Critica Sociale - Anno V - n. 17 - 1 settembre 1895

CRITICA SOCIALE 265 Per riescire a questo, le porse aiuto il suo proprio e bel trovato: il sistema delle fabb1·iche. li sistema delle fabbriche seppellisce l'ultima traccia di un interesse comune, la comunione ramiliare dei beni, e - almeno in Inghilterra - la dissolve. Con 0$-SO è divenuta la cosa piìt natumle del mondo che i fanciulli, non appena capaci al lavoro, non appena toccali i nove anni, provvedano a sè col proprio salario, considerino la casa paterna come una sem– plice e pensione> e rimborsino un tanto ai genitori pel villo e l'alloggio. E come sarebbe altrimenti! Forsechè l'isolamento degli interessi, che è il fon– damento del sistema della libertà. di commercio, saprebbe dare frutti diversi? ?llesso che sia in moto un principio, esso genera da sè le sue conseguenze, piacciano esse oppur no agli economisti. Ma l'economista non sa egli stesso a quale causa egli serva. Egli ignora che, malgrado tutti i suoi ragionamenti egoistici, egli non ò tuttavia che ua anello della catena del progresso generale dell'u. manità. Ignora che, dissolvendo tutti gli interessi particolari, egli non fa che spianare la via a quel grande l'i,·olgimento di cose, cui il secolo va in– contro: la riconciliazione cioè delrumanità colla natura e con sè stessa. La prima« categoria> determinata dal commercio ò il valore. Su questa, come su tutte le altre « ca– tegorie :., nessun dissidio fra i vecchi e i nuovi economisti; ai monopolisti, iu,•e1-o, nel loro furore dell'immediato arricchimento, non avan1.ava tempo per occuparsi di e categorie ». Tutto le contro– versie su simili argomenti p1-ovennero dai nuo,·i economisti. L'economista, vivendo di antitesi, conosce natu– ralmente anche un doppio valore: il valore reale o astratto e il valore di scambio. Circa la sostanza del valore reale vi furono lunghe polemiche fra gli inglesi, i quali consideravano le spese di pro. dazione come l'espressione del valore reale, e il rranceso G. B. S,ly, che pretendeva di misurare questo valore dalla utilità delle cose. La Iile pende dal principio del secolo, ed è sopita, non risolta. Gli economisti non possono risolvere nulla. Oli inglesi - particolarmente Mac Culloch e Ricardo - sostengono dunque che il valore astratto di una cosa è determinato dalle sue spese di pro– duzione. Beninteso, il \ 1 alore astratto; non già il valore di scambio, l'ef.Cchangcal.Jlevalue, il valore in commercio - questo ò tutt"un'altra facceada. Perchè soao le spese di produzione la misura del valore! Perchè - udile! udile! - perchè, nelle circostanze ordinarie, e astrazion fatta dal gioco della concorrenza, nessuno venderebbe una cosa a prezzo minore di quel che gli costa il produrla. « Venderebbef » E che c'ent,·a qui, il« vendere», se qui non si tratta del valore di scambio? Oh, ecco dunque che questo benedetto commercio, che ave– ,1amo messo fuori dell'uscio, ci è tosto tornato in casa dalla finestra - e che razza di commercio! Un commercio a cui manca l'essenziale del com- mercio, il rapporto della concorrenza! Prima un valore astratto; ora un commercio astratto, un commercio senza concorrenza; quanto dire un uomo senza corpo, un pensiero senza cer\•ello che possa pl'Odu1'1o.E non riflette dunque l'economista cl10. messa da un canto la concorrenza 1 viene a mancare ogni garanzia che il produttore possa vendere la sua merce giusto al prezzo del suo costo? Qnale confusione d'idee! Ancora. Concediamo per un istante che ogni cosa sUa cosi come l'economista pretende. Ciò ammesso, se taluno con enorme fatica ed enorme spesa pro• durrà alcunché di affatto inutile, di non desiderato da alcuno, questo prodotto val'rà esso le spese di produzione? Niente affatto - risponde l'economista - e chi mai vorrà comperarloY Eccoci dunque di bel nuovo non solo alla « utilit..-\• del Say, ma eziandio, con cotesto « comperare >, eccoci fra i rapporti della concorrenza. L'economista non riesce a mantener ferma per un solo minuto Ja sua astra– zione. Non soJo ciò che egli si affatica ad allonta– nare - la concorrenza - ma eziand io ciò che egli ha afferrato - rutilità - gli guizza acl ogni istante fra le dita. Il valore astratto e la sua determina– zione con le spese di produzione sono per l'appunto semplici astrazioni 1 cose non esistenti. Ma diamo ancol'a. ragione per un istante all'cco-– nomisla: come gli 1•iuscir;\di ~eterminare le spese di produzione, senza tener conto della concorrenza? Noi ,•edremo, studiando le spese di produzione, che anche questa « categoria :. è rondata sulla concorrenza, e anche qui si fa palese una YOJtadi pii, quanto poco l'economista sa mantenersi coerente alle proprie affermazioni. Se ora passiamo a Say, noi troviamo la mede– sima astrazione. L'utilità di una cosa è alcunchò di arfallo subiettivo, non ha in sè nulla di assolu• tamente decishro - fintanto almeno che ci avvol– giamo nelle antitesi essa non può certo decider nulla. Secondo questa teoria, gli oggetli più necessari do– vrebbero avere maggior valore che non gli articoli di lusso. La sola via possibile per arrivare a una determinazione in qualche modo obiettiva e ap])a- 1·entemente generale della maggiore o minore uti– lità di una cosa, non è. altro che il rapporto della concorrenza - e questo è ciò che dobbiamo riso– lutamente lasciare da un canto. Ma, messo questo da un canto, ecco che rienfrano in iscena le spese di produzione. Anche qui dunque, nostro malgrado, un termine dell'antitesi passa nell'altro. Tentiamo di gettare un po' di luce su questo gar– buglio. li valore d'una cosa implica entrambi i fat– tori, che le due parti litiganti si sforzano. abbiam visto con che bel risultato, di sepaPa.1'8. Il valore è il l'apporlo fra le spese di produzione e l'utilità. La prima applicazione del valore consiste nel deci– dere se una cosa debba in genere essere prodotta, se cioè la sua utilità controbilancia le sue spese di pl'oduzione. Solo allora pub pa,.larsi di una appli– cazione del valore allo scambio. Supposte eguali le spese di produzione di due cose, allora sarà l'utilità

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