donne chiesa mondo - n. 32 - febbraio 2015
donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Chiara di Assisi e la povertà evangelica Tra le pieghe del suo mantello di M ARIO S ENSI C hiara predilesse «attentissimamente lo Privilegio della Po- vertà» testimoniano le sorelle che vissero con lei a San Damiano, perché «particolarmente amava la povertà, e non poté mai essere indotta a ricevere possessione, né per lei, né per lo monasterio». Ma non fu facile per lei, strettamente legata a Francesco da una intensa amicizia spirituale, far accettare que- sto principio: nel 1219 il cardinale Ugolino dei conti di Segni, le- gato pontificio per l’Italia centro-settentrionale, scrisse per loro una formula vitae dove l’accento è messo sulla clausura, anziché sulla povertà. Per il cardinale era di interesse primario, infatti, la salvaguardia della castità: da qui l’obbligo della clausura e la ne- cessità di dotare i singoli monasteri di beni stabili, pena la loro estinzione quando fosse venuta a mancare la quotidiana elemosi- na, per evitare che le monache uscissero per questuare. Il movimento, di cui inizialmente fecero parte le seguaci di santa Chiara, di impronta prevalentemente urbana, costituito da laiche che però vivevano da monache, rientra nel quadro di quel più vasto movimento religioso che, sullo scorcio di quel secolo, aveva pervaso l’intera Europa: oltralpe il movimento viene detto beghinale, dall’appellativo di beghina dato alle semireligiose del- la Renania, dell’Alsazia e dei Paesi Bassi (Fiandre e Brabanza). Si tratta di donne che si proponevano di vivere devotamente e castamente, avendo come comune denominatore la vita peniten- ziale, modulata però secondo un ventaglio di vocazioni che le portava a privilegiare la reclusione, o il servizio caritativo. Erano eremite “irregolari” della città, contagiate tutte dall’ideale di ri- nuncia e di povertà mendicante. Ugolino dei conti di Segni, divenuto nel 1227 Papa Gregorio IX , convogliò gran parte del movimento penitenziale femminile nell’Ordine delle damianite, assegnando loro una regola, quella benedettina, e imponendo la clausura. San Damiano, poco fuori della città d’Assisi, era il monastero dove dimorava sorella Chiara, «prima pianticella» di quella reli- giosa famiglia di cui Francesco era stato sostegno e piantatore. Il 17 settembre 1228 Gregorio IX aveva rinnovato personalmente a donna Chiara e alla sua comunità il privilegium paupertatis — la garanzia concessale nel 1216 da Innocenzo III , la cui autenticità è attestata dal codice del monastero clariano di Montevergine a Messina — che le avrebbe permesso, nonostante la formula vitae ugoliniana, di continuare a osservare la povertà assoluta, senza proventi, né rendite. La fedeltà alla povertà francescana era infat- ti permessa, ma non imposta dalla regola di Ugolino che, occor- re ribadirlo, era stata estesa a tutto l’Ordine oggi comunemente indicato con gli appellativi di damianite, clarisse. Il che lenta- mente distanziò il monastero di San Damiano — e gli altri pochi che ebbero il coraggio di seguire Chiara — dal resto dell’alveo monastico damianita che pertanto, da allora, fino al 1263, ricevet- te altre quattro regole, senza contare le permissioni concesse a singoli monasteri. L'ultima, quella di Urbano IV (1263), stabiliva possedimenti e rendite come normale mezzo di sussistenza. Que- ste permissioni della regola di Urbano IV , detta Regola II , aveva- no in un certo senso mortificato la specificità della forma vitae voluta da Chiara, diversa da quella ugoliniana e riconosciuta da Innocenzo IV allorché, con bolla Solet annuere , il 9 agosto 1253 approvò la regola da lei scritta, la cosiddetta Regola I . Chiara eb- be la gioia di baciare questa regola: Hanc beata Clara tetigit et ob- sculata est pro devotione pluribus et pluribus vicibus ; è quanto ap- punto annotò una mano coeva sul dorso della bolla originale. Due giorni dopo Chiara moriva, stringendo tra le mani questa stessa bolla di cui però, in mancanza di una guida carismatica, non era difficile immaginare il destino. Non erano infatti ancora passati quattro anni dalla morte di Chiara e già le sue figlie spirituali residenti a San Damiano, ab- bandonato il «santuario della fedeltà», si erano trasferite nel nuovo monastero, intitolato alla santa. Qui, per ordine di Ales- sandro IV , il 3 ottobre 1260, presenti i vescovi di Perugia, Spoleto e Assisi, fu anche traslato il corpo di Chiara, che era stato sepol- to provvisoriamente nella piccola chiesa di San Giorgio. Il suo corpo, deposto sotto l’altare maggiore, alla profondità di circa tre metri, in un’urna di pietra collocata entro una grotta scavata nel- la roccia, fu ricercato, rinvenuto ed esposto ai fedeli soltanto nel 1850, su interessamento delle clarisse d’Italia e di Francia, e in particolare di quelle del monastero di Marsiglia. Qualcosa di si- mile capitò anche alla regola scritta da Chiara e approvata da In- nocenzo IV . Questo testo — detto Regola I , la cosa più preziosa per Chiara — fu in un certo modo a lungo sepolto come Chiara. La bolla originale era stata infatti collocata tra le reliquie e cucita all’interno del mantello della medesima santa e con il tempo se ne era così persa la memoria. Fu “scoperta” solo nel 1893, dietro le insistenze delle clarisse di Lione. Si ignora quando e perché le clarisse del proto-monastero pre- sero la decisione di occultare la bolla tra le pieghe del mantello della santa. Di certo, almeno dal secolo XVII , questa bolla era stata inutilmente cercata in Assisi e fuori. Esistevano tuttavia co- pie che circolavano in monasteri clariani di stretta osservanza, co- me quella conservata nel monastero di Montevergine di Messina fondato da Eustochia Calafato. Anima affamata Ludovica Albertoni raccontata da Franco Scaglia «O gnuno dovrebbe muoversi nella dire- zione segnata dai battiti del proprio cuore» diceva Paul Klee e credo che queste dolci, profonde, significative parole siano perfette per defi- nire l’esistenza di Ludovica Albertoni che visse a Roma tra il 1474 e il 1533. Per capi- re a fondo il tema della sua santità e delle numerose testimonianze che su di lei ci vengono proposte, potremmo dire che la sua vita terrena riflette la verità affermata da san Paolo: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me». Ludovica si conquistò la capacità di en- trare in contatto diretto con Gesù attraver- so un’intensa esperienza religiosa, fino a raggiungere l’estasi: uno stato nel quale, sospesa ogni comunicazione con l’esterno, si viene trasportati in un “territorio” riser- vato e privilegiato. La vita di Ludovica è piena di coraggio e molti sono i risultati positivi ottenuti attraverso l’opera di assi- stenza a sostegno dei poveri, dei disereda- ti, degli ammalati. Soprattutto durante il sacco di Roma, nel 1527 da parte dei lanzi- chenecchi. Ludovica proveniva da due nobili fami- glie. Il padre, Stefano, patrizio romano, morì quando lei era ancora molto giovane. La madre, Lucrezia Tebaldi, prese di nuo- vo marito e affidò l’educazione di Ludovi- ca dapprima alla nonna e poi a due zie. Ludovica sentiva la necessità di consacrare la sua vita al Signore. Ma la sua esistenza doveva percorrere altre strade, non certo scelte da lei e dal suo cuore. Infatti la famiglia, obbedendo a regole e tradizioni consolidate, aveva deciso di darla in sposa al nobiluomo Giacomo del- la Cetara. Non si può dire che Ludovica fosse felice di quella decisione non sua. Le nozze avrebbero rappresentato un ostacolo al proprio intento di consacrare la propria vita a Gesù: tuttavia rispettò la volontà della famiglia. Il matrimonio si rivelò felice. Giacomo era un’ottima persona, di buon carattere, animato da profondo rispetto nei confron- ti della moglie. Ebbero tre figlie e Ludovi- ca amò devotamente Giacomo fino alla sua morte prematura avvenuta nel 1506. Ludovica aveva trentadue anni e nessuna intenzione di riprendere marito. La sua vocazione, negli anni del matri- monio, invece di affievolirsi, si era come rafforzata. Era sempre più convinta della necessità di seguire la legge e la volontà del Signore. Aveva ben capito come lo scopo della vita fosse lo sviluppo di noi stessi. Era stata moglie felice e una buona madre: ora poteva osare. E fare dunque ciò che non le era stato permesso. La sua anima era affamata. Lei sapeva che se una persona, uomo o donna avesse potuto vi- vere pienamente la propria avventura ter- rena con abnegazione, fede, spiritualità, ne sarebbe venuto fuori un impulso di gioia tale da sopportare ogni dolore ter- reno. Vedova, Ludovica vestì l’abito del terz’ordine francescano e offrì a chi aveva bisogno il suo patrimonio. Rimase solo con la sua tunica e la famiglia dovette provvedere, anche con qualche mugugno, alla sua sopravvivenza. Ludovica si dedicò alla preghiera, alla meditazione, alla peni- tenza. Accanto a questo lavoro dello spiri- to ne svolse altri, mostrando grande prati- cità e intervenendo a sostegno di chi ave- va bisogno. Costruì le doti per le ragazze povere che, altrimenti, non si sarebbero potute sposare, e curò gli ammalati di cui nessuno voleva occuparsi. Ebbe il dono dell’estasi e le si attribuirono anche episo- di di levitazione e visioni. Si racconta che il solo pensiero della Passione di Gesù le provocasse lunghe crisi di pianto. Quando morì, nel 1533, era già un simbolo di santi- tà ed era circondata da profonda e auten- tica devozione. Il 28 gennaio 1671 Clemen- te X rese ufficiale il suo culto. A Ludovica il Bernini dedicò, tre anni dopo, uno dei suoi lavori più intensi e di totale sua attribuzione. La scolpì immagi- nando una sua manifestazione d’estasi. Bernini aveva ormai settant’anni e questo particolare non va tralasciato nella lettura dell’opera. Si sente, in ogni tratto sculto- reo, l’amore e il rispetto dell’artista per quella donna così dolce e forte dalla vita Scrittore e giornalista, Franco Scaglia (Camogli, 1944) è autore di numerosi romanzi e saggi tradotti in vari Paesi europei. Tra gli altri ricordiamo, L’erede del tempo (2014), Il giardino di Dio: Mediterraneo, storie di uomini e pesci (2013), Luce degli occhi miei (2010), Il Custode dell’acqua (2002). Dirigente Rai (Radio televisione italiana) per quarant’anni, ha vinto numerosi premi tra cui il Premio Flaiano per la televisione e il Premio Campiello. Gian Lorenzo Bernini, «Estasi della beata Ludovica Albertoni» (1671-1674) È il 1527 i lanzichenecchi impazzano per Roma Lei è piena di coraggio nel sostenere poveri diseredati e ammalati piena, moglie, madre, terziaria francescana, la quale — dopo aver trascorso parte della sua vita nel lusso e aver ottemperato ai suoi obblighi mondani — con la stessa naturalezza si dedicò a chi aveva bisogno di lei e della sua fede. La vita, lo sappiamo, è corta. E a volte difficilmen- te sopportabile. Ludovica ci ha mostrato un modo per allungarla con il suo insegnamento di mirabile equilibrio tra fede e carità. Con la certezza che la ve- rità cammina sempre su piedi delicati e commossi. Simone Martini, «Santa Chiara» (1322—1326)
Made with FlippingBook
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==