Cultura e realtà - anno I - n. 2 - luglio-agosto 1950

18 CESARE PAVESE mondo organico e razionale, sull'esperienza insomma di passate estasi altrui già divenute letteratura. C'è un senso in cui il poeta autentico non può non essere il più colto dei letterati contemporanei. Ma dunque il pericolo di abbandonarsi ad abitudini e compiacenze, di fingere a se stesso ispirazione e verginità, di prendere la scorciatoia di uno stile dato - di vedere mistero dove mistero non c'è più - è tanto più i~mediato per l'autentico poeta, quanto maggiore è il numero a lui noto di comode strade già aperte, già spianate, e quanto più impervia e singolare gli appare la strada dell'ignoto, dell'informe, dell'inespresso. Va da sé che anche i letterati compiono opera proficua, e nulla è più inconcludente della romantica crociata rivolta a sterminarli e umi– liarli. Ciò non soltanto perché i maggiori poeti affondano radici nel terriccio e nel concime della letteratura e ne sono nutriti e insomma composti per massima parte, ma soprattutto perché i letterati costitui– scono l'ossatura del pubblico che ascolta i poeti e danno una voce e un senso alle aspirazioni e risposte di questo pubblico ingenuo. Ciò che è stato veduto e ridotto a chiarezza dal poeta, le sue prede nel paese sco– nosciuto, somiglia a quella fauna della savana e della giungla che il cacciatore ha catturato e che trasporta in paese civile. Queste creature strane, ancora intrise di un fiero e primordiale sbigottimento, vanno ingabbiate, mostrate, spiegate, fatte vivere tra noi. Non serve stare sulle sue. Se fosse possibile moltiplicando e isolando tra noi i grandi capo– lavori poetici far tacere ogni altra voce, ogni commento, ogni volga– rizzazione, avremmo fatto un lavoro come di chi riempisse i crocicchi con belve ombrose e feroci, e ne adibisse intanto le gabbie a carcere dei domatori e dei guardiani. Sparirebbero insieme la vita civile e le belve, o meglio si assisterebbe a una nuova partita di caccia con spreco di vite,. di tempo, e con indignazione degli stessi cacciatori. Meglio riconoscere che fin che il mondo produce poesia - fin che giungono dall'ignoto mostri incantevoli o atroci - il compito dell'uomo civile è popolarne lo zoo e dar loro un nome e una gabbia - farne letteratura. Ma che siano davvero mostri, miti incarnati, scoperte. Non cani bassotti o tacchini. Il mondo è pieno di chimere e di sorprese, ma sol– tanto quelle autentiche interessano al poeta, e soltanto quando a questi sia riuscito di costringerle a rivelare il loro nome esse interessano a noi. Ora, non tutti si rendono conto di che cosa questo importi. Una cosa da nulla. Il poeta, in quanto tale, lavora e scopre in soli– tudine, si separa dal mondo, non conosce altro dovere che la sua lucida e furente volontà di chiarezza, di demolizione del mito intravisto, di BibliotecaGino Bianco

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