rio. Chiunque vuole candidarsi a rappresentare in parlamento i cittadini - questa dovrebbe essere la nostra regola - passi il suo noviziato «in collegio», sul territorio, dove affronterà prima della candidatura le primarie. Perché il messaggio dei cristiani impegnati e il messaggio dei progressisti raccolgono consenso tra i ceti medio alti e gli intellettuali e non penetrano (almeno al Nord e a Roma) nei ceti popolari? Perché non sono messaggi semplificanti mentre la videocrazia e il populismo di destra sono semplificanti. Non solo. Esistono anche risposte «liberal» e progressiste a problemi, a bisogni, a domande di valori (sia pure inespresse o rovesciate) che rischiano di apparire (e qualche volta di essere) «individualiste» e risposte neoconservatrici che rischiano di apparire «comunitarie» o «sociali». Dobbiamo analizzare criticamente i nostri errori intellettualistici o neo-illuministi di comunicazione e proposta sui temi drammatici del disagio sociale e in particolare urbano. Chi vive con gli spacciatori nel caseggiato, può non capire la proposta progressista o la giusta cultura dell'«educare e non punire» (è solo un esempio) perché il suo problema immediato è cacciare gli spacciatori e le cattive compagnie dei figli disoccupati dal cortile. Dobbiamo sforzarci di capire il tramonto della «coscienza di classe», del proletariato, la crescita della coscienza piccolo borghese anche in larga parte del «terzo escluso» non solo sui libri e non solo a tavolino. Ma appunto, sul territorio. Solo così si capiscono le borgate rosse o Mirafiori che votano Forza Italia e An. La crescita della coscienza piccolo-borghese anche nel «terzo escluso» indebolisce le attese di risposte solidali e collettive (non più sorrette, appunto) da un tessuto di identificazione ideologica o religiosa o di valori comuni forti) e allarga la fascia di attesa o di «disperata speranza» di risposte, e in soluzioni, neo-conservatrici. La sinistra o il cristianesimo sociale sono forti quando i diseredati non hanno sicurezze e diventano naturali alleati degli intellettuali liberal. Ma se ceti operai, piccolo-borghesi e giovanili, sono dentro i {)!LBIANCO ~ILROSSO 1111 tr-iè 11HA «due terzi» sicuri o apparentemene sicuri e temono di cadere nel terzo escluso, identificano il loro «sentimento» con il sogno «fai da te» televisivo o nella sindrome della paura dell'altro o della paura di esser stritolati proprio dalla macchina di sacrifici della solidarietà. Allora cresce la tentazione della soluzione «individuale»: piuttosto che spartire le perdite o dividere le risorse meglio la lotta della giungla o nuovi servaggi clientelari. Se poi il «presidente» è addirittura un imprenditore. Questo è il terreno della sfida prepolitica. Ma in realtà è il terreno della sfida politica. Anziché coltivarsi ognuno il proprie, orticello sempre più arido e difendere la propria sigla e il proprio spazio vitale, il proprio narcisismo e la propria dose di bonapartismo, si riuscisse finalmente a tessere una tela unitaria ... per la quale però ciascuno deve cedere la propria porzione di orgoglio, protagonismo e cer42 tezza di interpretazioni metodi interpretativi e linguaggio, acquisti. Se è vero che una buona parte dei voti per la destra vengono dall'elettorato democristiano e se è vero che non pochi quadri dei clubs di Forza Italia sono ex segretari sezionali o quadri dc, allora, come cattolici, bisogna prendere atto di due fallimenti. Un fallimento politico: in 50 anni il partito d'ispirazione cristiana non è riuscito ad educare il suo elettorato, che si è finalmente liberato ritrovando i suoi istinti potendo finalmente affermare la sua visione reazionaria e piccolo-borghese delle vita. L'altro fallimento che va guardato in faccia senza troppi veli, è il fallimento di una evangelizzazione. Almeno se i frutti sono questi esiti egoistici e reazionari, a trent'anni dal Concilio, di una parte del voto praticante anonimo disimpegnato. Se trionfa l'Italia del karaoke. Dossetti nella sua conferenza in meoria di Lazzati del 18 maggio 1994 è durissimo: «ci sono grandi colpe (non solo errori o insufficienze), ma grandi e veri peccati collettivi che non abbiamo sino ad oggi incominciato ad ammettere e deplorare nella misura dovuta. C'è un peccato, una colpevolezza collettiva: non di singoli, sia pure rappresentativi e numerosi, ma di tutta una cristianità, cioè sia di coloro che erano attivi in politica dei non attivi, per risultanza di partecipazione a certi vantaggi e comunque per consenso e solidarietà passiva». Dunque Dossetti propone, e noi crediamo abbia ragione, «un cammino inverso a quello degli ultimi vent'anni»: «cioè mirare non ad una presenza di cristiani nelle realtà temporali e alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma ad una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente politico. Ma la partenza assolutamente indispensabile mi sembra oggi quella di dichiarare e perseguire lealmente - in tanto baccanale dell'esteriore - l'assoluto primato dell'interiore, dell'uomo interiore».
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