donne chiesa mondo - n. 28 - ottobre 2014

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO ottobre 2014 numero 28 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va - per abbonamenti: ufficiodiffusione@ossrom.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Stella nella malattia Ritratto di una religiosa del Togo che cammina con malati e orfani dell’aids pano della scuola e della parrocchia, ma la responsabile dei progetti è sempre la stessa da oramai quindici anni, suor Maria Anto- nietta Marchese, una torinese classe 1942, mandata a Cotonou alla bella età di cinquan- totto anni, specificatamente per aiutare le bambine lavoratrici. Con questo obiettivo so- no state create attività e progetti che, al mo- mento della mia partenza, assistevano più di cinquemila bambine all’anno, e il progetto continua, sempre rinnovato dalla sua energia inesauribile. A Cotonou, centro commerciale del Benin, quasi il sessanta per cento dei bambini lavora o contribuisce attivamente all’economia fami- liare. Ragazzi e ragazze di tredici o quattor- dici anni mantengono i fratelli più piccoli o un genitore malato. La competizione e il mercato dettano regole atroci che non rispar- miano neanche i più piccoli e nella missione sono state accolte bambine a partire dai sei anni per sottrarle al lavoro domestico o di ambulante. Spesso le bambine subiscono maltrattamenti e abusi, e alla durezza del la- voro si sommano le umiliazioni e le violenze. L’associazione ha creato delle oasi proprio all’interno del mercato per accogliere e aiuta- re queste bambine e ragazze e per riportarle a una vita di studio, educazione e serenità. Quest’oasi si chiama Maison de l’Esperan- ce ed è diventata un punto di riferimento per le bambine e ragazze, ma anche per tutti quei genitori che inviano le ragazze in città e sono sollevati dal sapere che frequentano, al- meno per parte della giornata, attività di scuola e formazione. Oltre ai servizi sociali, sanitari e psicologici, nella Maison si tengo- no corsi di formazione tra cui ha avuto parti- colare successo quello di cucina e pasticceria. Da esso è nato un servizio di catering molto ricercato: dalle feste all’ambasciata tedesca al ricevimento delle delegazioni delle Nazioni Unite, il servizio di cucina tradizionale italia- na ha raggiunto un ottimo livello e si è ag- giudicato il catering presso la Nunziatura du- rante la visita di Benedetto XVI nel novembre 2011. Prima della partenza del Papa, le ragazze del catering hanno ottenuto una fotografia con lui. Questa esperienza è stata importan- tissima per la loro formazione e le ha aiutate a rinforzare la loro identità professionale e personale. In futuro alcune di loro andranno a lavorare in diversi ristoranti, e porteranno con loro la foto con il Papa a testimonianza di ciò che sono capaci di fare. Ottimi risultati sono stati ottenuti con la formazione in saponeria-cosmesi. Anche qui le ragazze seguono un corso base di sei mesi per poi andare a inserirsi in laboratori locali. Alcune di loro decidono in seguito di diven- tare imprenditrici, e cominciano a produrre e commerciare in proprio. Virginie, ad esem- pio, ha deciso di fare da sola dopo la brutta esperienza di venditrice con una commer- ciante che quotidianamente la insultava e la maltrattava. Oltre alle tecniche di produzio- ne deve imparare come gestire gli acquisti e le vendite, come risparmiare, come comprare le materie prime. Gli assistenti sociali della Maison l’hanno aiutata a creare la sua picco- la impresa e nel giro di sei mesi Virginie è riuscita a diventare autonoma, cominciando a ricavare un profitto dalla sua attività. Altre ragazze dopo la formazione ritorna- no nel mercato a vendere, ma anche in quel caso si riscontra una maturazione e una presa di coscienza. Le ragazze sanno di avere dei diritti e in caso di difficoltà possono fare ap- pello agli assistenti sociali per condividere i loro problemi e cercare soluzioni. La Maison non è stata creata per tre o cinque anni, ma per durare nel tempo, e accompagnare le ra- gazze. Oggi con la cucina e la cosmesi, do- mani forse con l’informatica e le lingue. Certo sono indispensabili i finanziatori, che a volte arrivano inaspettatamente, come per esempio per la formazione cosmetica. Il fondatore della società Naturaequa, Luigi Barbieri, ha cominciato a comprare i saponi dalla Maison già nel 2010 grazie all’amicizia con la responsabile italiana della formazione, Elena Melani. La qualità del prodotto lo ave- va subito convinto ma la manifattura era un po’ grossolana e con il tempo ha cominciato a dare suggerimenti per migliorare i processi e l’utilizzo delle materie prime. Luigi ed Ele- na hanno così elaborato diversi miglioramen- ti, sia del prodotto che del confezionamento, e questo ha permesso alle ragazze in forma- zione di adeguarsi a standard più alti di pro- duzione e di conseguenza a creare nuovi pro- dotti di sempre maggiore qualità. Iniziative come questa creano e incoraggiano delle reti di sostegno tra nord e sud e permettono di creare sia business che solidarietà, facendo conoscere queste realtà a un pubblico ampio. La stessa collaborazione virtuosa è presen- te nella formazione in sartoria, iniziata nel 2003 grazie alla generosità di un industriale del tessile. Questo atelier offre formazione e lavoro a molte ragazze, che poi possono con- tinuare a lavorare in casa o in altri laboratori. I gruppi di sostegno dall’Italia hanno contri- buito mandando modelli e proposte e acqui- stando poi la produzione per rivenderla nei mercatini del Natale. Nel giro di sette anni ho visto le ragazze dell’atelier crescere e alcu- ne di loro diventare madri e nel giro di qual- che anno i bambini erano così numerosi che è stato creato un piccolo nido aziendale. Questo nido contribuisce anche a formare delle puericultrici grazie ai programmi elabo- rati da alcune maestre venute in visita. Il loro percorso professionale è sempre stato accom- pagnato da un cammino di ascolto della co- munità, che rimane negli anni un riferimento importante per le ragazze, le famiglie e tutti coloro che vengono a bussare alla porta. Nel lontano Benin suor Maria Antonietta, donna coraggiosa e ispirata, continua a essere il cuore pulsante di una grande rete di perso- ne che in lei vedono ogni giorno la realizza- zione di un ideale cristiano di accoglienza e umanità. Il romanzo C’è bisogno di nuovi nomi Darling fugge dall’Africa, ma non trova l’America. È un libro feroce il romanzo di NoViolet Bulawayo, C’è bisogno di nuovi nomi (Bompiani, 2014). È feroce nella prima parte, quando Darling, bimba di dieci anni, racconta la sua vita quotidiana in Zwimbabwe tra violenza, odio e povertà, in una realtà intrisa di corruzione, ritualità tribale che il cristianesimo ha ulteriormente complicato, e la presenza di occidentali che arrivano solo per scattare fotografie a effetto. Ma è feroce anche dopo, quando Darling arriva negli Stati Uniti, al seguito della zia emigrata anni prima in Michigan per lavorare. La terra dell’abbondanza e delle luci non c’è. Ci sono esclusivamente i margini, le zone d’ombra in cui si può solo sedere «sul bordo della seggiola, perché come puoi stare seduto comodo se non sai cosa ti succederà domani?». Il romanzo racconta la tragedia collettiva di un popolo. O di più popoli che vivono quotidianamente la lacerazione dell’abbandono. Anche l’autrice ha lasciato da giovane il suo Paese natale (per pseudonimo ha scelto il nome della seconda città dello Zwimbabwe, Bulawayo). Negli Stati Uniti, però, è diventata Stegner Fellow all’università di Stanford. ( @GiuliGaleotti ) Il film The Last King of Scotland Malgrado il titolo, The Last King of Scotland (diretto da Kevin Macdonald nel 2006) è un film sull’Africa. Si raccontano le drammatiche vicende dell’Uganda sotto il regime di Idi Amin Dada, il violento dittatore che ha dominato nel Paese fino al 1979. Attraverso il rapporto di amicizia fra Idi Amin, grande ammiratore della Scozia, e il suo medico personale, lo scozzese Garrigan (all’inizio inconsapevole degli orrori del regime) si descrivono le atrocità della dittatura, la rete di complicità che riesce a costruire, l’uso spregiudicato della forza, gli eccidi e la colpevole complicità dell’occidente che per molti anni non vede o fa finta di non vedere. Dolorosa la figura di Kay (Kerry Washington), la più giovane delle tre mogli del dittatore, ostracizzata perché ha dato alla luce un figlio epilettico. Forest Whitaker, che interpreta Amin, ha ricevuto il premio Oscar come miglior attore protagonista. Il dittatore in effetti è ritratto in modo storicamente fedele ed efficace. Altrettanto fedele e sconvolgente è il ritratto della “sua” Africa, le cui tragedie sono purtroppo ancora attuali. ( @ritannaarmeni ) S UOR L UZIA P REMOLI , PRIMA DONNA NOMINATA TRA I MEMBRI DI UNA C ONGREGAZIONE La novità è preziosa: tra i nuovi membri della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli nominati da Papa Francesco, accanto a cardinali, vescovi e religiosi, v’è anche una suora, la brasiliana Luzia Premoli, dal 2010 superiora generale delle missionarie comboniane. Sebbene sia prassi di questo dicastero annoverare tra i suoi membri anche superiori generali di ordini religiosi, è la prima volta che viene nominata la superiora di un istituto femminile. Brasiliana di Linhares, 59 anni, dopo la prima professione nel 1983, Luzia Premoli si è laureata in psicologia e ha raggiunto la circoscrizione del Mozambico nel 1989, dove ha vissuto per otto anni prestando il ministero nella pastorale educativa della donna, nel seminario interdiocesano e nella formazione degli insegnanti, e, contemporaneamente, anche come economa provinciale. Tornata in Brasile nel 1997 per assumere il servizio di formatrice del noviziato, vi ha conseguito il master in psicopedagogia con specializzazione in counseling. Eletta nel 2005 superiora provinciale della circoscrizione del Brasile, suor Luzia è la prima non italiana alla guida della congregazione comboniana. «C OMBINOFEM » COMPIE OTTANT ’ ANNI «Missione e popoli, due realtà che hanno costantemente attraversato le pagine della nostra rivista in questi ottant’anni della sua storia, intrecciate naturalmente al vissuto appassionato di donne che all’incontro con i popoli si sono consacrate». Così suor Luzia ricorda il compleanno della rivista «Combonifem», nata inizialmente con il nome di «Raggio». «Desideriamo — prosegue la superiora generale comboniana — che le “nostre” pagine continuino a essere pagine aperte al confronto fra tante voci, fra tante vite, tante speranze, tanti progetti. Per ricordarci e ribadire tutto questo è bello far festa: per ricordare e celebrare, per dire grazie e per far progetti insieme. Dal suo nascere, quel fogliolino voleva far conoscere quanto Dio realizzava attraverso le sue figlie missionarie comboniane, far conoscere i popoli tra cui loro vivevano, suscitare, in chi leggeva quegli “Atti delle apostole”, lo stupore, la compassione, il desiderio di partecipare alla loro avventura di vita. Il fogliolino è cresciuto, ora ha una veste e un linguaggio diverso, ma continua a invitarci a girar pagina fedele alla sua vocazione di mostrarci, con sguardo di donna, la grande gioia evangelica della condivisione. In questi ottant’anni di vita, il Fogliolino-Raggio-Combonifem ci ha aiutato e ci aiuta a comprendere come le persone che si mettono in cammino vincendo la paura di oltrepassare le frontiere dei pregiudizi, che si aprono all’accoglienza del diverso, che intrecciano sogni e speranze di un mondo altro, possono scoprire quella passione e quella “gioia” che dà senso alla vita, qui e adesso». E DITH , LE SPEZIE E IL CATTOLICESIMO È iniziato tutto con la vaniglia e l’intuizione geniale di una signora venuta da lontano: nata in Madagascar nel 1970 e giunta a Moncalieri (Torino) nel 1997, Edith Elise Jaomazava ha realizzato un connubio perfetto tra le ricchezze del suo luogo d’origine e le esigenze del suo nuovo Paese. «All’inizio è stata molto dura — racconta a Silvia Gusmano sul sito madamaricetta.it — Ero una “negra” in una città molto chiusa. Non trovavo lavoro e così ho fatto tesoro della mia esperienza familiare, un’esperienza lunga quattro generazioni: la coltivazione della vaniglia». Edith vola in Madagascar, prende qualche chilo della preziosa spezia che in Italia si trovava quasi solo in versione sintetica e la rivende ad alcune pasticcerie di Torino. «È stato un successo e ho deciso di continuare». In pochi mesi la neo-imprenditrice impara l’italiano, prende la patente, segue un corso di alimentazione, studia. E nel 2004 fonda SA . VA , azienda di import e commercializzazione di spezie che aumenta la sua offerta (e il suo fatturato) di anno in anno. Poco dopo apre un negozio nel centro di Torino, Atelier Madagascar, dove oggi vende quasi 40 tipi di spezie provenienti da tutto il mondo. Nel 2010 è nominata imprenditore straniero dell’anno nell’ambito del prestigioso Money Gram Award e oggi, nonostante la crisi, continua a fare progetti in grande. La sua priorità è migliorare le condizioni di vita del Madagascar dove, già da anni, dà lavoro a decine di contadini (fino a 300 in alta stagione). Cattolica, madre di quattro figli che cresce da sola, Edith è grata all’Italia, nonostante ne viva ancora tutto il razzismo: all’Opera «la gente ancora mi guarda come fossi una extraterrestre», mentre la domenica, dove canta in chiesa con gran soddisfazione, «sentono la mia voce, ma non mi vedono». N ATALINA E LE CONGOLESI ACCUSATE DI STREGONERIA «Prima di arrivare a Bukavu, per vent’anni ho vissuto a Birava, poco più a nord: il colera era endemico, non c’era acqua potabile e nella parrocchia lavoravo soprattutto con ragazze analfabete. Insieme cercavamo il modo di procurarci l’acqua e curavamo i campi. Con i bambini della colonia estiva abbiamo rimboscato la zona, creato vivai e coltivazioni. I giovani, poi, portavano quello che avevano imparato nei villaggi. Quando me ne sono andata, nel 2002, ho lasciato un’equipe locale in grado di portare avanti l’attività in piena serenità. In fondo è questo il nostro compito»: così la suora laica Natalina Isella racconta ad Ambra Notari di «Redattore sociale», portale quotidiano su disagio sociale, volontariato e terzo settore. Nella Repubblica Democratica del Congo da molti anni, Isella si prende cura, tra le tante attività, delle bimbe rifiutate dalle famiglie perché considerate streghe. «Ricordo una delle prime bimbe che ho tolto dalla strada appena arrivata qui a Bukavu. Cacciata dalla famiglia perché accusata di essere una strega, aveva 7 anni e per strada aveva anche contratto l’aids. È morta l’anno scorso: ha sofferto tantissimo, ma da noi aveva ritrovato la serenità». L’obiettivo del centro Ek’ Bana (La casa delle bambine), che oggi conta circa 40 ospiti, è di ricongiungere, con percorsi personalizzati, le piccole alle loro famiglie: nella maggioranza dei casi si ottengono buoni risultati, in caso contrario si cercano altri canali, ricorrendo ad esempio ad altri nuclei domestici. «Cerchiamo di educare le persone: una figlia femmina non è una disgrazia, ma la salvezza delle famiglie. Può fare la sarta, può coltivare le piante e i fiori. Noi, dal canto nostro, diamo l’esempio». Ogni giorno, Natalina arriva al centro Ek’ Bana , dove trova molta gente ad aspettarla. «Ci sono sempre anche nuovi casi che la comunità cristiana ci porta»: un anziano con un orfano, qualcuno che cerca lavoro, una ragazza madre che non sa come nutrire il figlio. «Viene spessissimo un militare a cui hanno amputato un braccio. Ha 10 figli. Ascoltiamo tutti e proviamo a orientarli. Tante famiglie ci aiutano, nelle parrocchie c’è un comitato di genitori per il monitoraggio dei bimbi. Se c’è qualcosa che non va, cerchiamo insieme una soluzione». L E BAMBINE DELL ’A FRICA SUB - SAHARIANA Jenet, che ha 12 anni e vive nella regione Upper in Ghana, spiega che deve vendere angurie al mercato per guadagnare il denaro per comprarsi la divisa scolastica; Peace, 14 anni, alunna nella regione del Volta, sempre in Ghana, racconta che a scuola, in mancanza di servizi igienici, le bambine devono andare nei cespugli nei pressi della struttura e questo crea loro molto disagio specie quando hanno le mestruazioni. Per questo tante bambine raggiunta la pubertà abbandonano la scuola. Ayisa, 16 anni, aveva terminato il terzo anno della media inferiore, ma ha dovuto lasciare perché incinta. Convinta che il padre del piccolo la sposerà, Ayisa sogna di tornare a scuola per diventare infermiera. Sono solo alcune delle storie raccontate da Plan Italia, onlus che ha lanciato la campagna Because I am a Girl, sostenuta da Malala, per dare un’istruzione di almeno 9 anni a 4 milioni di loro. Il 52 per cento di bambine analfabete vive nell’Africa sub- sahariana, dove 4 bimbe su 5 non ricevono un’educazione formale. Le piccole vengono lasciate a casa per un insieme di fattori: lavori domestici, mancanza di mezzi, matrimoni prematuri. Uno studio di Plan Italia riferisce che le ragazzine analfabete hanno tre volte più probabilità di sposarsi prima della maggiore età di quante hanno finito la scuola secondaria. Il saggio La tenda blu «Ti mando ad Adwa» le dice la superiora. «Vagamente mi ricordavo di una battaglia coloniale, anzi di una sconfitta italiana; ma, in quel momento, non mi veniva in mente altro» racconta suor Laura Girotto, parlando della sua ultima missione, iniziata nel 1993. «Avevo quasi cinquant’anni e volevo che fosse tosta — prosegue — perché ne valesse davvero la pena». Iniziata con una tenda blu (dove avrebbe vissuto per tre anni) oggi la missione salesiana Kidane Mehret è un punto di riferimento per la popolazione locale, che può ritrovare nel lavoro e nell’istruzione la dignità perduta. Il libro La tenda blu di Niccolò d’Aquino (Paoline, 2011) racconta quest’opera e ripercorre la storia del Tigray, una zona devastata dai diserbanti durante la dittatura di Mènghistu. Ora che la missione è diventata una piccola città, con scuole, laboratori tessili, un ospedale in costruzione, suor Laura continua a far la spola fra Adwa e il resto del mondo per cercare fondi, felice di aver rinunciato a una brillante carriera come figurinista in un atelier di alta moda, a Torino, per seguire la sua vocazione. ( @silviaguidi ) Quando un fratello di suor Marie contrasse il virus ella toccò con mano quanto il malato sia trasformato in scarto Messo ai margini non solo dalla società ma anche dalla sua famiglia Suor Marie Stella Kouak Il significato spirituale del lavoro Passare il testimone Cuore pulsante Una psicologa racconta i suoi vent’anni di lavoro con le religiose in Africa Nei villaggi più sperduti in fondo alle peggiori piste di terra si trova sempre una piccola missione Un cortile pulito e il caffè sul fornello di G ILBERT T SOGLI I padri conciliari ricordano che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprat- tutto e di tutti coloro che soffrono, so- no pure le gioie e le speranze, le tri- stezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» ( Gaudium et spes , 1). Per questo, in diverse zone dell’Africa, anche le persone consacrate cercano attraverso le lo- ro opere di andare incontro alle persone in difficoltà per alleviarne le sofferenze. Come membri della comunità evangelizzatrice, sono chiamate, sull’esempio di Cristo, a prendere l’iniziativa, uscire e saper coinvolgersi. Così, mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorciano le distanze, si abbassa- no, fino all’umiliazione se necessario, e assu- mono la vita del popolo. Accompagnano l’umanità in tutti suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere (cfr. Evangelii gaudium , 24). Un esempio concreto di come un discepolo di Cristo possa incarnare la sollecitudine pa- terna di Dio verso l’umanità sofferente, lo tro- viamo nell’esperienza di suor Marie Stella Kouak, gioviale religiosa togolese di quaranta- sette anni. Appartenente all’Ordre des Hospi- talières du Sacré Coeur de Jésus, suor Marie Stella conduce una battaglia di civiltà nella città di Dapaong, al nord del suo Paese, per aiutare gli orfani e i malati di aids. Suor Marie Stella ha da sempre sentito il desiderio di occuparsi dei malati, soprattutto di quelli che vivono in situazioni di precarietà. Questa sua inclinazione, maturata nel gruppo ecclesiale della Legione di Maria, l’ha portata, una volta sentita la chiamata a consacrare la sua vita al Signore, a entrare nell’allora con- gregazione des Soeurs Hospitalières de l’Im- maculée Conception de saint Armand-les- Eaux, che aveva come apostolato l’attenzione ai malati. Nel 2011 vi sarà poi la fusione di questa congregazione con quella des Hospita- lières du Sacré Coeur de Jésus per vari motivi, tra i quali la scarsità delle vocazioni nel vec- chio continente e l’esigenza di unire le forze per la stessa missione. Tornado a suor Marie Stella, dopo i primi voti nel 1993, fu mandata in Belgio per formarsi come infermiera. La regola di sant’Agostino e gli episodi evangelici del buon samaritano e della lavanda dei piedi — che sono alla base dei testi fonda- mentali del suo ordine — hanno fatto crescere in lei un’attenzione verso gli ammalati, in par- ticolare verso quelli che hanno contratto il vi- rus dell’aids. Attenzione che l’ha portata a creare l’associazione Vivre dans l’espérance che si occupa oggi di più di millequattrocen- tocinquanta adulti malati, di tanti ragazzi e ragazze orfani colpiti dall’aids. L’obiettivo dell’associazione — che assiste anche tanti musulmani — è ridare speranza in- tesa come dignità, come affetto agli ammalati di aids e offrire un futuro agli orfani. Attual- mente, l’associazione gestisce due orfanotrofi, un centro di formazione e un centro nel quale sono seguiti coloro che hanno contratto il vi- rus dell’aids. C’è in progetto di allagare le strutture per andare incontro alle esigenze in continua crescita. Suor Marie Stella ha sentito la necessità, in- sieme alle sue consorelle, di occuparsi di que- ste persone scartate dalla società dopo aver vissuto, in prima persona sulla sua pelle, l’esperienza di un fratello malato di aids. Chi contrae questa malattia, infatti, viene giudica- to male dalla società, messo ai margini, non raramente nascosto dalla propria famiglia per- ché causa di vergogna. Avendo vissuto que- st’esperienza da vicino, la giovane religiosa ha deciso di impegnarsi affinché l’ammalato ven- ga considerato come una persona, sia accetta- to e sostenuto dalla sua famiglia, perché i suoi figli non siano marginalizzati dal contesto so- ciale. Oltre ad accogliere e accompagnare malati e orfani, e a sensibilizzare le famiglie, i membri dell’associazione cercano anche di educare a una vita sessuale responsabile, in una zona co- me quella del nord del Togo che sta al confine con altri Paesi dove c’è una grande mobilità della popolazione. Le motivazioni che hanno spinto suor Ma- rie Stella in quest’opera non sono certamente solo quelle di un operatore sociale. In quanto consacrata, questa donna ha cercato di incar- nare nel quotidiano i voti professati. Oltre all’obbedienza espressa nella comunione d’in- tenti con le altre consorelle, oltre a combattere accanto a coloro che sono colpiti direttamente o indirettamente dal flagello dell’aids, suor Marie Stella trova nella sua maternità spiritua- le verso questi orfani e nell’amore gratuito verso i bisognosi l’espressione concreta del suo voto di castità. Quanto invece al voto di povertà, in un continente povero come quello africano e par- ticolarmente in un Paese in via di sviluppo co- me il Togo, esso viene inteso anche come con- divisione. Condivisione di ciò che ciascuno ha. Infatti, oltre a mettere a disposizione i mezzi e le energie umane del suo ordine, tra le altre cose suor Marie Stella coinvolge le mamme malate e alcuni ragazzi, già ospiti dei suoi orfanotrofi, nella cura dei bambini che hanno perso entrambi i genitori. Essendo la sua opera frutto di una chiamata speciale, la nostra religiosa trova forza — come lei stessa ci ha raccontato — oltre nell’eucari- stia e nella preghiera del rosario, anche nella parola di Dio. Per suor Marie Stella, infatti, il racconto evangelico del buon samaritano che si prende cura dell’uomo ferito, quello della lavanda dei piedi dove Gesù si fa servo di tut- ti e quello della donna adultera sono fonti d’ispirazione, sono luce che illumina e rassicu- ra in questa sua battaglia per la dignità di tut- ti. Anche di coloro che sono considerati meri- tevoli di esclusione perché pubblici peccatori. L’impegno di suor Marie Stella e dei suoi amici è proprio quello di liberare gli ammalati di aids così come ha fatto Gesù con la donna adultera. «Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Don- na, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch'io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» ( Giovanni , 8, 9-11). In queste parole trovano senso l’impegno ad accompagnare chi è caduto e ad aiutarlo a non cullarsi disperatamente nella sua caduta, ma piuttosto a guardare il futuro e vivere il presente nella speranza. Suor Marie Stella trova conforto e coraggio anche nelle parole di Agostino: «Ama e fa ciò che vuoi: se taci, taci per amore, se parli, parla per amore, se correggi, correggi per amore, se perdoni, perdona per amore. Sia in te la sor- gente dell’amore, perché da questa radice non ne può uscire che il bene». La religiosa, infi- ne, ci racconta di confidare molto nell’inter- cessione di coloro che lei e i membri della sua associazione hanno aiutato a traghettare sere- namente alla casa del Padre, e nella Provvi- denza divina che, al tempo opportuno, ri- sponde alle attese e alle mille richieste di aiu- to. L’esperienza di questa suora africana mostra la bellezza delle religiose nel loro essere madri sull’esempio della Chiesa mater et magistra chiamata dal suo Maestro a versare l’olio di misericordia e di tenerezza sulla umanità pia- gata, carne sofferente dello stesso Signore Gesù. Suor Maria Antonietta Marchese (a sinistra) e le ragazze del corso di saponeria (sotto) a Cotonou nel 2013 di M ARIA R EGINA C ANALE * «A frica mia / ti nomino / all’infi- nito / e ogni volta / un senti- mento nuovo / mi sorprende / Africa / con te / esulto e gioisco / Con te / piango e soffro / Con te / Spero e spero / Che il miracolo / accada / E che tu / vera- mente / possa risorgere» (Elisa Kidané, Africa mia ). Una donna, poetessa e missio- naria, sogna per la sua terra il miracolo del nuovo mattino «il primo giorno dopo il sa- bato». Giorno che albeggia nel cuore e ne- gli occhi del gruppo di donne, accorse al Sepolcro, dove incontrano, per prime, il Si- gnore Risorto. Questo miracolo struggente è già in atto anche in Africa, frutto di una lunga gesta- zione amorosa, che le donne africane, irri- ducibili amanti di speranze, hanno portato avanti con coraggio e determinazione. L’Africa è un mondo, per la vastità del continente e per il crogiolo di razze e di culture che la caratterizzano. Sotto i suoi cieli che esplodono di stelle, essa — culla dell’umanità — tenta ogni giorno di ripren- dere con coraggio il suo cammino, sotto il sole cocente. Il lavoro di evangelizzazione dell’Africa è ancora oggi una grande sfida per la Chiesa e per i banditori del Vangelo: essi sono pronti e disposti, come duemila anni fa, ad andare su una strada deserta, a mezzogior- no, quando non c’è nessuno ( Atti degli Apo- stoli , 8, 26) e ricominciare a gettare il seme che a suo tempo crescerà. Così è iniziata l’evangelizzazione dell’Africa e così conti- nua tra grandi difficoltà, a piccoli passi, con tenacia e senza presunzione. Ricordo le catechesi ai lavoratori della missione nel sud dell’Etiopia; ricordo la lo- ro sete della Parola di Dio; molti di loro erano analfabeti ma la Bibbia la volevano lo stesso: era il Libro Sacro che mettevano al posto d’onore e come pegno di benedi- zione, nelle loro povere capanne. Sorprendente e, qualche volta, anche gratificante, il lavoro con i giovani nelle parrocchie: la loro sete del divino ci obbli- ga a trasmettere il patrimonio morale e spi- rituale che assicuri la loro crescita nella fe- de in armonia con la loro cultura e le loro tradizioni. È la missione perenne della Chiesa che annunzia Cristo: missione da vivere e rea- lizzare anche in Africa, nella convinzione che questa sfida suppone la capacità e il desiderio di coinvolgimento delle comunità cristiane locali. Un grande lavoro aspetta gli operatori del Vangelo, lavoro che è da tempo inco- minciato e che deve essere completato: «La ricerca del tempo favorevole» per passare — con discrezione e coraggio — il testimone agli evangelizzatori locali. Siamo già entrati in una transizione non improvvisata ma vo- luta e preparata. Ovviamente, a nessuno sfugge, la delicatezza e problematica del momento. Noi siamo chiamati a essere sale e luce del Continente africano, dove occorre con- tinuare a riproporre la buona notizia che salva e che libera integralmente, in un rin- novato sforzo di evangelizzazione. Molte esperienze evangelizzatrici, in Africa, sono di primo annunzio, kerigmatiche. *Missionaria cabriniana in Etiopia di A LESSANDRA F ERRI P er vent’anni, dal 1993 al 2013, ho lavorato per diverse ong — orga- nizzazioni non governative che svolgono progetti di coopera- zione — come psicologa, e ho seguito prevalentemente progetti sociali a sostegno di gruppi vulnerabili come donne, minori e famiglie in difficoltà. Negli ultimi sette anni ho lavorato di- rettamente con diverse religiose. Già nei miei primi lavori, in Came- run e Centroafrica, avevo notato come nei villaggi più sperduti, alla fine delle peggiori piste di terra battuta, si trova sempre una piccola missione, spesso solo due o tre suore, un cortile pulito e fiori- to, una caffettiera sul fornello e dei buo- ni biscotti. A quei tempi lavoravo con ong laiche ma spesso i nostri partner sul terreno erano le congregazioni o la diocesi, che potevano garantire la conti- nuazione dei servizi alla fine del progetto. Conoscono le famiglie, sono al corrente delle ultime novità, spesso hanno una memoria storica notevole visto che molte missioni han- no anche cinquant’anni, o più. In Benin sono andata a lavorare per una ong creata direttamente dalla comunità delle salesiane a Cotonou, composta da una deci- na di donne di provenienza diversa. Nella ong lavorano due o tre suore, le altre si occu-

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