Cultura e realtà - anno I - n. 2 - luglio-agosto 1950

64 DISCUSSIONI SUL MITO Con la parola «mito» (screditata, egli dice; ma solo nella sua accezione politica, mi pare) Pavese .ha voluto intendere, credo, l'oggetto di una espe– rienza capitale dalla quale discenderebbero tanto il sacro quanto l'estetico; il luogo di una unità originaria, antecedente ogni distinzione, alla memo– ria del quale però, per poter veramente vigoreggiare, tornerebbero i distinti. È chiaro come P. scriva nell'ordine di una descrittiva psicologica; ma, insieme, tenda a respingere in un prius prepsicologico (rivelazione, assoluto, attimo intempor~le) l'originaria emozione mitica. Psicologicamente, il mito di P. non differisce troppo dagli archetipi di J ung, dalle forme capitali di memoria che sono state oggetto di tanta letteratura dello scorso e del nostro secolo e che han poi trovato, appunto nella psicanalisi, i loro giunti con l'etnografia, la storia comparata delle religioni, del folklore, delle arti; P. lo dice esplicitamente. Ma la questione è un'altra. La irriducibilità del «mito» a momento storico-culturale (cioè a pen– siero, a poesia, a prassi) è una irriducibilità psicologica o metafisica? I miti ci frequentano deterministicamente, come memorie puerili (prime impres– sioni), come eredità ancestrale, come sopravvivenze magiche, come religio inferiore, al livello delh superstizione, come inevitabile fiatare dell'incon– scio? Oppure, come ·accenna P. (ma dicendo subito di voler 4bbandonare « quest'alta quota») « un mito degno di questo nome non può sorgere che sul terreno di tutta la cultura esistente, presupponendo quella cultura, dan– dola per scontata e tuttavia accennando oltre... »? Nel primo caso: o si muove intrepidamente alla illuminazione progressiva di quelle oscurità, ri– conoscendole, identificandole come relitto storico, mistificazione, alienazio– ne, eredità negativa; o ci si abbandona ad esse, con tutte le conseguenze aberranti del misticismo e del tellurismo che bene conosciamo. Nel secondo caso, il mito non è più del passato di quel che sia dell'avvenire, i « minori attimi estatici » non sono condannati ad essere relegati nell'infanzia e ad operare solo per via di memoria, e, in altre parole, il contatto folgorante e intenso è davvero un cc bene universalmente umano» (una volta lo chia– mavano preghiera), una cc religione» che non sopravvive, bensì vive, una costante del destino dell'uomo o almeno dell'uomo quale noi lo conosciamo. P. oscilla fra queste due interpretazioni. Ora, se il mito è per me soltanto la favola infantile, la cc voce del sangue », la pesante crittografia dell'incon– scio, perché non dovrei sentirlo come limite, come determinazione inferiore, BibliotecaGino Bianco

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