donne chiesa mondo - n. 17 - novembre 2013

L’OSSERVATORE ROMANO novembre 2013 numero 17 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo Suore e carceri Sbarre, muri, lucchetti, catene. Uomini, donne e anche bambini; detenuti colpevoli, detenuti innocenti, immigrati clandestini, bracci della morte, campi di prigionia nella storia di ieri e di oggi; martirio. Insieme, per mano, nell’ascolto, nella preghiera e nell’abbraccio, suore che trovano e hanno trovato nell’assistenza ai carcerati un modo concreto per lenire tante ferite, anche perché — come ha recentemente ricordato Papa Francesco (accogliendo il dono di una borsa confezionata a mano per lui dalle detenute del carcere romano di Rebibbia) — «nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna». Entrare nelle carceri per essere davvero vicine a chi vi è rinchiuso richiede una grande forza di immedesimazione perché tempo, suoni, colori, priorità, tutto cambia dietro le sbarre. Dove la conseguenza più terribile è la perdita della speranza. Non tanto il cuore spezzato, ma il cuore che diventa pietra. Alla relazione tra suore e carceri è dedicato questo numero. Alle suore che vi entrano per stare accanto ai detenuti, ma anche alle suore che la carcerazione l’hanno vissuta sulla loro pelle. Perché in entrambe le situazioni, le religiose si dimostrano capaci di vivere questo momento come autentica comprensione della loro missione di donne e di religiose. Per questo numero, Isabella Ducrot — appassionata di rose che coltiva da anni con sapienza e amore — ha disegnato una specifica varietà di questo fiore. Sono cespugli composti di piccoli, perfetti pon pon bianco latte tra cui fanno capolino, qua e là, boccioli rosso rubino; le foglie sono piccole, ordinate, scure e sempreverdi. Queste rose si chiamano Félicité et Perpétue, e prendono il nome da due giovani donne che subirono il martirio sotto Settimio Severo. E che morendo ci hanno lasciato un testo di passione, dignità e coraggio. Di fede, di carcere e di femminilità. ( g.g. ) Sdraiate sull’asfalto per i clandestini Intervista a suor Pat e suor JoAnn che operano nel sistema carcerario di Chicago di E LIZABETH S IMARI «Come suore della Misericordia siamo chiamate a essere solidali con le nostre so- relle e i nostri fratelli immigrati clandesti- namente». Suor Pat Murphy e suor JoAnn Persch hanno preso sul serio que- sta vocazione e stanno facendo la loro parte nell’aiutare gli undici milioni di im- migrati privi di documenti negli Stati Uniti. Per anni hanno svolto il loro mini- stero nelle carceri di Chicago, in Illinois, lavorando in particolare presso il Broad- view Immigration Processing Center, luo- go in cui gli immigrati illegali sono rin- chiusi fino al processo. Le due religiose si sono conosciute quando erano ancora gio- vani suore, e non c’è voluto molto perché scoprissero che la loro spiritualità e il loro senso di giustizia erano molto compatibili. La partecipazione a programmi sulla dot- trina sociale della Chiesa, gestiti dai gesui- ti, le ha aiutate ad ascoltare la loro chia- mata: dedicarsi alle questioni di giustizia. Oggi s’impegnano a tutti i livelli per con- tribuire a fare approvare dal Congresso statunitense una legge che darebbe ad al- cuni giovani privi di documenti e alle loro famiglie la possibilità di ottenere la citta- dinanza. «Siamo donne di speranza, quin- di non ci arrenderemo». Come siete arrivate a interessarvi di immi- grazione clandestina? La giustizia sociale è sempre stata al centro dei nostri interessi. Siamo cresciute in città diverse, ma entrambe abbiamo fat- to parte di gruppi di azione cattolica. La morte di tre suore e di una missionaria lai- ca nel Salvador, di monsignor Romero, dei gesuiti e della loro governante, ci ha spinte a reagire. È stata questa, in parte, la nostra prima chiamata a dedicarci agli im- migrati, e, nel caso specifico, ai rifugiati centroamericani che scappavano dalla vio- lenza. Nel 1990 abbiamo inaugurato e in- cominciato a gestire Su Casa, una casa della comunità cattolica per i rifugiati cen- tramericani. Accoglievamo uomini, donne e bambini provenienti da quelle terre, tutti vittime di torture. Per sei anni abbiamo vissuto e lavorato a Su Casa, che è ancora aperta e accoglie donne e bimbi ispanici che non hanno un tetto. Poi è entrato in scena anche il Broadview Immigration Processing Center... Nel 2006 la nostra comunità ci ha chie- sto di andare a conoscere dei “veri” immi- granti, quindi abbiamo cercato una nuova sfida. Abbiamo sentito parlare di un avvo- cato, Royal Berg, che proprio in quell’an- no aveva deciso di andare a pregare nel centro dell’immigrazione di Broadview do- ve la gente veniva rinchiusa in attesa di controlli. Ci siamo unite a lui nel gennaio del 2007: abbiamo capito che la nostra vo- cazione era di essere lì ogni venerdì. Quel- la prima settimana c’erano solo tre suore della Misericordia e l’avvocato. Ora, inve- ce, ogni settimana partecipano circa una quarantina di persone. Cinque di noi en- trano prima che sia consentito l’accesso ai familiari; due si dedicano alle famiglie, dando loro notizie su dove andranno i lo- ro cari e i recapiti di case sicure; altre par- lano con quanti verranno spostati in altre strutture in attesa di giudizio. Il permesso di salire sui pullman dei clande- stini e di entrare nel centro avete dovuto conquistarlo. È una lunga storia. Parlando con i fa- miliari che venivano a salutare coloro che venivano rinchiusi, abbiamo capito che avremmo dovuto essere presenti all’interno della struttura per offrire loro cure pasto- rali. Lo abbiamo chiesto, ma la risposta è stata negativa. Ci siamo allora accordate con un gruppo di pressione per sdraiarci davanti ai pullman diretti all’aeroporto al- lo scopo di denunciare la violazione dei diritti umani e religiosi. Il fatto che fosse- ro coinvolte nella protesta due arzille suo- re anzianotte ha suscitato grande scalpore nei media. Così i servizi deputati all’immi- grazione ci hanno chiamate: volevano trat- tare. Il risultato è stato che dall’aprile del 2009 siamo state autorizzate a salire sugli autobus diretti all’aeroporto per pregare con i “passeggeri”. Ci sono volute però ancora altre trattative perché fossimo auto- rizzate anche a entrare per parlare e pre- gare con gli immigrati clandestini. Un degli uomini e delle donne che ospitiamo e assistiamo stringono stretti legami con noi e con il nostro personale. Se ci pren- diamo cura di loro è perché non hanno una famiglia in questo Paese, non hanno un permesso di lavoro e per essere ascolta- ti in tribunale talvolta devono attendere anni. Vi recate settimanalmente anche nel carcere distrettuale McHenry. Ogni martedì, una squadra composta da una quindicina tra uomini e donne si reca nel carcere distrettuale McHenry. I detenuti si mettono in lista per incontrar- ci. Si tratta di visite a contatto personale e diretto, poiché vengono in una stanza con noi. Dialoghiamo, forniamo loro informa- zioni su ciò che accade quando si viene rimpatriati, trasmettiamo messaggi quando ci chiedono di fare qualche telefonata, di- stribuiamo materiale di lettura religioso e Bibbie, se lo desiderano. Terminiamo sem- pre con una preghiera. Ci dicono anche per che cosa vogliono che si preghi, e noi lo scriviamo e lo mandiamo alle diverse comunità confessionali. Quando non han- no soldi per telefonare a casa o comprare cose necessarie, versiamo dieci dollari sul loro conto per le spese personali. Perché è importante per gli Stati Uniti lavo- rare nel campo dell’immigrazione? Quali i problemi fondamentali da risolvere? L’immigrazione è al centro del nostro Paese e della nostra Chiesa. Quando te- niamo qualche discorso in pubblico, spes- so usiamo le basi scritturali per spiegare il nostro bisogno di essere accoglienti e di andare incontro agli altri. La questione più importante è l’unità della famiglia. Continuiamo a vedere famiglie lacerate, bambini senza genitori, coniugi lasciati so- li; assistiamo al formarsi di una nuova ca- tegoria di poveri, laddove spesso la fami- glia era solida e le persone erano membri produttivi della società. Papa Francesco ha condannato la globalizza- zione dell’indifferenza, proponendo una globa- lizzazione della fraternità. Come può una glo- balizzazione della fraternità aiutare a risolve- re le questioni relative all’immigrazione? Amiamo molto l’omelia pronunciata a Lampedusa. La citiamo nei nostri discorsi e ne distribuiamo copia. La globalizzazio- ne dell’indifferenza è letale per la questio- ne dell’immigrazione e per il mondo in generale. È un’omelia di una tale forza: che dono sarebbe la globalizzazione della fraternità! Significherebbe vivere il Vange- lo. Spesso diciamo: è difficile fare il Van- gelo. Questo perché viviamo in una cultu- ra di isolamento e di paura. Non esiste- rebbe un problema dell’immigrazione se praticassimo la globalizzazione della fra- ternità. Invece di riconoscere che siamo fratelli e sorelle, viviamo nella cultura del noi e del loro: siamo convinti che se gli al- tri non sono come noi, non possono esse- re buoni. Il Papa ha invitato ad aiutare quanti sono nelle periferie. Che ruolo hanno le religiose nell’aiutare gli emarginati, e quali doni speci- fici possiedono le donne nel prestare questo aiuto? Le religiose sono in prima linea nel la- voro con gli emarginati. La nostra comu- nità è impegnata a lavorare con i poveri e gli oppressi, ma questo vale per tutte le religiose. Andiamo dove c’è bisogno e la- voriamo con tutti. Dobbiamo far sapere alle nostre sorelle e ai nostri fratelli che non sono soli. Abbiamo la capacità di schierarci e di parlare a favore di coloro che non possono o non sanno farlo. Le donne sono dotate di gentilezza e di senso materno, ma sono anche molto forti ed è proprio dell’istinto materno proteggere gli indifesi e schierarsi in loro favore. Non dobbiamo aver paura di rischiare per amo- re del Vangelo. Ogni martedì ci rechiamo nel carcere distrettuale McHenry I detenuti si mettono in lista per incontrarci Ci dicono per cosa vogliono che si preghi e noi lo facciamo sapere alle diverse comunità Nel 1990 suor Pat Murphy e suor JoAnn Persch hanno avviato a Chicago la comunità cattolica per lavoratori Su Casa, destinata ai rifugiati centramericani richiedenti asilo e sopravvissuti alle torture. Qualche anno dopo, hanno quindi avviato Casa Notre Dame per le donne in cura dalle dipendenze e i loro figli. Oggi operano come volontarie di giustizia per le suore della Misericordia di Chicago, nell’area del West/Midwest. Hanno creato e ora coordinano il comitato interconfessionale per gli immigrati detenuti. donne chiesa mondo Suore filippine visitano una prigione di Manila (foto Asia News) Che rapporto sviluppate con coloro che vengono rinchiusi e le loro fami- glie? Alcune di queste per- sone vengono detenute per mesi o perfino per anni. Molte di loro si presentano regolarmen- te, quindi riusciamo a stabilire un legame che, in parte, continua anche dopo. Uno dei detenuti che è venuto a incon- trarci aveva moglie e un figlio a Chicago. Questi hanno incominciato a venire a Broadview, e così abbiamo conosciuto anche loro. Il marito adesso è fuori su cauzio- ne, e quindi a volte par- tecipa alla veglia. Siamo andate a casa loro e la famiglia è venuta da noi. Stiamo tutti pregando perché l’uomo non ven- ga trasferito quando ci sarà il processo. Ora ab- biamo un programma post-detenzione e molti gruppo di sostegno ha intanto preparato un disegno di legge per consentire agli operatori pastorali di entrare nelle carceri dell’Illinois e incontrare i detenuti per im- migrazione clandestina. Eravamo ciò che definivano “il volto della legge”. E così ci siamo messe a fare pressione e alla fine la legge è stata approvata. Era il 2008. Con- cretamente, però, abbiamo dovuto aspetta- re fino al 2010 prima di poter effettiva- mente entrare. Il nostro motto è: «Lo fac- ciamo in modo pacifico e rispettoso, ma non accettiamo mai un no come risposta». Isabella Ducrot, «Félicité et Perpétue» (2013)

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