Cultura e realtà - anno I - n. 3-4 - marzo 1951

LETTURE 131 se ben visto e compreso, costituisce il più radicale paradosso e la pm pro-· fonda antitesi rispetto al comportamento morale sia antico che borghese– moderno. L'umiltà è fa più delicata, la più riposta e la più bella delle virtù cristiane. L'umiltà ( humilitas) è un interno, costante pulsare di servizievolità verso tutte le cose, le buone e le cattive, le belle e le brutte, le vive e le morte. Essa è il contrassegno spirituale interno del grande movimento della divinità cristiana, quello per cui essa rinunzia liberamente alla sua altezza, alla sua Maestà, e viene all'uomo per diventare serva libera e beata di ogni creatura. In quanto noi compartecipiamo di questo movimento, abbando– nando interamente il nostro essere, ogni suo possibile valore, tutta quella stimabilità e dignità cui la superbia saldamente s'aggrappa; in quanto ef– fettivamente ci « perdiamo », ci « concediamo », senza timore di ciò che abbia ad accadere di noi, ma con un'oscura fiducia che il compimento di quel movimento divino possa servi•re, perché «divino», anche alla nostra salvezza, noi siamo «umili». Proprio l'« abbandono» effettivo e totale del nostro io e del suo valore, proprio l'audacia di librarsi seriamente sul vuoto spaventoso che si spalanca terribile al di là d'ogni riferimento - sia co– sciente che incosciente - al nostro io, proprio questo conta! Abbiate l'ardire di meravigliarvi grati del fatto che voi siete, che qualcosa è, e non è nulla! Abbiate l'ardire di rinunciare a tutti i vostri pretesi « diritti» interni, alle vostre « dignità », ai vostri « meriti », alla stima degli uomini - ma so– pratutto alla « stima di voi stessi » -, ad ogni pretesa di esser degni di una qualsiasi felicità e rinunciate a concepire questa altrimenti che come un dono che vi viene fatto: solo così sarete umili. L'umiltà trova la sua antitesi estrema nell'atteggiamento morale razio- 1 nale di superbia dello stoico romano; in quel principio per cui si deve agire in modo da non perdere la considerazione di· se stesso, la « sovranità » e la « dignità » del proprio io. Antitesi quindi anche dei moralisti del Sec. XVIII i quali ripresero, non senza un fine senso di congenialità e comunità, l'at– teggiamento borghese della filosofia della tarda età romana; antitesi in par– ticolare dell'« autonomia del dovere» di Kant. « Noi altri, mio caro Lu– cilio, - fa dire Addison al suo Stoico - alla felicità vogliamo preferire l'esserne degni». Questa proposizione ridà insieme uno dei motivi fonda– mentali dell'etica kantiana. È proprio questa proposizione che per il senso cristiano non è né parzialmente vera né falsa, ma diabolica. Accogli grato ogni felicità, la più bassa, il minimo pi,acere che sfiora i tuoi nervi, come la profonda beatiitudine, che in te diffondendosi, porta te e tutte le cose BibliotecaGino Bianco

RkJQdWJsaXNoZXIy