell’accompa- gnamento personale solo una donna può ac- compagnare un’altra donna e solo un uomo può accompagnare un altro uomo. C’è poi un altro punto che tocca un aspetto della ca- stità: una donna obbedisce più facilmente a un uomo che un uomo a una donna, e ciò non è la castità, è contro la castità. Ebbene, le donne avrebbero potuto essere tentate di obbedire a me o di entrare in concorrenza con me, ed è per questo che non ho mai vo- luto essere il direttore spirituale delle sorelle. Il mio ruolo è di assicurare l’unità dei due rami, ma non ho nulla a che vedere diretta- mente con le sorelle, per evitare proiezioni e gelosie. Le donne devono obbedire a una donna e gli uomini a un uomo: è una que- stione di castità. Negli anni Sessanta, in due fondazioni nuove ci sono stati molti proble- mi affettivi, anzi addirittura sessuali attorno un’autorità esercitata maggiormente secondo la forma monastica, ossia un’autorità che ascolti, che faccia maturare le situazioni, che sia più sinodale e nella quale le donne svol- gano una parte attiva. Altrimenti la Chiesa la vivrà in una condizione non solo di povertà ma anche e soprattutto di miseria». Suor Maria dell’Orto, che fa parte della comunità da oltre quarant’anni, è stata la re- sponsabile delle sorelle fino al 2009. Ci rac- conta come sono stati gli inizi e le sfide quo- tidiane della comunità. «La comunità è nata non come il frutto di un’ideologia, ma di una monastica l’abbiamo presa dalle sue origini (Antonio, Pacomio, Basilio, Benedetto e così via) e abbiamo cercato gli insegnamenti che potevano esser più utili per noi in questo contesto di modernità». «La vita monastica tra fratelli e sorelle — prosegue Maria — non era organizzata ai pri- mordi del cristianesimo, perché in tal senso la vita di Gesù ha avuto poco peso. Per esempio, per ispirarsi al Vangelo, si è fatto spesso riferimento alle lettere apostoliche, che contengono già molte “bassezze”. Al contrario, se si fosse fatto riferimento al Van- gelo si sarebbero potuti constatare i tanti rapporti di Gesù con le donne e il suo chia- mare discepoli sia gli uomini sia le donne. Per esempio in Luca , 11, 27 quando una don- na gli dice: “beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!”, Gesù ri- sponde “beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”. Questo in- vito a vivere il Vangelo vale dunque sia per gli uomini sia per le donne. Vivere ogni gior- no una vita monastica uomini e donne insie- me con membri di altre Chiese, quando si conosce il peso delle loro sofferenze, e le prove sostenute dalle donne in una cultura dominante maschile, è un’immensa felicità. Anche se a volte è difficile, ma la vita è diffi- cile: la vita dei coniugi, dei sacerdoti, delle persone sole. Poiché vivere veramente è ac- cettare la differenza, la differenza tra uomini e donne ma pure tra donne e tra uomini, e anche con gli ospiti; tutto ciò è un esercizio di libertà. Impari a non usare gli altri, a non credere che sia qualcosa di acquisito una vol- ta per tutte, cerchi di ascoltare. È quindi la difficoltà di vivere quotidianamente nella li- bertà, nel servizio reciproco poiché in fondo il Vangelo è questo. Cerchi di essere te stes- so, per il bene di tutti. Scopri che vedi me- glio grazie agli altri. Gesù ci ha insegnato l’amore nella libertà e ci ha trasmesso parole autentiche per la vita umana. Per esempio non vivere per se stessi è l’unico modo per non angosciarsi in questo mondo e non avere paura del prossimo giorno e notte (a Bose, quasi nessuna porta viene chiusa a chiave). Non è eroismo, è la cosa più intelligente al mondo». «Imparare a vivere l’alterità, a non vivere ideologicamente, a non colpevolizzarsi gli uni gli altri, a liberarsi dei pregiudizi, impa- non siamo né vittime né carnefici nei nostri rapporti con gli altri. Nella vita monastica c’è una grande povertà perché tutte le nostre sofferenze psicologiche, le nostre fragilità, so- no “sotto la luce del sole”, tutti le vedono. Dunque, impari che non sei al mondo per nascondere le tue debolezze o per essere av- valorato o approvato, o per obbligare gli altri a dirti “sì, sì”. Poco a poco impari a ricono- scere agli altri la libertà di essere qui e che noi viviamo grazie al fatto che i fratelli e le sorelle sono qui. È dunque un imparare a vi- vere l’affettività nella libertà. In fondo Gesù ci ha insegnato a non aver paura della nostra piccolezza, il che vuol dire che amare la vita degli altri è l’unica salvezza per tutte le no- stre fragilità. Quando siamo coinvolti nella loro vita, quando siamo per così dire sedotti da quello che sono e che fanno, quando li guardiamo con interesse, allora la paura per noi stessi scema e ci sentiamo immediata- mente liberi». A volte si pente della sua scelta? «Ho sempre saputo che al di fuori di qui non avrei mai potuto vivere realmente, non per- ché qui è meglio di qualsiasi altro posto fuo- ri, no, ma perché questo luogo mi ha per- messo di vivere e di prendermi cura senza angoscia della povera che sono». Suor Antonella è attualmente la responsa- bile delle sorelle; è monaca da oltre vent’an- ni. Ci spiega come si organizza il lavoro tra frontare la stessa problematica o nel modo di organizzare, e quando si lavora in gruppo è possibile trovare molti elementi che possono essere utili all’attività o rendere il lavoro più semplice». Quando si viene accolti da voi, fratelli e sorelle, si percepisce e s’intuisce una grande armonia fra voi: come la spiegate? «Non glielo saprei dire», risponde suor Antonella. «Noi viviamo la vita quotidiana in modo molto semplice. Ognuno di noi deve essere anche custode di una forma di solitudine per se stesso, per poter crescere interiormente co- me persona. Ciò permette una crescita che a sua volta consente di confrontarsi con gli al- tri senza la paura di perdere qualcosa in que- sto incontro. E l’armonia e la fluidità tra noi provengono da un quotidiano vissuto molto semplicemente senza stare sulla difensiva, ma mostrandosi così come si è, con quella com- prensione di sapersi insieme nella diffe- renza». Come agisce questo ascolto quotidiano in- sieme della stessa Parola di Dio durante i tempi forti liturgici? «Nel corso della Lectio divina , la comunità si riunisce per riflettere a partire dalla luce della Parola di Dio sulla sua vita. Inoltre, ogni settimana abbiamo una Lectio divina tutti insieme e di fatto questa condivisione della Parola è un grande aiuto per il cammino della comunità: consolida la vita comune. Così ognuno di noi è chiamato no un proprio modo di vedere la realtà e le donne un altro, ma è normale, essendo la realtà tanto maschile quanto femminile. Ve- derla insieme è difficile ma è una vera ric- chezza, perché insieme la si vede meglio. Oggi sarebbe per me molto difficile vivere in una comunità di soli uomini». «Il nostro cammino di vita comune — con- clude fratel Goffredo — è inedito: uomini e donne celibi che vivono insieme senza essere sposati. Si tratta dunque per noi di trovare un accordo di ordine diverso, ma che sia ra- dicato nella vita monastica e nel Vangelo». una donna isolata. Da quel momento in poi la comunità si è dovuta pensare come comu- nità formata da donne e da uomini». «Ho capito subito — prosegue Bianchi — una verità: che per vivere uomini e donne in- sieme era importante che la differenza fosse affermata. Doveva pertanto esistere una di- stinzione, al fine di evitare la divisione tra il ramo delle donne e il ramo degli uomini. ai fondatori. A tal fine i capitoli devono esse- re organizzati in modo molto fermo ed equi- librato per evitare che i responsabili agiscano solo tra loro o al contrario in modo solitario e isolato. Tutte le decisioni devono essere prese insieme, e non dai superiori. Da noi i capitoli si tengono una volta al mese, e una volta all’anno si svolge un capitolo di quattro giorni durante i quali si prendono le decisio- ni. Tutti possono parlare e tutti hanno diritto di voto. Noi siamo inoltre una comunità ecu- menica e in questa ottica dare la parola alle donne fa crescere e aiuta l’ecumenismo. realtà (l’arrivo di una sorella e di un fratello protestante) e da un interrogativo che Enzo Bianchi si è posto: “Il Vangelo contiene forse una parola che impedirebbe alla prima sorel- la di vivere questa esperienza monastica? No!”. C’è dunque stata un’obbedienza alla realtà della vita e il Vangelo è stato il criterio per decidere. È stata una prima grazia, straordinaria, che ci ha protetto e animato fi- no ad ora, anche se non è stato facile, ma la vita di per sé non è facile. Abbiamo quindi cercato di vivere secondo i grandi criteri del- la vita monastica tradizionale; l’ispirazione rare a vivere l’oggi di Dio nell’incontro con l’altro: è questa la nostra opportunità. Il fra- tello e la sorella sono un’opportunità per li- berarci dal nostro passato o dai nostri deter- minismi, per constatare che il peso del nostro passato non ci impedisce di vivere. Il difficile è liberarsi da tutte le nostre ideologie, poiché fratelli e sorelle. «Quando una persona arriva nella comunità, si comincia discernendo i bi- sogni della comunità e le capacità di quella persona; dopo questo discernimento viene in- serita in un laboratorio dove lavorerà. Ci so- no laboratori gestiti solo da fratelli e altri so- lo da sorelle, e altri ancora diretti da entram- a rimettersi in discussione in un moto di con- versione al fine di tornare in sintonia con il corpo comunitario». Quali sono state le sue gioie in questi vent’anni? «Le mie gioie — risponde ancora suor Antonella — sono soprattutto nella vita comunitaria, ossia nel vivere una vita fraterna semplice, sana e profondamente misericordio- sa. Ho sentito molto la misericordia dei miei fratelli e delle mie sorelle e ciò mi ha aiutato tanto a rinnovare continuamente il mio mo- do d’essere e il mio comportamento verso di loro, grazie alla loro correzione fraterna mol- to misericordiosa. È un modo di ricominciare insieme ed è la mia gioia più grande che as- saporo sempre. Quanto alle difficoltà, queste riguardano il cambiamento personale, che è sempre difficile [ride], e anche le relazioni personali, quando non riusciamo ad ascoltar- ci, a comprenderci, perché non è il momento giusto o perché ci vuole tanta pazienza. Una delle cose più difficili è la comunicazione: vuol dire imparare continuamente ad ascol- tarsi senza credere che sia un fatto acquisito una volta per tutte. Tutto ciò esige da noi una crescita umana profonda, che non cerca di imitare l’altro ma che ci chiede di essere felici di quel che siamo, pur sapendo che uo- mini e donne si esprimono in un linguaggio completamente diverso. Questa vita comuni- taria è comunque un vero dono di Dio (non è un progetto umano) sul quale dobbiamo costantemente vigilare e che esige molta me- moria, attenzione e gratitudine». Fratel Goffredo, assistente di Bianchi, è nella comunità da ventidue anni. Gli chiedia- mo di condividere con noi le sue riflessioni sulla vita comune tra fratelli e sorelle. «Fin dall’inizio sono stato attirato dal carisma del priore Enzo Bianchi e dalla vita comune che si viveva qui, uomini e donne insieme, e an- che dalla vita comune ecumenica. Questa ric- chezza uomo-donna va imparata, colta e assi- milata. Così si diviene più umani. La vita normale è fatta di uomini e di donne; dun- que un vero percorso di umanizzazione si fa quando ci sono uomini e donne insieme per un cammino di diversità e di alterità. La di- versità non deve far paura perché è un aiuto e una ricchezza. Non si tratta di fare una li- sta delle differenze tra uomini e donne; al contrario, dobbiamo vivere come donne o co- me uomini. Sono in effetti due modi di esse- re al mondo che esistono fin dalle origini; si tratta quindi di vivere una differenza essen- ziale e naturale. Difficile da vivere in questa vita comune è il mettere insieme due modi diversi di affrontare la realtà. Ma è anche e soprattutto una sfida, perché per arrivare a una visione globale e unificata, si deve parti- re da due punti di vista diversi per poi riusci- re a vedere insieme la realtà. Gli uomini han- di vita, e quindi mi sono dovuto porre il pro- blema. Sono andato a trovare a Torino il car- dinale Pellegrino, che in quel momento si oc- cupava dell’avvio della nostra comunità, e lui mi ha detto: “Tu non l’hai cercata, se il Si- gnore te l’ha inviata, allora bisogna accoglier- la”. L’abbiamo accolta e perché non si ritro- vasse tutta sola con tre fratelli, sono andato a Grandchamp in Svizzera nella comunità pro- testante per chiedere se potevano mandare Perciò ho voluto che fin dall’inizio ci fosse una responsabile delle sorelle, per non esser- ne io il diretto responsabile, e così è stato. Le due comunità hanno potuto credere e cresce- re insieme perché c’è una sola regola, una so- la liturgia, dei pasti per la maggior parte consumati insieme (all’inizio mangiavamo sempre tutti insieme) e dunque uno stile di vita uguale per tutti. Abbiamo cominciato a vivere tutto ciò gradualmente e abbiamo vi- Fotografie per gentile concessione dell’Archivio fotografico di Bose

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