Critica Sociale - Anno XXI - n. 18 - 16 settembre 1911
CRITICA SOCIALE 235 docile e supplice. E si rassegna a' suoi meditati ca- pricci di sirena volubile e accorta: Chieste fiamme che in me torconsi leone, impazienti di nen poter mai te raggiungere, tanto agile sai balzare indietro, queste fiamme, senza più dolermi, sopporto, chlian potenza di consumar vili pensieri e cose. Impassibile il mio capo sormonta ogni tormento ove nii struggo e scarno senza più grida, poi che non indarno sento ch'é questa dura pena, a cui sostener sempre una virtù ne' bui nascondigli dell'anima sta pronta. Il se a pianger mi sforza il trdppo acerbo soffrire, non però lacrima piango che cada a fairai sotto i piedi fango; fulgide le mie lacrime, alto il grido sempre del mio dolore; e se non rido, a più giocondo ridere mi serbo. • Non ride infatti,_mai„ la Musa del Chiesa. Appena, •a quando a quando, sorride di un suo tenue sorriso delicato e austero. Troppo alto si affisa il suo sguar- do e troppo severa si configura dinanzi alla sua coscienza la milizia a che egli si è votato. E si ram- pogna egli e si disciplina talvolta come un asceta: Vieni, o buon tedio! Questi cenci o piume ove siedo e mi sdraio, in dura lisca mutami tu; corrompimi il dolciume " di questi cibi facili, che i denti neppure adopro; fa che inacidisca questo sin molle o nausea diventi. Egli ha in uggia il morbido e il facile. Oh, se vo- lesse liberare dalla sua lira, in canora copia opima, accordi numerosi e Carezzosi e soavi motivi ama- bilmente congegnati, potrebbe esser rapido e abbon- dante poeta! Ma altre vie egli vuol battere' e altri canti affidare ai vanni della sua Musa: .... ben potrei grande apparir nel vivere comune: ma più mi piace scorrere profondo. Scorrer profondo come il « fiume sotterraneo », che intimo, angusto va per le fessure della terra, • e figger l'occhio nel secreto mistero della natura e della vita: 1.1n gran lago nel più secreto di noi, sotto un vel di densi angoli giace, che ne fuman su senza mai fine, e sono i nostri sensi: tetri s'è sette, s'è di chiari; e, sotto, nulla si vede di quei fondi immensi. Ala un giorno vien che per non capir motto di quel che parlan gli uomini, rientro ritroso in me con l'ascoltare; e un fletto profondo allora odo rombar nel centro di me, sotto le mie nuvole: chiudo gli occhi alle cose e li riapro in dentro... E vedo, vedo splendere! M'intrudo Ira le scomposte ombre, discendo, bevo curvo sugli orli di quel lume crudo. Bevo e fiammanti gli occhi risollevo, pieni e potenti quasi d'un felino lume, a schiarire ovunque non vedevo. Devo. E un sapore tepido, salino mescesi al dolce saper, come quando talor ebbri, una lagrima nel vino cade... Bevo e risalgo ebbro cantando. L'altra malinconia che accora il Chiesa, quella, voglio dire, piuttosto umana che artistica, è men lu- cidamente consapevole e men nitidamente raffigurata ed espressa. E, nell'anima del poeta e ne' suoi carmi, essa è come ancora avvolta e implicita in affetti e in forme indistinte. Si esempla, bensì, in istrofe plasti- che e in allegorie o ipotiposi fieramente drammatiche. Ma il peculiare stato psicologico, che corrisponde a ciascuno di questi canti, alcuni in tutto o in parte bellissimi — Il vento nero, Il sonno spezzato, Ulisse e Calipso, L'abisso, La taverna, L'ultimo sonno —, non resulta determinatamente riconoscibile e tale che possa gettar luce sullo spirito informativo degli altri canti, e riceverne; si apparisce come alcunchè di oscuro, nella sua nobile inquietudine„ e di fluttuante fra opposti venti e opposte ripe. Il poeta sembra talvolta oppresso da un incubo angoscioso. Il malore, che lo angustia e che gli desta nello spirito acceso • visioni tragicamente icastiche, fa capo a un groviglio di sentimenti e di pensieri altissimi, ma non ancora ben chiari; e, del fiero contrasto ond'egli è dibattuto, non si disegnano concreti e decisi i termini inimici. E però il lettore, dinanzi a quelle cupe e appassio- nate figurazioni e rievocazioni e confessioni, prova un senso come di molestia e di mortificazione; per- ché sente che, al disotto di esse, c'è qualcosa che gli sfugge, qualcosa che sta in fondo all'anima del poeta e che neppur questi ha saputo afferrare e rendere nella sua pienezza e nella sua bellezza insieme dolo- rosa e gioconda. È ben questo, sè mal non mi ap- pongo, il grido sincero, che egli si querela di non aver potuto rapire alla Poesia; il grido, che gli gor- goglia nell'anima e che ancor non gli si è articolato in suoni integri e in immagini luminose. Ma — ben s'intende, ed è un fuor d'opera il di- chiararlo — non si tratta, neppure in questi canti, di manco di virtualità e di possanza fantastica ed espressiva. Il poeta di Calliope è così alto poeta e tal signore, e così singolarmente originale, della sua lira solitaria, da cavarne tutte le armonie che a lui piac- cia e da esprimere, con inobliabile vigore e con soa- vità ineffabile, tutto che il cuore gli venga dittando. L'oscurità di che ho ragionato è psichica, prima e piuttosto che poetica ed espressiva. È uno stato d'ani- mo di laboriosa e concitata transizione, che il poeta rende, in quel che ha di penosamente dubitoso, per via di carmi necessariamente informati alla stessa angustiante indeterminatezza degli affetti e de' pen- samenti da che han tratto origine e materia. 1r** Se non che, e del men pieno e gioioso compiaci- mento che il lettore deriva dal pur notabilissimo e, per l'istoria dell'anima e dell'arte del poeta, prezio- so gruppo di canti di che ho or fatto cenno, e del fastidio che, or qua or là, ma in radi luoghi, gli dà il sorprendere un così invidiabile e dovizioso prin- cipe del canto, e così schivo dalla volgarità e così accorto nel magistero e in tutte le finezze e le com- plicazioni del ritmo e dello stile, in atto di indulgere, come per noia della sua perfezione consueta, a ne- gligenze quasi sciatte e a motivi, almeno nell'espres-
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