donne chiesa mondo - n. 41 - dicembre 2015

L’OSSERVATORE ROMANO dicembre 2015 numero 41 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo Le donne e il giubileo della misericordia Giubileo e misericordia sono di tutti, appartengono in egual misura tanto alle donne quanto agli uomini. Se il giubileo, tempo di remissione dei peccati, conversione e penitenza, è soprattutto l’anno di Cristo — che porta a compimento l’antico giubileo essendo venuto a «predicare l’anno di grazia del Signore» ( Luca 4, 16-30) — e se, come ha scritto padre Xavier Léon Dufour, «saremo giudicati in base alla misericordia che avremo esercitata, forse inconsciamente, nei confronti di Gesù in persona» giacché «l’amore di Dio non rimane che in coloro che esercitano la misericordia», che declinazione può avere il giubileo della misericordia al femminile? È questa la domanda che affrontiamo in questo numero di «donne chiesa mondo». Le bibliste e i biblisti — come ci ricorda Nuria Calduch-Benages — spiegano che la radice del verbo ebraico mostrare misericordia e dell’aggettivo misericordioso deriva dalla radice del termine che designa l’utero materno, rehem . L’organo riproduttivo del corpo femminile, perciò, «funge — come ha scritto Elizabeth Johnson — da metafora concreta di un modo di essere, di sentire e di agire tipicamente divino. Quando la Scrittura invoca la misericordia di Dio — tema che si ritrova di frequente — ciò che chiede al Santo è di avere nei nostri confronti lo stesso tipo di amore che una madre nutre per il figlio del proprio grembo». E continua: «Il grembo protegge e nutre ma non possiede né controlla. Concede il suo tesoro per consentire pieno sviluppo e benessere. È davvero la via della compassione». Anche per questo abbiamo affidato l’apertura di questo numero a una delle matriarche di Israele, Rachele, al centro di uno splendido racconto di Stefan Zweig. Il Signore è terribilmente arrabbiato con il suo popolo, la pazienza è colma e la punizione è grande, ma il Dio dell’amore — domanda coraggiosamente Rachele al Signore — può essere, senza rinnegare se stesso, il Dio della vendetta e del castigo? O invece può essere solo il Dio della misericordia? «Giudica fra te e la tua parola, Dio! Se sei veramente il Dio collerico che affermi di essere, allora getta anche me nelle tenebre, insieme ai miei figli, perché non voglio contemplare il tuo volto, se è quello di un Dio rabbioso, e la furia della tua gelosia mi ripugna. Ma se, invece, sei davvero il Dio Misericordioso che ho amato fin dall’inizio e secondo i cui insegnamenti ho vissuto, allora fatti finalmente riconoscere da me». E Dio, che è misericordioso, la ascolta. ( giulia galeotti ) Che Dio sei? La matriarca Rachele litiga con il Signore Questo non può accadere perché la tua misericordia non sarebbe infinita e neppure tu saresti infinito Saresti il Dio della vendetta della collera e del castigo Non il Dio dell’amore e della misericordia donne chiesa mondo Henry Ryland, «Rachele al pozzo» (1890) Pubblichiamo stralci dal racconto dello scrit- tore ebreo austriaco, intitolato «Rachele litiga con Dio» (Roma, Elliot, 2015, pagine 48, euro 7,5). di S TEFAN Z WEIG P er l’ennesima volta i cittadini di Gerusalemme, caparbi e volubi- li, avevano dimenticato il patto sancito, per l’ennesima volta avevano recato offerte sangui- nose agli idoli bronzei di Tiro e Ammone. Osarono persino porre l’immagine di Baal nella dimora stessa di Dio, quella dimora che Salomone, servo suo, aveva edificato per lui. Quando Dio vide che essi si permette- vano di schernirlo nello spazio più intimo del santuario, la sua ira esplose implacabi- le. Tese la mano destra, e il suo grido squarciò i cieli. La sua pazienza era finita: avrebbe raso al suolo la città corrotta e di- sperso il suo popolo come strame ai quat- tro angoli della terra. Un tuono, e il terri- bile annuncio risuonò nell’infinito. La col- lera del Signore non giunse solo ai vivi, ma risvegliò persino i defunti nelle tombe. Quando quegli uomini venerabili perse- ro coraggio, le loro anime vuote rabbrivi- dirono davanti a Dio come erba calpesta- ta, e non osarono più proferire parola con- tro la sua ira. Ormai ogni voce terrena ta- ceva intimorita, quand’ecco che Rachele, la matriarca d’Israele, uscì sola dalla selva delle sue angosce. Nella sua tomba a Ra- mah, ella aveva udito il grido collerico di Dio e, pensando ai figli dei suoi figli, ave- va sentito le lacrime scorrerle giù per le guance. E così, facendo appello a tutta la forza che aveva in corpo, si era decisa a presentarsi davanti a colui che non può essere visto. In ginocchio levò le mani in ginocchio levò le sue parole al Signore. toio, ma le serve non riuscivano a spostare la pietra del fontanile, allora uno stranie- ro, giovane e di bell’aspetto, accorse in nostro aiuto e noi rimanemmo stupite del- la sua grande forza fisica. Era Giacobbe, il figlio della sorella di mio padre, e non ap- pena rivelò il suo nome, lo condussi a ca- sa da lui. Era trascorsa appena un’ora da quando ci eravamo visti, ma i nostri sguardi ardevano già in segreto e i nostri cuori erano colmi di desiderio. Non resi- stemmo a quell’incendio, ma ci scambiam- mo la promessa di matrimonio già quel primo giorno, quando Giacobbe vide me, Rachele. Mio padre Labano, però, era un uomo duro come il terreno sassoso che la- cerava con l’aratro. E quando Giacobbe volle portarmi nella sua casa, egli decise di metterlo alla prova. E così chiese al pretendente di restare a servizio presso di lui per sette anni, per amor mio. Eppure, Signore, Giacobbe accettò, e anch’io mi sottomisi al volere del padre. Ci facemmo coraggio, affinché il nostro cuore ubbidisse e fosse paziente. Abbiamo saputo dominarci e rimanere fermi, nono- stante il nostro desiderio. Per il nostro struggimento, ogni giorno era come mille. Quando ormai per la settima volta l’anno volgeva al termine, piena di letizia andai da mio padre, e gli chiesi la tenda per le nozze. Ma egli mi ordinò di andare a prendere Lia, mia sorella. Lia, lo sai, Signore, era la primogenita. Tu le avevi dato un viso poco attraente e dunque gli uomini non si curavano di lei; il fatto che nessuno la desiderasse la face- va soffrire. Io le volevo bene proprio per- ché soffriva ed era una fanciulla mite. Ep- pure, quando mio padre mi ordinò di con- durla da lui e poi mi chiese di lasciarli so- li, intuii che stavano tramando qualcosa. Così mi nascosi lì vicino per ascoltare il loro piano. Mio padre parlò: “Ascolta, Lia: è giunto qui da noi Giacobbe e per ottenere la mano di Rachele lavora al mio servizio già da sette anni. Tuttavia, per amor tuo, non posso permettere questo matrimonio, non è infatti possibile che la figlia minore lasci la casa del padre prima della maggiore e che la primogenita resti senza marito, schernita dalle sue stesse serve. Una simile usanza sarebbe sacrilega e inaudita, e contro la volontà di Dio. Perciò preparati, Lia, prendi il velo nuzia- le e avvolgilo stretto attorno al viso, per- ché io possa portarti da Giacobbe al po- sto di Rachele”. Non appena sentii queste parole ingan- natrici, il mio cuore riarse di collera verso Labano e verso Lia. In segreto, mi recai da Giacobbe e gli sussurrai di fare atten- zione che il giorno seguente mio padre non gli desse in sposa un’altra al posto mio. E affinché potesse riconoscere l’in- ganno, gli insegnai un segnale di ricono- scimento: prima di entrare nella sua tenda, la sposa lo avrebbe baciato tre volte in fronte. Quella sera, Labano fece preparare per Lia i veli nuziali. Avvolse il suo viso due volte, affinché Giacobbe non la ricono- scesse anzitempo. Inoltre mandò me nel granaio, affinché nessun servo avvertisse l’ingannato. Me ne stavo così, rinchiusa e dimenticata, a nutrirmi della mia stessa rabbia. Sotto il tetto era già buio e fu al- lora che la porta si aprì piano. Ed ecco, era Lia, mia sorella. Si avvicinò con dol- cezza e mi sfiorò delicatamente i capelli; quando sollevai gli occhi, mi accorsi che una nube di paura offuscava i suoi. “Cosa succederà, Rachele, sorella mia? La con- dotta del padre mi addolora. Ti ha tolto il tuo innamorato e lo ha dato a me. Mi ri- ho esortato a invocarti con coraggio nei momenti di maggior bisogno, con il segre- to del tuo vero nome. E con questo nome, Signore misericordioso, ti invoco oggi per la pena più grande del mio cuore: fa’ co- me Giacobbe, lascia cadere la scure della tua ira e disperdi le nubi della tua collera! Signore, risparmia Gerusalemme!». Rachele aveva parlato a voce alta come Ancora una volta alzò gli occhi verso colui che non può essere visto, ancora una volta si appoggiò alle sue mani di madre, e la scintilla dell’ira fece sgorgare dalla sua bocca parole infuocate. «Non mi hai dun- que sentito, o tu Onnipresente, non mi hai capito, o tu Onnisciente, oppure devo spiegarti ancora le mie parole, io che sono la tua serva ignorante? E allora sforzati di capire, o tu Cocciuto, che quando Gia- cobbe riversò il suo seme in mia sorella anch’io fui presa dalla gelosia, proprio co- me tu, ora, sei geloso perché i miei figli accendono incensi ad altri dei e non a te. Ma io, che pure non sono altro che una debole donna, ho saputo tenere a freno il mio rancore, e per amor tuo, che sei mise- ricordioso, ho avuto pietà di Lia, mentre Giacobbe ha avuto pietà di me, ricordalo, o Dio: tutti noi, poveri ed effimeri esseri umani, abbiamo vinto il male dell’invidia, mentre tu, o Onnipotente, che hai creato e perfezionato ogni cosa, tu, inizio e iper- bole di tutto, tu, che ottieni il mare men- tre noi otteniamo solo gocce, tu non hai voluto avere pietà? Lo so bene, il popolo che discende da me è caparbio e si ribella sempre al tuo giogo divino, eppure tu, che sei Dio e Signore di ogni abbondanza, non dovresti forse superare con la tua ge- nerosità la loro arroganza o con la tua mi- sericordia le loro colpe? Non può accade- re che, al cospetto degli angeli tuoi, un es- sere umano si umili ed essi dicano: “Una volta sulla terra c’era una debole donna mortale di nome Rachele, che riuscì a do- mare la propria ira. Ma Dio, che è Signo- re di tutti e di tutto, come un servo rimase schiavo della sua collera”. No, Dio, questo non può accadere, perché allora la tua mi- sericordia non sarebbe infinita, e neppure tu saresti infinito, e allora tu non saresti Dio. Non saresti il Dio che ho creato dal- le mie lacrime e la cui presenza mi richia- mò nel grido angoscioso di mia sorella, sei un Dio estraneo, un Dio della vendetta, un Dio della collera, un Dio del castigo, e io, Rachele, che amo solo il Dio dell’amo- re e ho servito soltanto il Misericordioso, io, Rachele, ti rinnego qui, davanti ai tuoi angeli! Si inchinino gli eletti e i profeti; vedi, io, Rachele, la madre, io non m’in- chino, mi raddrizzo e avanzo verso il tuo stesso centro, cammino fra te e la tua pa- rola. Perché voglio litigare con te prima che tu litighi con i miei figli, e pertanto ti accuso: la tua parola, Signore, contraddice il tuo Essere, e la tua parola adirata smen- tisce il tuo vero cuore. Quindi giudica fra te e la tua parola, Dio! Se sei veramente il Dio collerico che affermi di essere, allora getta anche me nelle tenebre, insieme ai miei figli, perché non voglio contemplare il tuo volto, se è quello di un Dio rabbio- so, e la furia della tua gelosia mi ripugna. Ma se, invece, sei davvero il Dio Miseri- cordioso che ho amato fin dall’inizio e se- condo i cui insegnamenti ho vissuto, allo- «So che tu conosci le mie parole prima ancor che io le abbia pronunciate, perché in te ogni parola risuona molto tempo pri- ma che sulle labbra umane, in te ogni azione è presente prima ancora che sia eseguita da mano terrena. Eppure io ti supplico: ascoltami con pazienza, per amore dei peccatori». Dopo aver parlato, Rachele chinò il viso. Ma Dio la vide, prona e in lacrime, e allora, per un attimo, sospese la sua collera e ascoltò l’afflitta. Quando Dio, nell’alto dei cieli, si pone in ascolto, il vuoto riempie lo spazio e uc- cide il tempo. Il vento smise di soffiare, il tuono si nascose, nessun essere osò stri- sciare o volare e dalle bocche non uscì più alcun alito. Le ore rimasero immobili e i cherubini, come statue di bronzo, attesero. Perché se Dio è in ascolto si arresta il re- spiro della vita, si tace il suono del cielo; allora persino il sole restò immoto, la luna si riposò e i fiumi si ritirarono muti da- vanti a Lui. Rachele, dal canto suo, aveva sentito che Dio le concedeva ascolto e, girandosi, sollevò il volto in lacrime e parlò con il coraggio della paura. «Tu lo sai, sono fi- glia di Labano e vivevo nella terra di Ha- ran che volge a Oriente; secondo il volere del padre mio, custodivo le sue pecore. Un mattino le conducemmo all’abbevera- ra fatti finalmente riconoscere da me, guardami in viso con la luce della tua bontà e risparmia la città santa!». Dopo che ebbe lanciato la spada delle sue parole nei cieli, Rachele perse di nuovo le forze. Spaventati, i patriarchi e i profeti si allontana- rono da lei, perché temevano che un fulmine si abbattesse sull’empia che aveva litigato con Dio. Fissaro- no il cielo impauriti, ma non giunse loro alcun segno. Gli angeli, però, che davanti allo sguardo accigliato di Dio avevano sepolto la testa sotto le ali e guardavano atterriti la temeraria che aveva negato l’onnipotenza del Signore, videro all’improvviso una luce emanare dal volto di Rachele e la sua fronte risplendere. Gli angeli, allora, capirono che Dio aveva guardato Rachele con tutto il suo trepidante amore. Allora il timore degli angeli svanì; essi sollevarono lo sguardo, rassicurati, ed ecco: la presenza di Dio riportò la luce e lo splendore, e l’azzur- ro beatificante del suo sorriso sfavillò infinito negli spazi. Nel frattempo in basso, gli uomini, come sempre estranei alle leggi del cielo, non im- maginavano quello che acca- deva sopra le loro teste. Av- volti in sudari, chinavano lu- gubri la fronte sulla terra buia. Ma d’improvviso, prima uno e poi l’altro, credettero di sentire un dolce sussurro, si- mile alla brezza di marzo. Al- zarono gli occhi ancora incer- ti e rimasero sbalorditi. D’im- provviso, tra le fitte nubi ap- parve un arcobaleno meravi- glioso, che nei sette colori della luce riportava a Rache- le, la madre, le sue lacrime. «Madonna della Misericordia» (Chiesa di San Francesco, Monteleone di Spoleto) Questa fu la mia azione L’unica al mondo di cui vada orgogliosa perché così io diventai simile a te per generosità pugna ingannare quell’innocente: come posso presentarmi a testa alta e darmi a lui, che desidera te? Cosa devo fare? Aiu- tami, sorella Rachele, aiutami, ti supplico in nome di Dio misericordioso!”. Sebbene la amassi, in me trionfava la malvagità, e la sua paura mi ristorava come una pietan- za squisita. Ma poiché aveva pronunciato il tuo santo nome, il più santo e il più mi- sericordioso dei nomi, Signore, a quel punto mi sembrò che un raggio infuocato mi colpisse, il mio cuore sussultò nel petto rigonfio e sentii che la mia anima ottene- brata veniva invasa dalla forza della tua bontà e dal potere inebriante della tua mi- sericordia. Soffrendo la sua stessa pena, ebbi pietà di lei, io, la tua serva stolta. E contro i miei desideri, le spiegai come in- gannare Giacobbe. Questa, Signore, fu la mia azione, l’uni- ca al mondo di cui vada orgogliosa, per- ché così io diventai simile a te per genero- sità e misericordia; la mia anima soffrì pe- ne sovrumane e io non so, Signore, se tu hai mai tentato una donna sulla terra più di quanto hai tentato me in quella infelice notte. Eppure, Signore, ho potuto soppor- tarla, quella notte. In fretta mi rifugiai nella casa paterna, perché ben presto l’inganno sarebbe stato scoperto. Ahimè, accadde ciò che avevo presagito! Giacobbe, con in mano una scure, si precipitò dentro per colpire Laba- no. Nel sentire quella furia, le mani di mio padre rimasero paralizzate dal terrore. Allora egli si gettò a terra, vecchio e tre- mante, e prese a invocare il tuo santo no- me. E io di nuovo, Signore, nell’udire il tuo santo nome fui pervasa dalla forza di un sacro ardire e mi gettai contro Giacob- be affinché la sua furia colpisse me invece di Labano. Ma il sangue della collera in- fiammava i suoi occhi, e non appena vide me, colei che aveva partecipato all’ingan- no, mi colpì il viso con i pugni, tanto da farmi cadere. Ma, Signore, io lo sopportai senza lamentarmi, perché sapevo che la sua furia conteneva un grande amore. Non appena mi vide ai suoi piedi, in- sanguinata, anch’egli, che era furioso, fu colto dalla pietà. E non ebbe pietà di me sola, ma per amor mio perdonò anche mio padre Labano e non scacciò Lia dalla sua tenda. Dopo sette giorni, mio padre mi diede a lui come seconda moglie, e dal mio grembo egli generò dei figli. Figli che sa di ricevere la risposta di Dio. Ma Dio taceva. E niente è più terribile del silenzio di Dio, così in terra come in cielo, o fra le nuvole che volteggiano tra di essi. Sulla terra nessun orecchio riesce a sopportare il frastuono di questo silenzio, nessun cuore può sostenere la stretta di questo vuoto: al suo in- terno, finché egli ta- ce, può esservi Dio soltanto, e non il vivente, poiché egli è la vita della vita. Nep- pure la paziente Rachele, nep- pure lei riusciva a sopportare l’infinito silen- zio di Dio co- me risposta alla sua urlante pena. se le sue parole dovessero at- traversare cento cieli, ma do- po quella supplica accorata la sua anima era priva di for- za. Cadde in ginocchio e chinò il capo tremante a ter- ra, mentre le ciocche dei ca- pelli le scendevano lungo il corpo come un torrente di acqua nera. Così stava Ra- chele, in ginocchio, nell’atte-

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