donne chiesa mondo - n. 37 - luglio 2015

L’OSSERVATORE ROMANO luglio 2015 numero 37 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo Le donne latinoamericane Quel diploma mai consegnato A colloquio con Cecilia, una delle nipoti di monsignor Óscar Romero di S ILVINA P ÉREZ M onsignor Óscar Romero fu ucciso mentre stava ce- lebrando la messa nella cappella dell’ospedale del- la Divina Provvidenza a San Salvador, il 24 marzo 1980. Colpito alla testa, cadde immediatamente. Secon- do la registrazione audio, il colpo venne sparato durante la consacrazione eucaristi- ca, mentre Romero alzava il calice verso l’alto. Per anni aveva denunciato le ingiu- stizie in Salvador e le violenze della poli- zia e dei militari contro i più deboli. Nel 1983, in visita in Salvador, Papa Wojtyła si recò a pregare sulla tomba del vescovo. La causa di beatificazione è iniziata nel 1997 ma si era poi bloccata, fino alla decisione di Papa Francesco. E così il 23 maggio scorso Romero è stato proclamato beato. Cecilia Romero è una delle nipoti di Romero e ha partecipato alla messa a San Salvador. Emozionata ci racconta quel giorno. A San Salvador alla messa di bea- tificazione hanno partecipato 260 mila fe- deli. Romero diventa il primo della lunga schiera dei nuovi martiri contemporanei. Quanto è stato importante il ruolo di Ber- goglio nell’accelerare il processo di beatifi- cazione? «Senza alcun dubbio, molto. Per noi è un grande segnale di riconciliazione e speranza. Era inspiegabile che un sacer- dote ucciso sull’altare mentre celebrava la messa non fosse riconosciuto martire. In questo modo la Chiesa oggi afferma uffi- cialmente che monsignor Romero non ha sbagliato in ciò che ha detto e fatto, così l’avrebbero ucciso ma non indietreggiò mai. Tutti noi abbiamo sentito in famiglia il peso del cognome Romero, e per anni siamo stati costretti a fingere di non avere legami con lui. Da un certo punto in poi i contatti della mia famiglia con Romero si interruppero. Solo mio padre li mantenne, ma in segreto. Durante il 1979 un gruppo di militari sfondò la porta ed entrò in casa mia, subito chiesero di mostrargli i docu- menti e quando lessero “Romero” si inso- spettirono. «Ah, quindi siete anche voi Romero! Siete parenti?», «No, non siamo parenti». Quanto dolore in queste parole. Nel 1980, finivo i miei studi da liceale e, da noi, la consegna dei diplomi la fa il ve- scovo. Non vedevo l’ora che arrivasse ot- tobre, mese in cui era fissata la cerimonia, per ricevere dalle mani di mio zio il diplo- ma e festeggiare con lui e la mia famiglia. Quel momento non si realizzò mai». «Quando fu ammazzato lo zio — prose- gue Cecilia — avevo 18 anni e per lo stesso motivo (minacce di morte alla sua fami- glia) non partecipai ai funerali. Una soffe- renza nella sofferenza. Allora era troppo pericoloso, mio padre per prudenza non fece avvicinare fisicamente mia madre e tutti noi figli a monsignor Romero, che per primo gli consigliò di non farlo. Devo dire che il pericolo continuò anche dopo la sua morte. Fino agli anni Novanta era impossibile parlare apertamente di Rome- ro. Il suo nome era ingombrante direi fino alla visita di Giovanni Paolo II nel 1996: da quel momento in poi cominciarono a cambiare le cose». Di Romero si è detto molto in questi lunghi anni. Ci aiuti a capire, chi era è ve- ramente. «La sua vita è stata fortemente caratterizzata da una coerenza unica tra i ro una nuova fase dal punto di vista uma- no e della fede. Il delitto lo sconvolse. Purtroppo dopo Rutilio Grande, Romero vide cadere anche altri preti». Le sue catechesi, le sue omelie, trasmes- se dalla radio diocesana, vennero ascoltate anche all’estero: eravate al corrente della sua crescente popolarità? «Ho cominciato a sentirmi libera ascoltando e riascoltando le sue bellissime omelie. Ancora oggi sen- tire i nastri con le registrazioni mi provoca ogni volta un grande dolore. Penso alla sua solitudine, alle sue convinzioni e pen- so al fatto che nemmeno noi parenti siamo stati vicini come avremmo voluto. Erava- mo abituati al silenzio, eravamo un popo- lo timido, chiuso. Io stessa sono cresciuta nuove generazioni? «La guerra ci- vile non si può dimenticare, nono- stante siano passati tanti anni. Du- rante la guerra civile circa il 2 per cento della popolazione ha perso la vita. È un dato sconvolgente se pensiamo concretamente cosa vuol dire all’interno delle famiglie salva- doregne. Le tracce di quei tragici eventi sono ovunque. Molti trentenni sono i bambini orfani di ieri. El Salvador, infat- ti, è finalmente una democrazia, schiaccia- ta dalle terribili eredità della guerra civile e naturalmente dalla crisi economica mon- diale». Tornando a Romero, c’è una data che segna il prima e il dopo nella sua vita: il 12 marzo 1977 quando Rutilio Grande, ge- suita, venne ucciso in un piccolo paese a nord di El Salvador, Anguilares. Perché è così importate questa data? «Era il suo miglior amico. Ed ebbe un grande merito: lo avvicinò alla gente. Penso che l’atroce fine del suo migliore amico aprì in Rome- in quegli anni abituandomi al silenzio. Un silenzio che ha ucciso gran parte di noi. Sì, la radio era l’unico modo per sapere per aprire gli occhi e avere notizie. Tutti si fermavano ad ascoltare. Qualcuno mi ha detto che all’epoca era possibile cammina- re per le strade di San Salvador anche senza la radio, senza perdere una parola delle sue prediche, perché da tutte le case e da tutti i bar proveniva la sua voce. De- vo dire che Romero rispettava una sorte di schema fisso. Nella prima parte com- mentava la Parola di Dio, nella seconda, alla luce di quella Parola, denunciava i fat- ti della settimana così come gli venivano documentati dal Socorro Jurídico , l’ufficio di tutela dei diritti umani. Leggeva i nomi delle persone scomparse, trovate uccise nelle discariche della città. Era l’unica fon- te di informazione. La polizia fingeva di non conoscere i casi, per cui i familiari de- gli scomparsi si recavano ogni domenica nella cattedrale per avere notizie. Talvolta la notizia non riguardava il ritrovamento di un cadavere, ma quella di una deten- zione e allora la famiglia riprendeva a spe- rare». «Mio zio — racconta ancora Cecilia — contava sull’aiuto dell’avvocato Marianela García Villas, che poi verrà torturata e uc- cisa tre anni dopo di lui, nella giurisdizio- ne di Suchitoto mentre stava raccogliendo le prove sull’uso di armi chimiche contro la popolazione civile da parte dei militari. Aveva trentaquattro anni questa giovane militante per i diritti umani che amava suonare, dipingere e scrivere racconti. Era tra i più stretti collaboratori di Romero, a capo del piccolo gruppo di giovani avvo- Ancora oggi ascolto i nastri delle sue bellissime omelie Ogni volta è un grande dolore pensare alla sua solitudine Mio zio contava sull’aiuto dell’avvocato Marianela García Villas Che verrà torturata e uccisa tre anni dopo di lui Cecilia Romero ha 53 anni, è figlia di José Romero, cugino di primo grado dell’arcivescovo salvadoregno. È nata a San Salvador e vive in Italia da quindici anni. Ha sposato nel suo Paese un italiano che lavorava per l’Unione europea, vivono a Tuscania, in provincia di Viterbo, con i due figli, Lucia ed Edoardo, di 16 e 15 anni. È molto legata a Tiberio e Gaspar Romero, i due fratelli ultraottantenni rimasti in vita di monsignor Romero. Fa parte della Commissione per la verità e della giustizia dei desaparecidos latinoamericani che il 28 maggio 2014 ha incontrato Papa Bergoglio. Sigan adelante , “andate avanti” ha detto Francesco alla delegazione di familiari dei desaparecidos di Argentina, Cile e Uruguay. Secondo Cecilia è nell’ultima omelia, celebrata il 23 marzo 198o, che bisogna cercare il vero testamento cristiano di Romero: «Vorrei fare un appello speciale agli uomini dell’esercito, in concreto alla base della Guardia nazionale, della polizia, delle caserme — disse solo poche ore prima di essere ucciso — Fratelli, siete del nostro stesso popolo, perché uccidete i vostri fratelli campesinos? Davanti all’ordine di uccidere deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere». donne chiesa mondo valori in cui credeva, la sua fede e la sua vita quotidiana. Lottò per i diritti umani e non solo a parole, pagò con la vita il suo coraggio e la sua determinazione nell’op- porsi alla dittatura militare. Il suo senso di carità si estendeva anche ai suoi perse- cutori ai quali predicava la conversione al bene. Fu accusato di essere un membro della teologia della liberazione, ma lui era soltanto un cuore cristiano che soffriva per e con quelli più deboli. Romero vole- va soltanto portare il Paese fuori della vio- lenza combattendo quella che lui stesso chiamava “l’ingiustizia”». Cosa è rimasto degli anni della guerra civile? La memoria è ancora viva nella so- cietà salvadoregna? Cosa ne pensano le cati che, a rischio della propria vita, regi- stravano e indagavano le violenze quoti- diane e redigevano settimanalmente un rapporto sulle violazioni dei diritti umani commesse dallo Stato e dai gruppi armati di qualunque parte politica. È stata pres- soché dimenticata nel nostro Paese, e non solo. Era “l’avvocata dei poveri e dei con- tadini” e purtroppo se n’è persa memoria: eppure ci troviamo di fronte a una martire dei diritti umani. A Romero, chi pensava di averlo messo a tacere per sempre, non solo ha dato voce a un popolo di fedeli, ma lo ha consegnato alla beatificazione eterna». come alcuni hanno continuato a sostenere per anni. Credo che ci volesse il primo Papa lati- noamericano per beatificare il difensore del popolo del Salva- dor! Mancavo dal mio Paese da undici anni e ho condiviso a San Salvador insieme ai suoi due fratelli ultraottantenni, Ti- berio e Gaspar, questa gioia immensa». Resterà per sempre l’immagi- ne del suo corpo insanguinato circondato dai fedeli. Il mo- mento della morte: cosa ha si- gnificato per lei quello scatto? «Ha reso ancor più eterna la sua figura di vescovo che era dalla parte degli ultimi. Fu il segno indelebile di un atto atroce che ha colpito almeno tre generazioni di salvadoregni. Un colpo solo, terribile. Rome- ro sapeva bene che prima o poi Dalla politica all’attivismo per la difesa dei diritti umani, dalla scienza all’arte, la storia latinoamericana è popolata da donne che hanno dettato legge e svoltato epoche. Ci sono quelle che hanno dominato la scena politica, reggendo per anni governi e lottando per la conquista del potere. O quelle che il primo fine settimana di ottobre trovano ogni anno la forza evangelizzatrice della pietà popolare ripercorrendo a piedi 67 chilometri nel segno della venerazione alla Madonna di Luján (raffigurata qui a sinistra), patrona dell’Argentina. Ci sono quelle con forti ideali, che hanno combattuto in nome di un diritto, di un principio morale o dell’uguaglianza civile. E poi ci sono quelle che marcano un’epoca e che segnano una grande svolta. È il caso di Frida Kahlo, nata nel 1907 in Messico, prima donna pittrice a vendere un dipinto al Louvre e prima artista latinoamericana a presentare i suoi lavori in una galleria parigina. Oppure il caso di Evita Perón che, morta a soli 33 anni, fu la prima in America latina a essere candidata, nel 1951, alla vicepresidenza in Argentina: il suo ingresso in politica segnerà la fine della società tradizionale argentina. La politica per Evita e l’arte per Frida sono la chiave di ingresso in spazi tradizionalmente maschili. Evita farà leva proprio sulla differenza per inserirsi nella scena politica senza mettere in discussione, in un primo momento, la divisione degli spazi maschili e femminili. Frida invece costruirà un percorso che inizia dal riconoscimento delle proprie radici e finisce con il diritto a partecipare e a essere politicamente presente nella comunità. Per entrambe, ciò che era personale era anche politico. È questo il filo rosso che unisce storie e momenti diversi delle donne latinoamericane: la dimensione politica della solidarietà. Che va da Rigoberta Menchú — premio Nobel per la pace (1992) e depositaria della cultura degli indios, una dei pochi indigeni sopravvissuti al genocidio in Guatemala — a Estela Carlotto, inossidabile leader delle abuelas , le coraggiose “nonne” di Plaza de Mayo la cui resistenza non nasce come un movimento politico, bensì da un’elementare risposta umana. Si tratta di donne di diversa estrazione sociale, per lo più modesta, cresciute nel rispetto dell’autorità sociale e familiare, e nel desiderio di una normale vita quotidiana. Arrivano spontaneamente all’azione politica dall’universalità dei valori e dai diritti umani calpestati dal potere. Svolgono dalla fine degli anni Settanta un lavoro politico di incredibile lucidità, concretezza ed efficacia, che sarà il seme su cui si consoliderà l’attuale democrazia dei Paesi dell’America meridionale. A partire degli anni Ottanta sono altre donne quelle che sviluppano strategie di tipo comunitaria, rivolte al rinnovamento di strutture sociali e in grado di condividere i successi altrui, piuttosto che vedere in essi una minaccia al proprio ego e all’affermazione della propria soggettività. Ciò che metodologicamente caratterizza le donne latinoamericane di questi anni è il costante riferimento a fatti sociali, reali e concreti dai quali hanno origine le condizioni di sfruttamento in diversi campi. ( silvina pérez )

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