Critica Sociale - XXI - n. 12-13 - 16 giu.-1 lug. 1911
CRITICA SOCIALE 195 venta industria, e lo sfruÙamento capitalistico può· applicarsi al lavoro. In tutta la piannra Padana, nel– l'Emiliano, nel Ferrarese, e giù nella Romagna, dove le vaste piane consentono culture intensive, ivi, con le grandi proprietà, troviamo un pi·oletariato agricolo vero e proprio, che dà le migliaia di soci alle Leghe e alle Camere del Lavoro e che riproduce ne1la terra i bi– sogni e i sentimenti degli addetti alla fabbrica. Nelle bonifiche abbiamo di più: abbiamo vere Società ano– nime create per lo sfruttamento della terra. In queste regioni,la piccola proprietà quasi non esiste. Le piccole quote di terreno non rappresentano che il risparmio del coutadino :salariato, il quale, con l'acquisto del poderetto, tenta gnarentirsi quella pensione, che nè H padroue, nè lo Stato ancora gli assicurano: è una specie di assicurazione per la vecchiaia. Il contadino - infido per natura, e ammonito da noti scandali bancari - non affida volontieri i propri risparmi nè allo Stato, nè alle Banche; preferisce vederseli al sole, presso la sua casa, per essere ben certo che in vecchiaia non gli mancherà un tugurio e un pugno di fagiuoli. Invece, nel Monferrato e nelle plaghe limitrofe, la piccola proprietà è un fenomeno· sociale, necessario alla cultura, Nelle colline e nella vjgna, la vera macchina non trova applicazione, e il rendimento della terra ri– pete la sua origine esclusivamente dal lavoro dell'uomo. Siamo allo stadio sociale dell'artigianato. Nel decennio ultimo, nella vigna, scemò il valore-capitale e crebbe il valore-làvoro. Le malattie, moWplicatesi sulla pianta di Bacco e di Noè, hanno fatto dipendere dal solo sa– crificio del coltivatore il rendimento della vite. D'altro canto, la crisi di abbondanza ha enormemente deprezzato il prodotto. Il fenomeno, che il Bonzo sin dal 1894 rilevava, si è accentuato. Nonchè avverarsi, nelle regioni viticole, la concentrazione capitalistica, aumenta la suddivisione. Oggi, qui, le grosfie proprietà, conàotte direttamente dal proprietario, sono eccezioni 1 dovute a vanitoso puntiglio di antiche case blasonate o di recenti grasse fortune borghesi; quasi sempre sono passive. Solo il vignaiuolo, che logora la vita sui filari, cava dalla vigna un reddito utile. La piccola proprietà è la sola che dia un valore so– ciale alle ct1lture povere. Il piccolo proprietario non fa un vero bilancio del proprio lavoro. Se egli contasse 1e sue ore di fatica e pesasse il sudore che versa e i grattacapi che 8i procura, e li ponesse in raffronto con lo scarso cibo e Passenza di ogni godimento, che ne ricava, troverebbe tale un deficit, che fuggirebbe dal fondo ingrato, per emigrare o per applicarsi all'industria. Esagero? Le statistiche de!Femigrazione ci avvertono che un tale bilancio comincia a farsi, e a dare le su'e conseguenze. In Piemonte, terra classica della piccola proprietà, nel primo trimestre 1910 1 gli emigranti fu– rono ben 26.292, di cni 12.622 dalla sola provincia di Alessandria, e 10.295 da quella di Cuneo. Le provincie d_iTorino e Novara, eminentemente industriali, diedero poco più di tremila emigranti. Quella, invece, di Pavia - dove pure domina la piccola proprietà. - figura la quinta per numero di emigranti, con 19.037, su 39.0lG, dati da tutta la Lombardia. Nei tristi anni di crisi, quando il vino aveva perduto ogni prezzo, le regioni meno fortunate, il Valenzano 1 H Casalasco, l'Alessandrino, furono letteralmente disertate. Vaste plaghe erano abbandonate agli sterpi e alle or– tiche. Fra morir di fame o emigrare, il vjgnaiuolo pre- feri'va un transatlantico. · All'ultima Esposizione Internazionale di Milano, sfo- gliavo tremando le pubblicazioni distribuite nei padi– glioni della California~ del Brasile. Temevo che quelle apologie trasciuassero in massa le nostre popolazioni rurali. Fortunatamente, Paffetto alla casa, il mercato migliorato, impedirono l'esodo, sperato dagli incettatori di forza-lavoro. Malgrado l'opera negativa del nostro Governo, che sperpera negli apprestamenti di guerra i soldi sudati dei lavoratori della terra, la pazienz_a che il nostro contadino ha imparato dal bove, fu più forté di tutto. Senza di ciò, avremmo I.o spopolamento. La questione teorica dunque, per noi, non esiste. Attendere che questo stadio sia superato, e che l1indu– stria.lizzazione si estenda dal campo alla vigna e vi crei un proletariato agricolo, potrebbe essere molto pru– dente .... ma temo rinvierebbe ogni nostra azione al dì del giudizio universale. 4° Conte si esplica lo sfr·ttttcunento capitalist·ico. Nè è da credere che il capitale non sfrutti il lavoro della vigna. Non potendo sfruttarvi direttamente la proprietà, se ne compensa ad usura ;SUl lavoratore. Le statistiche di cui disponiamo sono un poco arre– trate. Nel 1885, la proprietà rurale, in Italia, valutavasi 24 miliardi, con 6 miliardi di debito ipotecario e altret– tanti di chirografario: in complesso, gravata di debiti in ragione del 50 ¾. Se a ugna li cause seguono uguali effetti, dal confronto colle statistiche francesi, assai più recenti, dobbiamo indurre che oggidì questo debito è notevolmente accresciuto. Il deputato M. Klotz, Relatore al Parlamento fran~ cese del bilancio dell'agricoltura, ci riferiva che: nel 1820 il debito ipotecario saH\'a a.. 8 miliardi )) 1840 n • ll » 12 n IBOO n .~ Dee supporsi quindi che il debito insieme ipotecario e chirografario, in 25 atini, si sia anche da noi accre– sciuto del 20-25 °lo e si aggiri oggi sui 16-17 miliardi, che, al puro interesse commerciale, rappresentano un reddito di almeno 800 milioni, sudato ogni anno ùai lavoratori della terra e assorbito dal capitalismo. Ora, chi pensi che il senatore Jacini, nella sua i: In– chiesta agraria 11 , calcolava a un miliardo e mezzo il reddito netto dell'agricoltura italiana, è facile vedere, pur facendo larga parte ai presumibili aumenti, quanto prema lo sfruttamento capitalistico sui lavoratori della terra in genere e sui piccoli proprietari in ispecie .. Antonio Piccarolo, in quel suo studio, ci descriveva il vignai0lo del Monferrato alle prese con l'ipoteca, con la quale i capitalisti si assicuravano prima un largo reddito) poi, molto spesso, il ricupero al ribasso della terra venduta. Compère-Morel, nella sua Prop1·il:!te1·urale en F·rance, scrive: "Il contadin() non si è liberato dalla servitù " feudale, se non per ~adere sotto la servitU del danaro, u più dura e tormentosa, perchè anonima .... Noi lo ve– " diamo oggi, tutto coperto d'ipoteche, cadere .sotto il " giogo finanziario 1 non meno pesante sol perchè volon– u tariamente accettato. 11 E aggiunge: " Su cento pro– " prietarì rurali 1 non ve n'è quattro realmente padroni "e i cui profitti accrescano il loro patrimonio. 11 E un altro speciali.sta, il Saint-Genis, nel suo La Dette ag1·aire et l'hel'itage foncie1·, scrive che i più dei proprietari rurali non lavorano per sè, ma per conto altrui, veri salariati del capitale 1 con l'aggravante che non sapreb– bero come scioperare. All'ipoteca, fata1mente, segue quasi sempre la cam– biale. Basta un'annata meno buona, una qualsiasi di--
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