Critica Sociale - Anno VIII - n. 6 - 16 marzo 1898

CRITICA SOCIALE 95 nunzio; mancanza dimosh·ata precisamente dalle sue incoerenze pl'ecedenti. E badi bene il Pilo: io parlo di incoerenze artistiche; giacché non si potrà mai dire che sia artista originale e sincero chi oggi segue la scuola verista, domani la scuola psicolo– gica; oggi s'infiamma per la teoria artistica che informa il romanzo russo. domani trae la propria teoria d'arte dalla filosofia del Nietzsche, e posdo– mani la attinge eventualmente dal Manifesto dei comunisti. Appunto per questo io, sebbene socialista, ammiro l'arte modero-clericale del. Fogazzaro, per– ché la trovo impl'Onlata a una saldamente formata coscienza artistica; non ammiro quella del D'An– nunzio, perché, nelle diverse produzioni che sono l'espressione di tutte quelle successive evoluzioni, egli porta quella preziosità e quella artificiosità achillinesca che gli deriva dal non avere nessuna concezione organica della vita e del mondo, nes– suna profonda e ferma convinzione artistica. E, via, c'è egli bisogno qui di ,•ilevare tutta l'in– sufficienza del paradosso con cui si chiude lo scritto del Pilo, che cioè il D'Annunzio, coi suoi diversis– si_mi atteggiamenti, farebbe, individualmente,_ ciò che ha fatto nel suo insieme, la letteratura britan– nica, vale ,;_dire rifletterebbe tutte le aspirazioni che traversano la coscienza della nazione! Ve la immaginate voi la potenza che avrebbe toccato l'arte di Dante, se egli, per sintetizzare più completa– mente la coscienza del suo secolo, fosse stato nella sua opera, volta a volta, guelfo e ghibellino, par– teggiante per i nobili e per Michele di Lando, caldo per la democrazia dei Comuni e sostenitore della sovranità del sacro romano impero? Ve la immagi– nate l'altezza dell'arte dello Zola, se questi, anziché subordinare l'intera opera sua a quella concezione rigorosamente positivista che aveva attinto nei li– bri di Claudio Bernard (si pensi alla dottrina del– l'ereditarietà che informa i Rougon-Macquart), si mettesse d'un tratto, per farsi eco anche di questa parte della coscienza dell'umanità attuale, a im– prontare le sue produzioni alla filosofia tomistica 1 Vi immaginate finalmente quanto ci guadagnerebbe in vigol'e l'arte di Tolstoi se egli, sempre per la stessa ragione, facesse dei suoi scritti il riflesso del1a corrente materialistica o dei convenzionalismi della società ufficiale 1 - E tutto ciò prova appunto all'evidenza che un grande artista non può essere l'eco di tutte le contraddittorie correnti di pensiero che si svolgono nell'epoca sua; e che, quindi, ciò che il Pilo attribuisce come lode al D'Annunzio è appunto invece quella mancanza d'una profonda e matura concezione della vita che é la condizione essenziale perchè l'artista sia grande. Ma il Pilo nega questo, e dice: all'artista nes– suno « può chiedere altro che belle frasi, versi ar– moniosi, imagini evocatrici ». La forma in arte è tutto. Non vedete le fiale iridescenti e i calici aerei di Venezia, i pizzi di Alençon e di Murano! che son essi, altro che forma 1 Già, già; sappiamo, dioina è la parola, e il tierso è tutto! È la vecchia teoria dell'arte per l'arte che il Pilo m'oppone. Ed io, certo, non affliggerò i lettori della Critica col proseguire la polemica su questo campo già troppe volte e da troppo tempo percorso. Una sola osservazione. Nego che si possano risolvere le questioni coi paragoni, e parlare di merletti, quando si tratta di letteratura. li merletto è una forma cli bellezza che tocca solamente la vista - i sensi; l'o– pera d'arte letteraria tocca invece appunto principal– mente il pensiero; é dunque sopratutto a questo, e non ad accarezzare l'udito coll'armoniosità dei versi, o la fantasia colla vivacità delle immagini, che essa deve mirare, per svol~ere compiutamente I~ s~a. funzione. !,'elegante calice di Venezia serve al suo scopo. che è quello di contenere del liquido; ma una letteratura che non sia altro che forma, armo– niosità e immagini non servo al suo, ed è precisa– mente come un calice, elegante sì, ma senza fondo; l'artista può avorio lavorato con ogni cura, esso rappresenterà sempre qualche cosa di monco, di assurdo, di mostruoso, per la stridente evidenza che é mancato lo scopo per cui fu formato. In ogni modo, ripeto, non è qui il caso di pro– seguire una polemica sulla teoria dell'arte per l'arte che potrebbe ll'ascinarsi avanti fino alla consuma– zione dei secoli. Ma mi consenta il Pilo di dirgli che, a mio parere, egli s'inganna quando pensa che la teoria, che a quella dell'arte per l'arte si oppone, si possa dire « succhiata alla flosce poppe della scuola ufficiale ». Oggi la teoria ufficiale è proprio quella che egli difende: la teoria dell'arte per l'arte. Non lo era trent'anni fa quando i Goncourt prefe– rivano darsi pensie,·o dei loro btbelots giapponesi piuttosto che commuoversi dell'invasione prussiana, o quando quell'altro « lavoratore di gioie•• anzi di èmau:v et cammees, che fu Teofilo Gautier, espri– meva il suo ideale di vita nell'augurarsi di poterla passare in riva al mare,« estetizzando :., come So• crate e Platone. Poi, la teoria, allora ribelle, per– corse il cammino che tutte le nuove teorie percor– rono: fu largamente, quasi universalmente, accettata; divenne precisamente, per un certo tempo, la teoria ufficiale dell'b1te1·nazionale letteraria europea. Ed ora, anzi oramai da qualche tempo, é incominciata la reazione. Ho io bisogno di ricordare a Mario Pilo i segni sempre più palesi di questa reazione, gli indizi sempre più chiari che oramai quella concezione, che riduce l'arte alla forma, all'armoniosità, alla vivacità del– l'imagine o del colore, è destinata a caderei No dav– vero. Mario Pilo conosce cerio meglio di me questi iudizì manifestantisi sempre più largamente, non solo nella letteratura, ma perfino in quell'altra arte, che alla forma sembrerebbe esclusivamente doversi limitare, che é la pittura. Chi pensi infatti ai quadri di Sacha Schneider si convince facilmente che oramai anche la pittura tende a farla finita con lo stupido compiacimento esclusivo della forma e ciel colore, e tende a immettere in queste estel'iorità un pensiero, dalla cui altezza si misura quella del– l'opera d'arte. Dunque, il giudizio su questo contenuto cli pen– siero non importa affatto l'obbedienz1 a • precon– cetti confusionisti », ma è uu giudizio che si ispira p1·ecisamente ai criteri artistici intesi appunto se– condo questa più moderna e pii, completa tendenza. Il che (si capisce) non implica per niente che l'o– pera d'arte debba essere « morigel'ata •· Ge,·minal. Bel-,tmi, Madame Bovary. sono capolavo,·i, benché immorali. Ma il Piacere, il 'P1•ion{o, le Vergini, in cui l'autore (resone impotente dal suo dilettantismo e dalla sua incoerenza artistica e filosofica) é stato incapace di portare la fiamma di una convinzione artistica profonda, e l'impronta di una poderosa e ferma concezione della vita, riuscirono (a me sembra) delle mostruosità; come riuscirono, secondo me, delle marionette le figure di quei romanzi, appunto perchè manca nell'autore la grande idea direttiva che, lungamente e amorosamente coltivata nella coscienza dell'artista., gli si sia trasformata in sangue capace di vivificare le figurazioni che egli crea. Del resto, ripeto, per terminare come ho comin– ciato, beato il Pilo che, giudicando « da critico d'arte », tro1•a che invece Claudio Cantelmo, per esempio, e le Vergini e la Demente del Sogno sono \qcat·oazioni « ben vive! ,. GIUSEPPE RENSI.

RkJQdWJsaXNoZXIy