donne chiesa mondo - n. 35 - maggio 2015
donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Cosa insegna la ferita di Mary Ann Flannery O’Connor e l’ironia di E LENA B UIA R UTT U n senso dell’umorismo fortissimo, originale, pervasivo è inscindibile dalla scrittura di Flannery O’Connor. Nono- stante sia stato spesso trascurato da lettori e critici, è pro- prio questo umorismo ciò che più caratterizza la visione del mondo della scrittrice di Savannah, morta nel 1964, a soli trenta- nove anni. Non si tratta di battute estemporanee, ma di un tono costante, una sorta di sostrato fondamentale, riscontrabile anche nei testi più seri e accademici: un’ironia che non è mai fine a stessa, ma sempre finalizzata alla rappresentazione di contenuti impegnativi, riguardanti ciò che Flannery definiva «il mistero della nostra posizione sulla terra». Un passaggio di una lettera riguardante la madre esemplifica un’ironia che è divenuta ormai un habitus , un modo di essere e di guardare alla realtà, anche la più intima e quotidiana. «Se mia madre avesse un cane, lo chiamerebbe Spot senza ironia, io Spot, ma con ironia». In prima battuta, potrebbe sembrare che Flanne- ry ironizzi a buon mercato sulla madre, Regina O’Connor, consi- derandola una sempliciotta, una persona “pratica” che, senza porsi troppo domande, affibbia al cane il nome Spot, che tradot- to in italiano suonerebbe come Fido, un nome tra i più comuni, banali, popolari. Eppure Flannery non si pone su un piedistallo: nel corso della stessa frase, afferma, asciutta e veloce, che la sola differenza tra lei e Regina consiste nella “consapevolezza” che lei avrebbe avu- to, invece, nel chiamare il cane Spot: la scrittrice, ironizzando su se stessa, si definisce in realtà una sempliciotta come la madre, come se il suo livello di coscienza “superiore” non cambiasse poi molto le carte in tavola. Da questo spunto ironico, veloce, appa- rentemente insignificante, tratto da un epistolario quotidiano, ca- piamo proprio come la grandezza dello sguardo di Flannery, re- stituita attraverso la lente dell’ironia, sia quella di rappresentare il limite dell’uomo, la sua finitezza, la sua inevitabile fragilità. O forse, sarebbe meglio dire la sua incompiutezza, per intro- durre un concetto di portata teologica che la scrittrice di Savan- nah intuisce in Un ricordo di Mary Ann , uno dei suoi saggi più belli e anomali, scritto in memoria di una bambina uccisa da un cancro che le sfigurava il viso. Anche qui, uno stile asciutto e iro- nico non cessa di improntare tutta la narrazione. Basti pensare alla prima riga: «Le storie di bambini pii tendono a essere false». Eppure, anche in queste pagine, la scrittura di Flannery si riempie di un’ironia sferzante, ma vitale, mai distruttiva, capace di restituire la gioia di vivere di Mary Ann, descrivendola mentre si ribalta da una sedia nella foga di addentare un hamburger e capace di infondere luce e gioia con il suo volto sfigurato e grot- tesco a chiunque la fosse andata a trovare. L’ironia bersaglia an- che le suore che avevano avuto in cura la bambina e che si erano rivolte alla scrittrice perché componesse un romanzo devoto sulla sua vicenda. Il suo commento a tale proposta era stato senza ap- pello: «Un romanzo. Orrore... no di certo!». Ma Flannery, consigliando le suore di scrivere loro stesse la storia di Mary Ann e optando per l’introduzione, fa molto di più. Con sguardo impietoso, realistico e ironico, svela non solo la finitudine della condizione umana, ma arriva a spingersi oltre, introducendo il concetto di un uomo incompiuto, in attesa cioè del compimento della promessa di Dio. Ci troviamo di fronte a concetti teologici elevati, difficili, espressi da uno stile assoluta- mente chiaro, nitido, privo di tecnicismi, che ci dice, in questo caso, come la malattia di Mary Ann, con il suo viso deturpato, anziché uno scherzo disgraziato del destino sia non solo un em- blema della condizione umana ma una risorsa su cui lavorare tut- ti, in nome di un bene che è sempre “in costruzione”. È compito dell’uomo, dunque, una volta riconosciuto il proprio limite, rap- presentato dalla sua comica condizione grottesca, costruirci so- pra, sfruttando al massimo i beni di questo mondo, per parteci- pare creativamente — e in questo si nota l’influenza della teoria evolutiva di Teilhard de Chardin — a un processo di creazione in atto. L’ironia è la chiave per avvicinare il mistero senza fare astra- zioni, rappresentandolo sempre incarnato nella realtà, grazie a uno stile autentico, veridico. L’estetica devota ed edulcorata che raffigura il bene con il canone del bello è qui completamente ri- baltata: in questo caso il bene è rappresentato con la categoria del grottesco che, con la necessaria ironia che porta con sé, è l’espressione più adeguata per esprimere la condizione essenziale, ontologica dell’uomo: quella di un’incompiutezza in attesa di es- sere sanata. Lo stile ironico di Flannery O’Connor si mette per- ciò al servizio di una scrittura che non rinuncia mai a esplorare il senso profondo della nostra vita concreta, in rapporto attivo e creativo con il Dio vivente. A urea guarda il mare. La tenta- zione di sfilarsi i calzari, solle- vare la tunica e immergere i piedi nell’acqua è grande, ma la trattiene. È solo una bimba, tuttavia conosce le regole imposte dalla sua condizione: fu la mamma a insegnar- gliele, avendole apprese dalla sua che allo stesso modo le imparò. Ultimo anello del- la catena, sa che dovrà tenere a mente quei dettami per tramandarli — con chiara coscienza di non averli mai infranti — quando sarà madre a sua volta. Primo precetto: una fanciulla nobile è tenuta a render conto al suo intero contesto socia- le. Le è dunque vietato cedere a compor- tamenti che rechino offesa al suo casato e, per via indiretta, all’impero. Nella fatti- specie, con buona pace dei suoi e di Clau- dio II il Gotico, le è precluso quello che è consentito ai figli dei pescatori. Talvolta fantastica d’essere una di loro; prendere la rincorsa, tuffarsi, cavalcare le onde in groppa a un delfino come Orio- ne. E, rincasata, di ascoltare storie di bur- rasche e mostri degli abissi per bocca di un padre che immagina col volto del suo, però solcato da rughe profonde. In verità, degli uomini di mare sa poco o nulla; cre- sciuta negli agi, ha una vaga percezione di quanto dura sia la loro vita. Ma avendone incrociato qualcuno, là sull’amata spiaggia di Ostia, di fronte a quei volti cotti dal sole, alle mani spaccate, alle spalle curve, ha desiderato — lei così piccola — di pren- dersene cura. Proteggerli, offrire loro una pausa dal dolore. Se potesse li ospiterebbe con tutti gli onori a palazzo. Non quello nel rione Regola dov’è nata, ché lontani dal mare soffrirebbero di nostalgia; ma nella villa di Ostia, circondata da immensi possedimenti, starebbero a loro agio. Au- rea aspira a un mondo di uguali, privo d’iniquità e disuguaglianze. Ma teme che questo sia destinato a rimanere un mirag- gio. Secondo precetto: una nobile fanciul- la romana non si mischia col volgo. Terzo: a suo tempo andrà sposa a un patrizio scelto dalla famiglia e alleverà i figli nel modo più gradito ai suoi pari e agli dei. Infine c’è il quarto precetto, che li com- pendia tutti: non concepisca mai l’idea te- meraria di abbandonare il solco tracciato dai padri. Così è sempre stato, così sem- pre sarà, solo un folle o un sovversivo ose- rebbe affermare il contrario. Ma spesso si sorprende a desiderare un’altra vita. Che sciagura sognare così forte se a farlo sei sola. Aurea guarda il mare. Si sfila i calzari, solleva la veste, immerge i piedi nell’ac- qua. Solo qualche anno prima eseguire quei semplici gesti le era parso arduo co- me scalare una montagna. Ma la sua scel- ta l’ha resa libera. Infranto ogni precetto, ha imboccato un sentiero dal quale non intende deviare; e pazienza se si annuncia lastricato di cocci: qualora dovesse tagliar- si, amerà ogni ferita. Non si sente più una mosca bianca, ché a quanto pare l’Urbe e l’impero tutto pullulano di strambi. Nel ventre di antri sotterranei, si riuniscono per sfidare l’autorità costituita nel nome di un Nazareno morto sulla croce da oltre due secoli per aver predicato l’avvento di un mondo abitato da uguali. Abbracciarne la causa è stato un azzardo, un salto nel vuoto. Una magnifica pazzia da nasconde- re con cura perché i suoi cari non ne siano coinvolti. Di colpo le torna in mente un ricordo remoto. «Padre, perché mi chiamo Aurea?». «Perché tu, Chryse, sei la nostra figlia d’oro». «Chryse?». «Il tuo nome nell’idio- ma greco. Appartenne a un’isola che non c’è più». «E dov’è andata?». «Scomparsa. Sprofondata nel mare». Non è da tutti portare il nome di una terra sommersa. Sarà dovuta a ciò la sua irresistibile attrazione verso quel liquido moto perpetuo? Nomen omen , il nome è un presagio. Ma lei non crede al fato: non più, da quando ha compreso che ognuno è arbitro della sua sorte. Dalla sua cella Aurea non può vedere il mare. Ma sa che è vicino, ne avverte il ri- chiamo. Dapprima esiliata nella villa pa- terna di Ostia, poi reclusa e torturata, è un grumo di sofferenza. Tuttavia non ce- de. Per quante volte le hanno chiesto di rinnegare il suo credo altrettante s’è oppo- sta, e quando le è venuta meno finanche la forza di parlare si è limitata a scuotere la testa. Prova pietà per i suoi carnefici: in un mondo giusto nessun uomo sarebbe ri- dotto a strumento di dolore. Perciò non ne ha paura, ma è lontana dall’immagina- re che in realtà sono loro a temerla. Il suo valore fa tremare le vene dei polsi ai rudi soldati: quella piccola donna è una fortez- za tanto fragile quanto inespugnabile. Peggio per lei, mostrandosi così ostinata ha firmato la sua condanna. Ecco, vengono a prenderla. La condu- cono fuori, la trascinano verso... dove? La luce l’acceca, ma le basta fiutare il vento: conosce quel profumo, e non le è mai par- so così dolce. La issano su una barca, le legano una pietra al collo: una spinta e Aurea va giù. Come l’isola della quale porta il nome, si inabissa. Il mare l’acco- glie, è dentro di lei, l’uno si fa parte dell’altra. Più in là un pescatore getta le reti. D’un tratto si sente protetto, con- solato. E ride e piange, senza sapere per- ché. Antonella Ossorio è nata a Napoli, dove vive e lavora da sempre. Autrice di numerosi testi per bambini e ragazzi, pubblicati da Einaudi, Rizzoli, Giunti, Electa e altre case editrici, ha condotto a lungo laboratori di scrittura per i più piccoli e corsi di formazione per insegnanti. Il suo ultimo romanzo ( La mammana , 2014) rappresenta il suo esordio nella narrativa per lettori adulti. Jacques Callot, Aurea ( XVII secolo) Ha imboccato un sentiero dal quale non intende deviare Pazienza se si annuncia lastricato di cocci Amerà ogni ferita Mary Bergherr, «Flannery O’Connor» (particolare) Aurea e il mare La santa del mese raccontata da Antonella Ossorio
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