Cultura e realtà - anno I - n. 1 - maggio-giugno 1950
8 CESARE PAVESE non perderà la sua immobilità se non per diventare altra cosa - poesia consapevole, pensiero dispiegato, azione responsabile - insomma storia. Mitico chiamiamo perciò questo stato aurorale; e miti le varie im– magini che balenano, sempre le stesse per ciascuno di noi, in fondo alla coscienza. Esse vivono in quanto tuttora non risolte nell'evidenza poetica o nella chiarezza razionale, ma irradiano tanta vita, tanto calore, tanta promessa di luce, che riescono in definitiva altrettanti fuochi o fari della nostra coscienza. Nel presente discorso questi ·miti individuali c'interessano come i germi di ogni poesia. Il poeta che altro fa se non travagliarsi intorno a questi suoi m1t1 per risolverli in chiara immagine e discorso accessibile al prossimo? Giacché è loro natura demonica che, mentre incantano con l'esperienza di un unico di un assoluto irriducibile, questi miti, che vogliono esser creduti (« veri metafisici»), inquietano la coscienza· come un'importante parola ricordata soltanto a metà, e impegnano tutte le energie dello spirito per rischiararli, definirli, possederli fino in fondo. Ma possedere vuol dire distruggere, si sa. Questa distruzione - beninteso, è una trasformazione - toglie al mito violato la sua unicità, la sua misteriosa potenza di simbolo creduto. Il mito che si fa poesia perde il suo alone religioso. Quando si faccia anche conoscenza teorica ( « umana filoso– fia ») il processo è finito. Con questo non si raccomanda a nessuno di conservare i propri miti nella bambagia. La smaniosa fede iniziale in tanto è sincera in quanto non rinuncia a sforzo alcuno per meglio penetrare e possedere il suo oggetto. Né serve a nulla fingere a se stessi, per estetistica com– piacenza, che un mistero perduri quando già lo si sia risolto in chiara immagine o lucido concetto. La legge dello spirito è questa: suscitare incessantemente nell'urto con la realtà i propri miti e ingegnarsi <l'1 risolverli, di farne poesia o teoria. Chi continua a baloccarsi con un mito ormai spiegato, penetrato, violato, non riesce né vero credente né poeta né scienziato. Riesce un esteta, e nulla più. Possiamo inserire, a questo punto, l'avvertenza che tutta la nostra spiegazione riguarda il processo spirituale in sé, astrazion fatta dall'oc– casione magari biologica che lo determina e mette in moto. Inutile dire che un mito il quale covi in fondo a un cuore, potrà e dovrà sul piano storico, da chi lo comprenda, venir riconnesso alle pratiche vicende del suo fedele, dai casi dietetici sessuali economici di questi al suo rapporto con la cultura, con tutta la cultura del tempo. Veduto dall'interno, un mito evidentemente è una rivelazione, un assoluto, un BibliotecaGino Bianco
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