Critica Sociale - XXI - n. 23-24 - 1-16 dicembre 1911

370 CRITICA SOCIALE lrasparentissima. liaslera (egli almeno deve sup- porlo) a costituirgli i M alibi formali' di fronte alla sua IDIONU ramig li a. lii SOSIIIIIZO,FEinaudi giudica, come noi, l'im- presa l l'ipolina una sciocchezza colossale, una fol- lia senza esempio e un disastro sicuro, anche dal ;mulo di vista prettamente capitalistico. la egli fa COM!! quegli eretici del Medio Evo. clic, annuo- Ciande le verità scientifiche e i principi lil.00ficj i più iderodossi, avevano cura di proslernarsi, prima, alla infallibilità delle dottrine di Santa Madre Chie- sa e della •Sacra Congregazione dell'indice. Gli è che, se l'Inquisizione romana allora non scherzava, l'odierno nazionalismo italiano non scher- za neppur esso; e per l'aria è troppo puzzo, ancor oggi, di roghi, sia pure « men feroci e più leggiadri» di quelli ;l'un tempo. Perfino degli antichi mazzi- Mani sono li, col fiammifero acceso !... Perciò il nostro ottimo economista laureato ed ex-quasi com- pagno, mentre trafigge cotesto nazionalismo beota colla più avvelenata delle sue penne polemiche, gli si dichiara, con profondi inchini, fedelissimo vas- sallo. L'ironia del suo pensiero ne risalta tanto più acuta: e allorquando egli fa le viste di giustificare l'impresa scellerata e paranoica coll'ipotesi di un ultraidealistico iperaltruismo dei nostri borghesucci a pro dei Berberi contemporanei e dei più remoti pronipoti di nostra gente, e propone; colla smorfia di una forzata serietà, di saggiarlo mercè una spe- ciale imposta progressiva, limitata ai ceti che dal- l'impresa traggono un piacere ideale — anzi un « divertimento », per usare la sua propria parola — la canzonatura attinge i culmini di un umorismo ilegno del poeta di Atta Troll. Del resto, ecco -- allestito dalla nota diligenza leI nostro f. p. — il sunto fedele dell'articolo. Al- l'Einaudi, ben s'intende, diamo per già scritta e pubblicata una solenne e sdegnosa smentita della nostra temeraria interpretazione del suo pensiero 0. La G. S. Luigi Einaudi pubblica, nella Riforma sociale di ottobre-novembre, un lungo articolo di considera- zioni economiche e finanziarie « a proposito della Tripolitania » e della nostra avventura guerresca, che è una altruistica opera di civiltà, e che, senza questo nobile sentimento di sacrificio, misconosciuto dagli stranieri, dovrebbe senz'altro considerarsi una spe- dizione priva del suo naturale scopo, che è la con- quista di cose atte a dare immediato godimento al conquistatore. L'Einaudi si propone di dimostrare due verità, che gli sembrano e essenzialissime per la buona riuscita dell'impresa: 1) È illusione credere che la Tripo- litania possa essere feconda di guadagni, se non lontani e indiretti, alla madrepatria; 2) sono invece una realtà, da affrontare consapevolmente e serena- mente, i sacrifizi economici che la colonia imporrà all'Italia». È -vero che, dal punto di vista politico, « è forse in- dispensabile, per far presa sul grosso della popo- lazione, che poco riflette e meno ragiona, diffondere una moderata dose di illusioni intorno alla ricchezza della colonia, ai frutti che se ne potranno ottenere, e via dicendo. In tutti i tempi e in tutti i paesi ac- cadde ciò; e anche in Italia dovemmo passare attra- verso al periodo delle ingenue amplificazioni, pe- (,) Il nostro presagio è superato! Ecco intatti (aggiungiamo questa noto sulla bozza) che l'Einaudi, all'Avanti!, il quale aveva ricevuto la stessa nostra impressione, invia (Avanti!, li corr.) una, non ret- tifica, ma aggiunta, nella quale ammette che, a giustificare l'im- presa tripolina, dee farsi del futuri:mio marinettistico; consente che in Tripolitania bisognerà a dirittura " fabbricare,, la terra colti- vabile, che non esiste: e insiste sulla felicita di possedere un ba- ratro senza fondo, nel quale indefinitamente vengano ingoiati tutti i possibili avanzi del nostro bilancio. Un vero pinceasansn'ine, com- menta l'Avanti Modo che non è ancora tramontato i. Però itis po' li luce si è fatta, e o il succo migliore che si plIÒ rica- vare dagli scritti più ponderati, finora pubblicati in argomento, è questo: che pochissimo si sa intoni, alle ricchezze attuali, agricole e minerarie della Tri- politania; che quel pochissimo ci porta a concludere trattarsi di un territorio per due terzi apparente- mente sterile e non suscettivo di utilizzazione, e, per l'altro terzo, di produttività potenziale non ancora misurata e che potrebbe anche essere ragguardevole. Siccome quel terzo è, da solo, più grande dell'Ita- lia, la sua utilizzazione potrà, forse, nell'avvenire, essere frollifera, e giustificare le speranze odierne di potere alla lunga collocare nella Tripolitania un non trascurabile numero di coloni italiani n. Intanto non bisogna dimenticare sovratutto i quat- tro punti seguenti.: 1° - Essere il sin qui fatto bene auspicante, ma, pur- troppo, piccolissima cosa in confronto al tanto di più che ci rimane da fare. Mentre la Turchia, cor,,,.'n ed asiatica, è un mercato ragguardevole e di importanza crescente per noi, la Tripolitania vale, all'importazione, meno di ima diciottesima parte del nostro commercio con tutta la Turchia, e una venticinquesima parte circa all'espor- tazione; e appena giunge all'I %o della nostra im- portazione e al 2°/„,, della esportazione totale dal- l'Italia. La Tripolitania è un paese economicamente in decadenza, e, quantunque l'Italia sia riuscita ad attivarvi un commercio crescente per conto suo, il sin qui fatto é pochissima cosa in confronto al tanto (li più che dovremo fare in avvenire: occorre creare strade, ferrovie, industria, agricoltura, tatto. 2° -- Essere necessario bandire ogni idea di lucro per lo Stato. L'opinione volgare pensa spesso che la conquista di una colonia sia economicamente conveniente. Ma, se il caso della Tripolitania si presenta più favore- vole di quello dell'Eritrea, e bisogna però escludere a priori ogni speranza che la colonia possa mai es- sere produttrice pel bilancio dello Stato. Credere di- versamente sarebbe un prepararsi alle sorprese peg- giori ». Sarà una cagione perenne di spese per noi che l'avremo conquistata; e, anche se lo Stato non commetterà delle pazzie colonizzatrici, uso progetti di colonizzazione interna in Italia, e si limiterà a provvedere alla giustizia, alla sicurezza, all'istruziona, alle strade, ai porti, alle ferrovie, ecc., o dovrà spen- dere centinaia di milioni, alla lunga qualche miliardo, in spese d'impianto, e qualche decina di milioni al- l'anno in spese correnti, con la speranza che, dopo un certo tempo, probabilmente non minore di un tren- tennio, il bilancio della colonia possa vivere con le proprie forze senza uopo di sussidi dalla madre- patria ». Probabilmente anche questa è una speranza vana, come lo dimostra l'esempio della Francia e dell'In- ghilterra, che spendono ancora somme ingenti per le loro colonie. E, anche supposto che il bilancio in Tri- politania giunga a saldarsi da sè e, dopo un po' di tempo, lasci un avanzo, « sarebbe vera pazzia prele- vare qualcosa da quell'avanzo a pro del bilancio della madrepatria. T.o Stato colonizzatore ha sempre il dovere di pagare.- la colonia non sente mai il dovere di restituire. I primi a ribellarsi all'idea di restituire sarebbero, non gli Arabi o i Berberi, bensì i coloni italiani. Questi dovrebbero essere fatti di una pasta diversa dai coloni di tutto il mondo per agire diver- samente... Il giorno, in cui l'Italia volesse prelevare un tributo, od anche esigere la restituzione di parte delle somme anticipate al Tesoro della colonia (parlo di restituzioni sul serio e non di artifizt contabili), sarebbe il segnale della rivolta. Rivolta difficilissima a domarsi perchè di cittadini italiani ». Appunto perciò Einaudi plaude all'impresa ora ini- ziata. e Perchi essa è un'opera di sacrificio per lo Stato, ossia per i cittadini italiani considerali nella loro qualità di contribuenti, SENZA ALCUNA SPERANZA DI RITORNO (Sic). Sarebbe comodo fare i colonizzatori per arricchire lo Stato e pagare meno imposte. Anche i popoli poltroni potrebbero tentare la partita; e i Tur-

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