Critica Sociale - Anno XVI - n. 14 - 16 luglio 1906

212 CRITICASOCIALE la poesin, quando non era leziosa, o pettegola, o bam– binesca, o erotica, o afrodisiaca, fu religiosa o anti– religiosa1 fu pagana o romantica 1 fu mitologica o de– scrittiva o aforistica, fu polemica o lirica ... Tutte queste fasi sono superate nel verso del nostro poeta. Egli non afferma, non nega, non prega, non com• batte, non spera; non è neppure uno scettico; gli manca, per meritare di essere qualificato C08Ì, il corruccio del dubbio, la punta dell'ironia, la più lontana velleità del sarcasmo. Egli accoglie la vita qual è, con tutto il pas– sato, con tutto il presente, con tutto anche l'avvenire, con un senso di mestizia pacata che non giungo mai allo spasimo, e pel quale nessuna cosa è molto grande, e nessuna è molto piccina, perchè tutte si adeguano di fronte alla immensità del complesso delle coso cho fu– rono e ('be saranno, perchè tutto fugge e si confonde nell'eterno riflusso dell'essere, perchè il noto e il co– sciente è poco pili che nulla rimpetto alla incommen– surabilità dell'ignoto o dell'inconsaputo, Egli lo confessa al lettore e a se medesimo in quel gioiello di Arte poe– tica (pag. 3) che fa da proemio al nuovo volume: Oh! ferma il verso, mentre ei tiene ancora della cosa o dol moto onde ò balzato e il suo ritmo nntìo vibra tuttora; e sin dalln tua schietta arte accettato tutto quanto al passar dell'ora brevi ti si palesa in estro inaspettato. }: pi:nsn, dopo ciò, che il tuo poema in faccia al 'l'utto è rondine smarritn che ai confini del mare aleggia e trema. Pensa che l'arte ò breve e che infinita oltre il fioco brusio delle parole c'è la terra, c'è il mare e c'ò la vita. La poesia, movendo dal tumulto della passione o dai ·blandi rapimenti della fantasia, fu, quasi sempre, ego– cent.rica ed antropomorfica. I,a lirica, particolarmente, è il regno dell'io; e, ai vecchi precettisti dell'arte del verseggiare, un IlOema, dove le cose non pigliassero in qualche modo senso ed atteggiamento umani, sarellbe parso la negazione di ogni pOeflia. )fa nella lirica (è lecito chiamarla. così?) del Berta.echi il procedimeuto è l'opposto. L'io non entra nel suo vorso che corno ne– cessità grammaticale, e si fonde con la natura, quasi un episodio insignificante. E, scambio cli prestare alla na– tura l'anima umanai è all'uomo, per con\'erso, ch'egli infonde l'anima universale della natura. Così da queste pagine l'individuo, quasi, sparisce; ogni individuo, anche il suo. ]~ panteismo? Non saprei dirlo. In ogni caso, è un panteismo senza alcunchè di divino. Una tale poesia - è appena bisogno di notarlo - non ha le grandi protese, per le quali il poeta, in altri tempi, potè credersi il profeta, il sacerdote, il vate. Essa non suscita le passioni cocenti, non moltiplica l'uomo e la natura nella condensazione forzata delle iperboli. Il poeta non è mai l'eroe, neppure di sè stesso. 1 ' La mia schietta. arte 11 , egli scrive. La sincerità, la probità, di• remmo quasi, è spinta fino a un limite, in cui nasce il dubbio be essa non esageri se stessa. Così egli, nell'Arte poetica, deprir.qe 1 quasi a disegno, il valore del suo poe• tare: Basterà che la fida arte ti apporti nella fatica dell'assidua lima un modo innocuo d'ingannar le sorti; e, qual nei giuoohi dell'età tua prima, distrar la vita, addormentare il male, in questa inezia del cercn.r la rima. Inezia, giuoco, cosa innocua. Qui la nota della eince• rità sembra persino forzata. E donde nacque quest'arte? Nacque, parimenti 1 dalle cose minime, dai ricordi e dalle impressioni della prima inranzia. In lnseg,iamenti lontani (pag. 11) Bertacchi rammenta i ceppi di faggio che spaccò nel suo cortiletto, mentre il padre lavorava al torno, e i primi soli bevuti e le i, prime insalate,, - scrive proprio così, culinari amen te, senza circonlocuzioni letteratescbe - raccolte nel piccolo orto, onde gli venne, ei suppone, l'amore delle selve e del paesaggio rusti– cano; e il fondaco materno, dove i datteri, i tamarindi 1 le droghe, i coloniali d'ogni maniera gli infusero, forse, la nostalgia dei paesi tropicali e degli ignoti continenti. Tutti gli sch6mi dei pensier futuri 1 tutti i preludi de!le mie canzoni stavano là, iltnvano là nei buoni giorni immaturi; in quei giorni i giochi, le fantasticherie fanciullesche, il fascino delle impressioni primissimo (a questo fascino irredituro è pure consacrato un altro piccolo capolavoro verso la fine del libro: il Canto delle sensazioni perdute) prepararono in lul il futuro uomo e il futuro poeta, che la vita svolse. Svolse od involse? l~ egli maggiore ve• ramente di se stesso bambino? Si direbbe che ne du• biti, se si bada alla tenue malinconia delle ultime strofe: Or, dalla vasta e dall'aperta scuola che fanciullo cercai per ogni parte, mi ridussi, nei chiusi anni, ad un'arte raccolta e sola; a me di tutto quel fervor d'imprese più non restò che la sottil fatica della parola; ma la smania antica qui mi si apprese e divenne l'amore ond'io giocondo nelle speranze de' miei canti amai !'opere tutte, tutti gli operai sparai pel mondo. Io questo senso di continuifa - di evoluzione, si di– rebbe in gergo scientifico - e in questa tenerezza, del poeta per le opere tutte, senza distinzioni e selezioui artificiose, è ancora un riflesso di quel panteismo senza dio, pel quale nessuna cosa gli par piccola, e dalle pic– cole cose trae di preferenza lo spunto d'ogni sintesi più ardita, se ne fa come tram pelli no per lanciarsi, con l'ali aperte, ai maggiori suoi voli. Perocchè questo amico del semplice non è, per altro, un microfllo: egli non si perde, come spesso fa il Pascoli, ad esempio, ostentatamente, nella carezzatura delle quisquilie. Al contrario. E, come ,igni cosa ed ogni opera gli par degna di ascoltarne attentamente la voce e sprigionarne l'occulta armonia che essa contiene, così, anche, ei non rizza la consueta muraglia fra la verità e l'inganno. Che cos'è la verità, e non è forse Pingauno una verità subiettiva, che ba, come ogni altra, le sue ragioni nelle cose? Onde s'intende la id.en.lizzazione affettuosa ch'egli fa di Jules Venie (pag. 25), il giorno che cotesto II vecchio Signor delle chimere III che imiò ad ogni mare un na– viglio alberando alle nostre adolescenze le vele aperte e chiare 1 salì egli stesso l'ultima nave - la nave della morte. E, morto, rinasce nel verso del Bertacchi, come un simbolo della vita, di moltissime vite: .. nella tua partita. noi ritroviamo il tacito commiato onde ognuno lasciò, vinto dal vero, il suo mondo ideato.

RkJQdWJsaXNoZXIy