Critica Sociale - Anno XXI - n. 20 - 16 ottobre 1911
CRITICA SOCIALE 515 noce convincimento — illustrato a più riprese anche in queste colonne (1) —; e cioè che lo spinoso problema meridionale, che è, essenzialmente, il problema del la- tifondo, non sarebbe tampoco scalfito dall'occupazione e dalla ipotizzata " messa in valore „ della Tripolitania; e ciò perchè il solo avviamento possibile alla sua so- luzione sta in una trasformazione dei rapporti econo- mici esistenti, in una menomazione del diritto di pro- prietà privata della terra, che consenta l'organizzazione cooperativa — e quindi sociale — dello sfruttamento del latifondo e della sua trasformazione tecnica ed eco- nomica. Cane così un altro degli argomenti, messi innanzi di questi giorni a difesa della nuova avventura africana. Anche supponendo — ciò che noi, per esempio, conte- stiamo a priori — che possa mai avviarsi in Tripoli- tania una forte corrente migratoria dei nostri lavoratori del Mezzodì, il problema del nostro latifondo — ossia, in sostanza, il problema del Mezzogiorno — non ne avrebbe alcun lenimento. Così l'ipotetico ottimismo — o almeno il professato agnosticismo — del Cammareri, riguardo alla possibi- lità che, un dì o l'altro, Tripoli acquisti per noi un qualsiasi valore economico, diventa un argomento di più contro il nuovo imperialismo colonialista! Finora — è cosa risaputa — la proprietà terriera del Mezzodì, la latifondista in ispecie, combatteva e ten- tava ostacolare per diritto e per traverso l'emigrazione, pel danno che risentiva dal crescere del prezzo della mano d'opera locale. A questo fatto notorio, il Cammareri ne oppone un altro, meno conosciuto e forse meno consapevole: il vantaggio che, viceversa, cotesta proprietà terriera ri- trae dall'emigrazione, in quanto il respiro, che questa consente ai lavoratori della terra — a quelli che par- tono, come a quelli che rimangono — differisce la ne- cessità di una soluzione rivoluzionaria del problema giuridico della proprietà medesima. In altri termini, l'emigrazione danneggia immediatamente i redditi del proprietario, ma gli salva, in compenso, il diritto di proprietà. Di guisa che l'azione della classe proprietaria si pa- lesa ugualmente antisociale e antiprogressiva, sia che si adoperi a contrastare, sia che voglia agevolare, of- frendogli nuovi sfoghi, l'esodo dei lavoratori. Ed è ovvio che così sia: il diritto di proprietà individuale ed esclusiva, che si esercita su un bene, così indispen- sabile alla vita collettiva e così inesorabilmente limitato in quantità e in feracità, com'è la terra che dà il pane, non può — comunque si atteggi —'che riuscire antieco- nomico ed antisociale. Lo è per definizione! notevole la chiusa dell'articolo, nella quale si pre- vede la possibilità che la nuova colonia — dato che possa mai meritare questo nome — diventi campo aperto a un più feroce sfruttamento della mano d'opera agricola nazionale; diventi, in qualche modo, un'Ame- rica a rovescio. Non sappiamo se il patriottismo, che inneggia a Tripoli italiana, vi abbia già golosamente pensato. E cosa tanto curiosa il patriottismo borghese! Ma sarebbe il colmo delle ironie della storia, se, pro- prio a quel Giolitti, che cooperò così efficacemente — è pura giustizia riconoscerlo — a diaacerbire la seco- lare servitù dei contadini in. Italia, il" fato storico „ avesse ora imposto — allegra vendetta! — di assicu- (1) Teggast, fra l'altro, dal CAMIARERI Il latifondo in Sicilia e l'inferiorità meridionale; nella nostra Biblioteca di propaganda (L. 1,50). rare delle buone rivalse alla umanità dei futuri pro- prietarii del Barca e del Fezzan, dove probabilmente —come in Eritrea e al Benadir — lo Statuto del Regno subirà qualche attenuazione, almeno provvisoria, e il diritto di coalizione e di sciopero sarà, per avventura, un po' meno efficacemente esercitato e tutelato! Vero è che il Cammareri accenna anche — molto di volo — alla possibilità che il Governo abbia un giorno da concedere lo sfruttamento diretto di terre tripoline — posto che se ne trovi di adatte e di disponibili — ad Associazioni di lavoratori italiani. Ma, in verità, non ci consta che la storia del brigan- taggio coloniale di nessun altro paese offra qualche precedente apprezzabile a suffragio di un'ipotesi, così fantasticamente e ottimisticamente temeraria! Là CRITICA. Poiché è in Sicilia la più viva infatuazione tri- polina, giova discutere della conquista dal punto di vista siciliano. I favorevoli e i contrari partono dallo stesso argomento: le terre incolte di Sicilia e di altre regioni italiane; per giungere a conclu- sioni diametralmente opposte. Le nostre terre — dicono gli uni — per la scarsa produttività di molte di esse, non bastano alla po- polazione crescente, costretta ad emigrare in terre lontane; diamo agli emigranti la Tripolitania, che è in gran parte incoltivabile, è vero, ma è vasta tre volte l'Italia, offre oasi fertilissime, e non ha che un milione di abitanti sparsi. Abbiamo veri deserti all'interno da colonizzare rimbeccano gli altri — persino alle porte della capitale, e ce ne mancano i mezzi; perché dunque impoverirci di più con sperperi guerreschi a fine di conquistare altri deserti? I nostri latifondi so- pratutto i latifondi siciliani, per virtù di su) e di clima, possono rendere infinitamente di più a un'agricoltura industrializzata, con largo impiego di capitali e di lavoro. Esaminiamo dunque il rapporto tra il nostro problema agrario interno e quello coloniale • e, poichè si è risaliti ai Romani ed agli Arabi, rifac- ciamoci noi pure all'antico. ***. In Sicilia, per diffondere la semina e trarne il maggior possibile tributo di grano, i Romani di- boscarono l'immenso ager publieur n; ne vennero i' feudi , seminativi e da pascolo, coprenti di mi- seria e di malaria i quattro quinti dell'Isola. • Già prima dei Romani, la costa sicula meridio- nale vedea decadere le illustri città di Selinunte e Agrigento. Da Siracusa — in ultimo per opera di Timoleone — si mandò indariao nuova gente per arrestarne lo spopolamento. La appropriazione delle terre, fatta dai cosidetti geomori, doveva di necessità impoverirle. I latifondi passarono poi alla Chiesa e alla Co- rona bizantina, quindi ai Musulmani. È un insulto alla Sicilia, inflittole dagli stessi suoi eruditi, pretendere che i Musulmani di Sicilia, vulgo Saraceni, qui approdati dall'Africa invasa dagli Arabi, abbiano recato seco un grande pro- gresso agricolo, venuto e scomparso con loro. Strano invero che gli Arabi, i quali in Africa di- strussero le opere meravigliose della colonizzazione romana, abbiano solo in Sicilia portato le decan- tate meraviglie. Certo è invece che i Musulmani crebbero fiore all'agricoltura ove già prosperava e prospera ancora, cioè nelle zone frazionate dalla coltura intensiva, massime degli agrumeti. Ma nel latifondo la loro opera in nulla differì da quella degli altri predoni e dominatori; la " civiltà araba,,
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