Cultura e realtà - anno I - n. 3-4 - marzo 1951
LETTURE 133 che restringe sempre più il suo io limitando sempre più intensamente la: coscienza dei valori all'astratto punto dell'io. A forza di affannarsi dietro a « stima di sé » e « indipenò~nza » il quadro interno che il superbo ha di sé e di cui egli apprezza il contenuto appunto perché è lui - non altri - che lo possiede e lo apprezza, diventa un medium sempre più torbido che finisce col precludergli definitivamente ogni coscienza ed esperienza di sé; l' «indipendenza» diventa una recisione di tutti i fili vitali che lo congiun– gono con Dio, l'universo, l'umanità. « Così parlò la superbia alla mia me– moria: tu non puoi aver fatto questo; allora la memoria cedette; dunque io non ho fatto questo» (Nietzsche). Sempre più soli riduce la superbi~ sempre più a quello che Leibnitz rimproverava all'Atomo: déserteur du monde. Non assomiglia questo superbo della morale a chi in un deserto, lentamente, con le proprie mani si strangola? Il superbo è troppo superbo per dare un qualsiasi valore all'immagine che altri si fanno di lui, alla sua figura, alla sua parte in società. Egli è troppo superbo per essere vano. Ma la vanità è solo ridicola, ri.on è diabo– lica. È ridicola perché essa si sottopone inconsapevolmente al giudizio di coloro che pretenderebbe sopravvanzare mediante l'ostentazione dei propri pregi. In tal modo il vano, proprio nell'atto che cerca· consapevolmente di distinguersi e di attrarre l'attenzione dell'umanità su di sé, diventa inconsa– pevolmente vittima di una segreta simpatia per l'umanità. Questo è ciò che gli merita una lieta risata; che non s'accorge dì servire là dove cerca di dominare, non s'accorge di cadere nel comune là dove pretende di essere diverso. Il vano è solo un superficiale il cui pudore non è sufficientemente grande per resistere alla tendenza di, gioilre della propria immagine. Ma la simpatia che nella vanità si contiene, - per quanto fuorviata - le confe– :risce ancora il fascino di un genere di amore fuorviato. Ciò mancai alla superbia che è profonda come tutto il ma.le . Noi parliamo di «modestia» quando il pudore che cerca di celare un pregio che si è constatato, vince la tendenza a porlo in mostra coll'adozione segreta di quelle unità di mi– sura estranee che il superbo disprezza a priori. È una virtù piatta come il vizio che nega. Poiché non è che una gara tra vanità e pudore in cui il pudore prevale. Essa si esaurisce totalmente nella sfera della socialità, e già per questo non dovrebbe venire confusa con l'umiltà che ha invece di mira il tutto. Il superbo: è l'uomo che « guardando continuamente in giù» convince se stesso di essere su di una torre. Egli compensa ad usura ogni sprofondamento di fatto della sua persona con uno sguardo in un abisso ancor più profondo, così che egli deve vedersi ascendere colà dove effetti- BibliotecaGino Bianco
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