donne chiesa mondo - n. 28 - ottobre 2014

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Per una nuova spiritualità della donna africana di A LICIA L OPES A RAÚJO L a politica e l’economia mondiali guardano in maniera crescente all’Africa, dal momento che nei prossimi de- cenni diventerà uno dei principali centri della produzio- ne globale e uno dei maggiori mercati, così da concorre- re a sfatare gli stereotipi sul continente che ancora sopravvivono nei più. Questa evoluzione ha avuto ricadute positive sul ruolo delle donne in Africa, le quali infatti ricoprono incarichi sempre più importanti in vari ambiti, come nei casi di Ellen Johnson Sir- leaf, presidente della Liberia e premio Nobel per la pace, di Jo- yce Banda, ex presidente del Malawi o della sudafricana Nkosa- zana Clarise Dhlamini Zuma, dal 2012 presidente della commis- sione dell’Unione Africana, massima istituzione intergovernativa continentale, che ha dedicato il decennio 2010-2020 alla donna africana (African Women’s Decade). Già altre donne hanno dato lustro all’Africa quali la scomparsa ambientalista keniota Wangari Maathai, prima africana a ricevere il Nobel per la pace nel 2004 o la militante pacifista liberiana Leymah Gbowee, anche lei insi- gnita del premio (2011), che promuove iniziative mediante il Wo- men Peace and Security Network. Accanto a queste figure di rilievo vanno ricordate però le tante donne africane senza volto e senza voce, emarginate e sofferenti, a causa delle asimmetrie che lacerano l’Africa. Sono le tante ma- dri ancora escluse dal processo complessivo dello sviluppo del continente, che lavorano e lottano con responsabilità per garanti- re un futuro migliore ai propri figli. Eppure non basta denunciare le disparità né le ingiustizie so- ciali e le violenze, di cui sono vittime le donne. Bisognerebbe più di ogni altra cosa incentivare una loro piena e uguale partecipa- zione a tutte le sfere della vita, in vista non solo di uno sviluppo sociale ed economico, ma soprattutto di una crescita spirituale, poiché l’umanità stessa dell’Africa passa tramite il femminile. Pertanto è quanto mai necessario iniziare a considerare le donne africane come pensatrici anche nell’ambito delle scienze teologi- che. Da questo punto di vista constatiamo purtroppo un ritardo di espressione. Pensare la spiritualità in Africa relazionata al mondo femminile ci pone, infatti, di fronte a uno spazio incogni- to e indefinito, un vuoto intangibile apparentemente incolmabile e tuttavia fecondo. A causa della colonizzazione la donna africana, al pari dell’uo- mo, ha subito uno svuotamento culturale e identitario, sicché non meraviglia che in un continente così depauperato non fosse stata contemplata la possibilità di una piena libertà del femmini- le, tale da favorire il manifestarsi di un suo eventuale contributo spirituale. Tuttavia, per quanto l’ideologia coloniale avesse eserci- tato la propria azione alienante, la linfa materna in Africa non è mai venuta meno. Giovanni Paolo II riconosceva «un ruolo pri- mordiale alla donna, poiché generalmente è la madre il primo evangelizzatore», garantendo «una migliore qualità della vita so- ciale e il progresso della nuova Africa, l’Africa della vita», ovvia- mente con gli strumenti e con la sensibilità che le sono propri. A tal proposito Papa Wojtyła nei suoi numerosi viaggi nel conti- nente parlò d’inculturazione del messaggio evangelico, incorag- giando a integrare fede e vita cristiane nelle culture africane. In particolare durante il viaggio in Togo nel 1985 affermò che «cia- scun Paese africano deve vivere il Vangelo con la sua sensibilità e le sue qualità proprie; deve tradurlo non solo nella sua lingua, ma anche nei suoi costumi, tenendo conto dei valori umani del proprio patrimonio». Alla luce di tutto ciò l’Africa deve poter esprimere la sua spiri- tualità anche attraverso le sue donne. È indispensabile raccoglie- re questa sfida. La donna africana a imitazione di Maria, in fuga da Betlemme, è in cammino; è portatrice di speranza e può con- tribuire alla spiritualità, compiendo un viaggio a ritroso, alla ri- cerca di quegli elementi che, prudentemente conservati, la possa- no ricollegare a un futuro, in cui è chiamata finalmente a espri- mersi. Si tratta di un futuro ancora in gestazione, dunque il mondo interiore della donna africana va scandagliato e interroga- to. Ogni viaggio implica un ritorno alle origini, non per confu- tarle, bensì per analizzarle in modo maturo, interpretando l’iden- tità africana da un’altra prospettiva. Come l’Africa oggi si sforza di individuare una dimora spirituale intesa però non come ricerca squisitamente identitaria, così non è possibile parlare d’identità africana, senza riconoscerne la spiritualità. La donna in Africa è chiamata a essere un soggetto storico at- tivo anche nel campo teologico, contribuendo a umanizzare que- sto martoriato continente e a creare un’identità culturale africana fondata sul Vangelo. Deve gettare luce sul proprio destino, ri- pensandosi come testimone dei valori evangelici, per poter inci- dere nella cultura e nella società dell’Africa di oggi. È necessario che la donna africana colga gli insegnamenti della Chiesa, li comprenda e li traduca in pratica, perché potrà raggiungere la li- berazione spirituale solo attraverso una riflessione con al centro Cristo. Affinché si mostri il volto femminile di Dio in Africa, è oppor- tuno aprirsi alla speranza, inaugurando un nuovo percorso di emancipazione, che sappia dare voce alle donne dell’Africa, o meglio delle Afriche, in modo che in virtù dei propri talenti sia- no sempre più partecipi delle strutture ecclesiali e sociali. La grazia del formicaio Ana Cristina Villa Betancourt racconta Laura Montoya Upegui, santa del mese A ntioquia è una regione a nord- ovest della Colombia, caratte- rizzata da maestose montagne, fitta vegetazione, terre fertili e una popolazione gentile e ope- rosa. È in questa regione, a Jericó, che nac- que nel 1874 la prima santa colombiana, Laura Montoya Upegui. Orfana ancora bambina, cresciuta con la sua famiglia da un paese all’altro e for- mata nella fede cattolica propria del suo popolo, a sette anni Laura ebbe una forte esperienza di Dio che chiamò «la grazia del formicaio». La bambina si divertiva a osservare alcune formiche che portavano delle piccole foglie fino alla loro tana e, all’improvviso, fu come colpita dalla cer- tezza «che Dio c’era (…) lo sentii a lungo, senza sapere cosa sentivo, non potevo par- lare (…) guardai di nuovo il formicaio, in esso sentivo Dio, con una tenerezza sco- nosciuta». Questa esperienza segnò inde- lebilmente la sua vita interiore. In gioventù si trasferì a Medellín, capita- le di Antioquia, per diplomarsi come mae- stra e visse in varie località della regione esercitando questa professione. La sua vita spirituale e il suo rapporto con Dio cresce- vano e sentiva che stava maturando in lei una vocazione per il Carmelo. Allo stesso tempo provava una crescente sollecitudine per le popolazioni indigene di Antioquia. L’idea che ci fossero ancora in zone remote popoli che non conoscevano l’amore di Dio era per Laura come una fitta che non la lasciava riposare. Si domandava come poter giungere fino a loro; alla presenza di Dio, pensava ai metodi pedagogici per far- lo. Rinunciò così al chiostro e maturò un’altra idea: se quegli indigeni fuggivano perché si sentivano minacciati nel vedere giungere dei missionari, forse vedendo arri- vare delle donne si sarebbero sentiti meno in pericolo, il che le avrebbe permesso di avviare un’«opera di indios» che avrebbe aperto nuovi cammini ai sacerdoti. Laura condivise questa idea con disce- pole e conoscenti e ne parlò ai suoi diret- tori spirituali. Le prime si entusiasmarono, i secondi l’ascoltarono con perplessità. Al- cuni dissero che era matta e cercarono di dissuaderla, adducendo — tra i vari argo- menti — i ripetuti fallimenti di altre spedi- zioni missionarie. Ottenne però il soste- gno di alcuni membri della gerarchia che ritenevano provvidenziale la preoccupazio- ne di questa donna appassionata. Nel 1914, all’età di quarant’anni, Laura partì per la remota regione di Dabeiba con sei compagne. La spedizione — com- posta da missionarie, mulattieri e mule — suscitò curiosità, solidarietà e ammirazione a Medellín. Le viaggiatrici scelsero come parola d’ordine: «Piuttosto la morte che tornare indietro» ( antes muertas que vuel- tas ). Giunte a destinazione sperimentarono i metodi da loro pensati per avvicinarsi agli indios. Rispetto per la loro identità: per- cepivano sfiducia negli indigeni, ma per Laura la fede non esigeva che gli indios rinnegassero la loro cultura. Da questa avventura nacquero le Mis- sionarie di Maria Immacolata e Santa Ca- terina da Siena. Indossavano abiti comu- ni, vivevano in capanne senza muri, si spostavano a dorso di muli e a volte si ve- devano obbligate a fare a meno dei sacra- menti o della preghiera davanti al taberna- colo, per potersi inoltrare nella selva alla ricerca degli indigeni più lontani. Madre Laura insegnò alle sue figlie a offrire a Dio queste difficoltà come un «sacrificio battista», poiché anche loro, come san Giovanni Battista, dovevano a volte pri- varsi della presenza di Gesù «per far sì che Gesù cresca nelle anime che non lo conoscono». Nel 1917, il riconoscimento canonico: ma quella forma di vita religiosa, per la sua novità, a molti sembrò poco affidabi- le. Nacquero invidie e sospetti contro ma- dre Laura. Nel 1925 le missionarie furono costrette a lasciare Dabeida, culla della congregazione. Trovarono però accoglien- za in altre regioni della Colombia. Nel 1930 madre Laura, nonostante la sua fragi- le salute, si recò a Roma per ottenere un decreto laudatorio per la sua congregazio- ne. Non essendo riuscita nel suo intento, tornò in Colombia e continuò a lavorare per espandere e consolidare l’opera. Morì a Medellín il 21 ottobre 1949. L’eredità di madre Laura si coglie attra- verso l’opera delle missionarie “laurite”, visitando il monastero a Medellín, ma an- che leggendo i suoi scritti profondi e sem- plici, dai toni mistici. La sua Autobiografia contiene appassionanti racconti delle peri- pezie nelle terre colombiane, accanto a passaggi di altissima spiritualità. Nella Vo- ces místicas de la naturaleza cerca d’inse- gnare alle missionarie a trovare la presenza di Dio anche dove non ci sono né cappel- le né tabernacoli, ma solo la selva. Laura Montoya Upegui è come una fiamma intensa che arde d’amore per Dio e dal desiderio che egli sia conosciuto e amato. Il suo amore non si fermò dinanzi alle difficoltà, e non si fermò neppure di fronte alle incomprensioni di cui fu vitti- ma per le sue idee audaci. Esempi come il suo mostrano di cosa è capace il cuore di una donna quando si lascia incendiare dall’amore di Dio. Nata a Medellín, in Colombia, il 5 marzo 1971, Ana Cristina Villa Betancourt è una consacrata laica della Fraternità mariana della riconciliazione. Si è laureata in teologia patristica e storia della teologia presso la Pontificia università gregoriana di Roma. Ha svolto diverse funzioni all’interno della sua comunità, specialmente nelle aree della formazione vocazionale, della pastorale giovanile e del discernimento vocazionale. Da maggio 2009 è responsabile della Sezione Donna del Pontificio Consiglio per i laici. Madre Laura circondata da indios katios sulla collina «El Cuchillón» (Antioquia, 1939) Nel 1914 partì con sei compagne La spedizione di missionarie mulattieri e mule suscitò critiche Ma anche solidarietà e ammirazione Jesus Mafa, «La fuga in Egitto» ( XX secolo)

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