ortiche le cristallizzazioni dell'ideologia (ma non i valori o i principi). È questa la lezione della sinistra vincente in sistemi maggioritari, in cui la propria identità deve passare al vaglio di un elettorato di massa assai più esteso di quello a cui ci si rivolgeva nella proporzionale, e per ciò stesso si deve adattare innovandosi continuamente. Credo che l'elettorato in Italia si sia comportato razionalmente, vedendo nei progressisti una proposta insufficiente (sul piano del programma, della leadership, dell'innovazione, dell'immagine, del messaggio, ecc,) ecome tale penalizzata. Appartiene alla razionalità o alla laicità del comportamento di voto anche il diritto di scommettere, di rischiare, di sognare, di sbagliarsi (mutando scelta semmai successivamente). I risultati usciti dalle urne esprimono una loro regolarità sull'asse destra-sinistra, o sul liberismo-statalismo. Le percentuali dei tre poli italiani sono pressocché la fotocopia dei risultati inglesi del 1992 (destra: 43% in Italia e in Gran Bretagna; sinistra: 32% in Italia, 35%, in Gran Bretagna; centro: 17% in Italia, 18% in Gran Bretagna). Ciò significa, a mio avviso, che c'è una dinamica sociale, culturale, politica simile nelle democrazie occidentali. Ovviamente ogni paese ha le sue peculiarità storiche, ma ci sono anche delle regolarità (espresse dalla dinamica del mercato e dello Stato sociale). In conclusione, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica le regole elettorali, bene o male (il secondo turno avrebbe favorito probabilmente una convergenza centro-progressisti), hanno funzionato, mentre non ha funzionato il tipo di soggetto politico messo in campo dai progressisti. Questo soggetto politico non è stato assolutamente adatto al carattere della competizione maggioritaria (basti pensare alla quesione della premiership). Esso ha avuto la testa, il corpo, le parole, i gesti, la faccia completamente immersi nella prima Repubblica. Non prendiamocela con le regole e/o con l'elettorato, ma anzitutto con l'insufficienza dei progressisti. {)!LBIANCO ~ILROSSO 1111 # 111 Affrontando i temi di prospettiva - e quindi entrando nel campo delle proposte operative - posti da Pietro Scoppola nel suo editoriale, sono fondamentalmente d'accordo con la sua idea generale di creare una forza politica di carattere federativo, andando oltre la logica dei partiti (della proporzionale, aggiungo), ma non contro i partiti. Tuttavia, francamente sento l'esigenza di esplicitare ancora più a fondo alcuni nodi, di sciogliere alcune ambiguità, di rigettare vecchi e nuovi tabù. La federazione non può essere intesa come una riedizione delle vecchie logiche coalizionali che mantenevano intatte le identità culturali ed organizzative. La federazione, o il partito confederato, ha senso solo se assume integralmente una logica competitiva maggioritaria. Mai più la riproposizione dei tavoli progressisti o di quello schema operativo. Il soggetto maggioritario ha bisogno certamente di una pluralità di apporti, di diverse tradi53 zioni, di diverse culture, dai cattolici agli ambientalisti, ai laici, ai riformisti socialisti e pidiessini. Ma guai a intendere questa pluralità come un patto consociativo spartitorio, in nome delle ragioni di rappresentanza di ciascuna forza, o peggio ancora come una paralisi decisionale. Il soggetto maggioritario (la federazione) deve poter decidere rapidamente - i tempi, si è detto, non sono più una variabile indipendente, e comunque le elezioni anticipate possono incombere - e sulla base delle reali rappresentatività di ogni singola componente. Per dirigere la prossima campagna elettorale occorre avere un unico programma di governo condiviso, una esplicita indicazione di premiership, una struttura organizzativa tecnicamente adatta alla competizione. All'interno del polo progressista, le uniche realtà sopravvissute sono il Pds e Rifondazione. Quest'ultima è inutilizzabile per una alternanza di governo e per un soggetto maggioritario. Dunque, no all'unità della sinistra, e sì ad accordi tecnici elettorali limitati. Il Pds ha il 20% del voto, oltre che una struttura organizzativa (per quanto vecchia e disfunzionale) e un reale radicamento territoriale. La federazione non può non avere nel Pds il suo punto di avvio principale. Pensare che il Pds sia un ostacolo e non una risorsa alla aggregazione federativa è un seguire i propri desideri e non la realtà. Naturalmente, dipende anche dal processo di innovazione interna al Pds se questo partito sarà un ostacolo o una risorsa. Ma non si può realisticamente pensare che questo partito si debba autolimitare nella sua potenzialità. Certamente le potenzialità espansive del Pds non sono sufficienti nella competizione maggioritaria, ma sono necessarie, una condizione sine qua non. La federazione non può allora che essere una serie di rapporti di federazione, bilaterali e/o locali, tra il Pds e le altre forze del polo progressita. È quello che Berlusconi ha fatto con Pannella e i cristiano democratici sul piano elettorale. Pensare che una forza con l'l % o il 3% possa condizionare più di tanto, cioè in rapporto alla sua forza rappre-
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