plificazione brutale che caratterizza la politica di questo fine secolo. A mio avviso, è questa semplificazione, che doveva essere posta alla radice della opzione per un sistema bipolare, di una riaggregazione delle forze politiche secondo i nuovi parametri delle scelte politiche di fondo. Un tale dato doveva contare più della stessa questione morale italiana, e semmai il degrado decennale della politica italiana doveva essere ricondotto proprio al venir meno di una logica, di una coerenza delle scelte in presenza di un quadro mondiale mutato. In una analisi di parecchi decenni fa Paolo Pombeni aveva scritto che alla base dell'accordo sulla Costituzione italiana c'era in realtà molto di più di quello che si è convenuto chiamare un «compromesso», c'era una analisi comune sulle ragioni della crisi degli anni trenta. Lascio a Pombeni il giudizio storico; ma credo che il giudizio politico su oggi debba essere analogo. Non supereremo le logiche proporzionalistiche interne ali' alleanza progressista se non svilupperemo un giudizio in comune sull'oggi del mondo, da cui emergano le ragioni di un antifascismo per «oggi», di una opzione insieme per un bipolarismo più forte e una collocazione in esso sul versante della sinistra. Ed è questo passaggio che può rendere operante quell'obiettivo della «contaminazione» fra culture senza la quale non si esce dalla logica proporzionalistica delle diverse identità. È dunque nel contributo che si saprà dare a questa elaborazione, non nella logica della contrattazione e dei numeri (quegli stessi per cui oggi sembra che i Verdi riscoprano la loro possibile autonomia perché hanno preso il 4% alle europee, non perché esprimono una esigenza politica inevadibile) che si misura il futuro delle grandi tradizioni politiche. Ha ragione dunque Scoppola a voler superare il carattere di operazione di vertice che ha avuto il polo progressista; e, per fortuna, il Gruppo parlamentare progressista, nella logica concreta del suo lavoro quotidiano, di D!LBIANCO ~ILROSSO 1111AA11HA commissione e d'aula, si muove già di fatto su un modulo assai più integrato in cui anche i dissensi interni sono segnati da altro che dalle appartenenze formali. Ma è coerente con questa ipotesi la proposta di una ampia federazione di forze democratiche o essa ci riporta comunque proprio a quell'accordo di vertice fra soggetti su cui rischia di articolarsi inevitabilmente anche la «mobilitazione di base»? In verità a me pare che sia la federazione sia l'ipotesi, finora molto generica di «partito democratico», restino aldiqua della sfida in questione, sulle forme da dare alla domanda di partecipazione politica che l'opposizione è chiamata a soddisfare. Rispondere a questa domanda è comunque condizione essenziale per il rovesciamento degli equilibri; lo è come antidoto allo strapotere televisivo e alle tentazioni di omologazione, lo è come terminale necessario dell'esercizio di un potere di controllo parlamentare efficace e visibile, lo è come costruzione in itinere del consenso intorno a un programma di governo in cui ci si possa riconoscere come il proprio programma. Ma è anche un passaggio strategico intorno a cui si articola il senso stesso della discriminante fra destra e sinistra, in quella distinzione fra partitocrazia e ruolo dei partiti, nella forma dell' «andar oltre la logica dei partiti ma non contro i partiti». Nel disegno di questa forma evitiamo di cadere nella trappola del nominalismo, per cui sia sufficiente non chiamare una cosa partito per essere già fuori della sua logica. Ciò che è certo è che la forma da offrire a questa cittadinanza democratica direttamente capace di impegno ma anche immagino politicamente mirata, cui ci richiama Scoppola, deve essere insieme articolata e unitaria, deve riflettere e dare spazio alle diversità ideali e locali, ma saperle condurre, senza prevaricazioni, a scelte comuni, a una strategia e a un programma di governo coerente e compatibile. Confesso che privilegerei nettamente una ipotesi di articolazione che parta da grandi aree tema37 tiche, in cui si possano spendere competenze, professionalità, esperienze interessi, intorno alle grandi sfide della politica nazionale, (l'università e la ricerca, la scuola, le politiche sociali, la democrazia economica, la politica internazionale, le autonomie locali ecc.) rispetto a una articolazione per appartenenze ideali e storiche che chiuderebbe ognuno nelle gabbie della propria ripetitività. E tuttavia il realismo ci suggerisce di tenere per ora aperta anche questa via come rispetto delle autonomie e dei tempi di maturazione dei processi, ma a condizione che intanto maturino forme di impegno sul versante di un lavoro comune mirato. Ciò su cui sono, e non da oggi, d'accordo è che il passaggio decisivo per rendere vincente questa ipotesi sta nella scelta che farà il Ppi: decisivo non tanto, e in parte non più, per la logica dei numeri ma proprio per il carattere e il segno della opposizione che dobbiamo costruire. L'alternativa democratica non nascerà dalla somma di due forze ognuna singolarmente autosufficienti, da un accordo di vertice fra sinistra e centro, riproducendo al limite l'unità delle sinistre e l'unità dei cattolici. Questo significherebbe respingere indietro il processo di rinnovamento delle culture politiche italiane, mentre sono già nettamente emersi e intrecciati una sinistra non arroccata nella sua nicchia ideologica e un centro non appiattito sulle mediazioni a ogni costo. C'è ormai (non ho più spazio per dimostrarlo) una convergenza oggettiva di valori, da una parte, e di interessi, dall'altra, ieri identificati con il centro o con la sinistra, che oggi non sono più difendibili separatamente, e questo lega il destino di forze fino a ieri storicamenti divise dalle loro culture politiche. Questa è la novità profonda che il mutamento del quadro politico italiano ha messo in campo e che non consente di restare arroccati a vecchi schemi.
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